13 maggio 2006

Il turismo italiano? Lo salveranno i musei

di Domizia Carapòli
E adesso tutti al museo. Nel generale calo registrato dal turismo nel nostro Paese quello che resiste è il turismo culturale, anzi è in netta crescita. Lo dimostrano i dati raccolti nel 2004 e nel 2005 dal Touring Club Italiano ed esposti nel Dossier Musei che presentiamo in anteprima ai nostri lettori. Ottantun milioni di turisti (per il cinquanta per cento stranieri) hanno visitato nel 2004 le nostre città d’arte, con un significativo aumento di quasi il 25 per cento rispetto all’anno precedente.È chiaro dunque che sole, mare, pizza e spaghetti non sono più da tempo gli elementi trainanti, soprattutto per i visitatori stranieri che cercano altre mete, soprattutto pinacoteche, monumenti e aree archeologiche, tutto quel vasto, prezioso patrimonio ereditato nei secoli e che viene oggi definito con il termine di moda di «giacimenti culturali». Un patrimonio che, se da un lato si rivela sempre più una vera e propria «materia prima», un «petrolio» per l’industria turistica di oggi e di domani, dall’altro lato è vittima di continue aggressioni dovute a speculazione, a cattiva utilizzazione del territorio e soprattutto a una concezione gretta e superata del turismo visto come sfruttamento immediato, costi quel che costi, anche il depauperamento irreversibile di quel «giacimento» da cui si attinge l’energia. Ne è una drammatica conferma la sciagurata cementificazione che da Jesolo a Termoli, da Rapallo alla costa calabra ha coperto le nostre coste di una squallida edilizia fatta di materiali poveri e deperibili, e oggi ha una grossa responsabilità proprio nella fuga dei turisti che preferiscono, per esempio, i luoghi ancora preservati della costa dalmata.Sono le contraddizioni dell’Italia. Un Paese che si dibatte fra un vetero statalismo per cui tutto ciò che è arte deve per forza appartenere allo Stato o comunque agli enti pubblici (come se il signor Pubblico fosse sempre un attento e oculato amministratore) e una recente tendenza a vendere al miglior offerente ingenti porzioni di beni di proprietà statale. Dove l’interrogativo da porsi, semmai, non è la proprietà del bene, quanto l’uso che ne verrà fatto, le misure esistenti per la tutela, le garanzie che il proprietario, pubblico o privato, offre affinché sia preservato nel tempo.E torniamo al «turismo culturale». I Musei Vaticani, il Palazzo Ducale di Venezia, gli Uffizi di Firenze sono fra le mete più frequentate dai visitatori italiani e stranieri, con cifre da capogiro (quasi 4 milioni nel 2005 per i Musei Vaticani, come si legge nelle tabella qui sotto). Ma è solo dal 1993 che con la legge Ronchey (dal nome dell’allora ministro dei Beni Culturali Alberto Ronchey) si è riusciti ad ammodernare la gestione dei musei, consentendo l’ingresso dei privati nei cosiddetti «servizi aggiuntivi». Che non sono soltanto caffetterie e bookshop, ma anche biglietterie più efficienti e on line, prolungamento degli orari e apertura nei giorni festivi. Nel libro-intervista Il fattore R (Rizzoli) proprio Ronchey ricorda a Pierluigi Battista l’estenuante battaglia ingaggiata per l’orario di apertura. E chi è milanese non avrà dimenticato il lungo ostracismo opposto dal personale all’apertura della Pinacoteca di Brera nei mesi estivi.L’aumento dei visitatori nelle città d’arte, nelle pinacoteche, nelle gallerie e financo nei musei a carattere scientifico (sorprendenti i dati dell’Acquario di Genova che nel 2005 ha accolto un milione e trecentomila persone) è un dato senza dubbio positivo: significa che il turismo «mordi e fuggi» sta cedendo il passo a un modo più civile e ragionato di viaggiare e di vedere. Un fenomeno che va di pari passo con il crescente successo delle grandi mostre (ai vertici dell’interesse in questo momento la rassegna su Antonello da Messina alle Scuderie del Quirinale a Roma e «La danza delle avanguardie» al Mart di Rovereto) e con l’accorrere della gente a manifestazioni come le Giornate di Primavera del Fai (quando si aprono luoghi d’arte e dimore gentilizie solitamente chiusi al pubblico) e alle Settimane della Cultura.Anche in questo caso, importante è non trasformare a tutti i costi la cultura in «evento». Nel libro già citato, Ronchey ironizza sulle «smanie sagraiole o festivaliere» del sindaco di Roma, Veltroni, «quella fissazione di rendere la città borgatara e insieme plurietnica, moltiplicando la chiassosa “insiemitudine” di notte oltreché di giorno. Eppure - conclude - scriveva Seneca nella settima lettera a Lucilio. “Mi domandi che cosa si debba specialmente fuggire. Ti rispondo, la folla”». Un’osservazione pungente che offre lo spunto a un’altra considerazione. È un bene che il turismo diventi sempre più culturale e si rivolga alle città d’arte e alle aree archeologiche, ma che cosa si fa per disciplinare e razionalizzare l’afflusso di milioni di persone? Il Dossier Musei del Touring cita i due milioni e trecentomila fra uomini, donne e bambini che nel 2005 hanno visitato gli scavi di Pompei. Sono cifre da brivido. In tutti i sensi. È stato lanciato proprio lo scorso anno, credo, l’allarme sul rischio che corre la più grande e illustre area archeologica d’Europa, non più per la lava bensì per il calpestìo di milioni di passi, per il vandalismo, l’immondizia, l’asportazione di frammenti di pietra o di pittura, l’insufficienza dei sistemi di tutela e di sorveglianza.L’esultanza per i dati in crescita del «turismo culturale» non deve far dimenticare questi problemi. Non si possono condurre milioni di persone in uno stesso luogo senza predisporre adeguate misure per difenderlo. In Perù, il governo ha limitato l’accesso dei visitatori alle rovine di Machu Picchu a non più di cinquecento persone al giorno. L’orgoglio per la fama di cui godono i nostri «giacimenti» non può andare disgiunto da una regolamentazione severa per conservare un patrimonio che ci è stato tramandato da artisti, committenti e mecenati ai quali l’arte stava molto a cuore quando il turismo non era ancora stato inventato.
«Il Giornale» del 13 maggio 2006

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