28 giugno 2006

La scienza magra (Andreoli 6)

«CI SIAMO LIMITATI IN QUESTA ANALISI AI DECENNI DELLA CRISI DELLE SCIENZE E QUINDI A QUEI FATTI CHE HANNO CARATTERIZZATO IL CLIMA DELL’INIZIO DEL NOVECENTO. POICHÉ DA LÌ COMINCIA IL GRANDE DECLINO CHE OGGI, NEL TERZO MILLENNIO, APPARE IN TUTTA LA SUA DRAMMATICITÀ, FINO A FARE DEL PRESENTE UN TEMPO DOMINATO DALLA STUPIDITÀ, DA UN’INVOLUZIONE CHE SEMBRA APOCALITTICA NON TANTO PER ORDINE DI UN DIO STANCO, MA DI UN UOMO CHE SI È PERSO, SENZA RIFERIMENTI E SENZA PIÙ PRINCÌPI»
di Vittorino Andreoli
1 Il percorso della scienza vale anche per la filosofia: la crisi del kantismo è il segnale che anche l’ultima fortezza si rompe - 2 Il mistero non è più un primitivismo che aspetta di essere superato dalla civiltà della ragione, come sognava Vico - 3 Freud fa una operazione elegantemente disperata, quella di dare un senso all’ignoto e di razionalizzare l’empirico - 4 Si staglia un pericolo mortale non solo per il singolo, ma per una intera società e forse per un’intera civiltà
SCIENZA E TECNOLOGIA. Non è facile dar compiutezza a un viaggio nella scienza, anche se limitato allo scenario in auge tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento: una fase in cui nel giro di pochi anni cambia il clima, e una scienza definita fino a quel momento "classica", nel senso di un sapere elevato su basi indiscutibili e sicure, ritenute quindi perenni, si sovverte ed entra in crisi.
È importante rilevare questo aspetto, perché la scienza molto difficilmente la si coglie nell’insieme. Abitualmente ci si sofferma sul particolare risultato colto da una disciplina, e su questo ci si ferma, considerando il resto come pura elucubrazione che non interessa gli scienziati. Una meta-scienza, che si gioca in un àmbito non lontano dalla filosofia e che dagli scienziati viene percepita come una congettura, mero gioco di parole in un percorso della mente, mentre l’àmbito proprio della scienza è il particolare.
Uno degli esempi più significativi di tale discrepanza, la diversa sensazione cioè tra l’analisi di un dato e l’insieme dei dati scientifici, lo si trova indubbiamente nella figura quasi eroica dello scienziato Albert Einstein e nella sua scoperta per eccellenza, la relatività. Indubbiamente il risultato da lui raggiunto è straordinario, poiché scopre una visione che nel campo della fisica scombina, e in parte sostituisce, la precedente, ma che in sé appartiene a quelle scoperte che sanno di crisi, crisi dei princìpi in generale: come se ci si venisse a trovare in un mondo diverso, e alle precedenti certezze dovesse subentrare solo una sorta di relativismo aperto.
Sono affascinato dall’èra di Einstein, che considero uno dei più grandi fisici della storia. Questi ha contribuito a mutare non solo il campo degli studi cui si era applicato, ma la stessa percezione del mondo e dell’uomo nel mondo, e ad abbattere certezze che almeno da tre secoli – dai tempi di Newton – apparivano consolidate. La scienza non è più un forziere di certezze e verità, c he anzi, proprio a partire dalla crisi scoppiata a cavallo tra Ottocento e Novecento, appaiono termini superficiali, da abbandonare. Si può legittimamente affermare che l’azione condotta in quei decenni a riguardo della scienza classica è più "destruens" che non caratterizzata da una fase costruttiva nuova, seppur non vi sia dubbio che per ricostruire bisogna prima demolire. Ma se la distruzione si è snodata nell’arco di qualche decennio, è comprensibile che una nuova visione del mondo non ci sia ancora, e quindi che un secolo non sia stato ancora sufficiente per ricostruirla.
Guardando alla storia si ha l’impressione che esistano climi culturali tra loro in successione: a quelli di grande costruzione ne subentrano altri di incertezza e di scompaginamento.
Nel Rinascimento tutto era come fiorito, e infatti si assisté a una grande innovazione nelle arti e nelle lettere, mentre la scienza – quella di Bacone e Galilei –, non ancora nata, era forse in preparazione.
Poi ci sono fasi che sembrano di distruzione, e persino di vuoto, in cui è difficile reperire qualche cosa, qualche dimensione degna almeno di essere ricordata. Il che vale puntualmente per il periodo storico al quale ci stiamo dedicando, all’insegna di una distruttività che impressiona e che vediamo specchiarsi persino nella pittura, in particolare nell’espressionismo tedesco, come nel senso di precarietà e di minaccia che aveva il volto della guerra. Si aggiunga la situazione di crisi che colpisce anche l’economia degli Stati Uniti nel 1929; come dire, pure il versante della sicurezza materiale e dello sviluppo vede la recessione, con la gente che muore letteralmente di fame e l’alcolismo che si fa endemico.
È la scienza che genera una tecnologia straordinaria sì, ma anche apportatrice di morte. Durante il primo conflitto mondiale si avverte l’orrore dei caccia bombardieri, e le micidiali armi per la distruzione del nemico singolo e di massa. I treni diventano mezzi di collegamento che facilitano lo spostamento degli eserciti d’occupazione.
Per chi volesse vedere poi nel secondo conflitto mondiale la prosecuzione del primo, ecco che il dramma della scienza applicata alla guerra diventa ancor più tragico, poiché dalla fisica delle particelle si arriva alla bomba atomica, strumento che solo a Hiroshima e Nagasaki annienta due intere città, lasciando ai sopravvissuti i codici di morte addosso, per passarli alle generazione successive a causa delle mutazioni genetiche subìte.
Un dramma, questo, in cui si collocano – a segno di un malessere diffuso – le storie emblematiche di due fisici – Ettore Majorana e Robert J. Oppenheimer – che di fronte alla bomba atomica entrano in crisi. Majorana scompare, forse in un monastero, o forse suicida nelle acque del Mediterraneo, mentre Oppenheimer (responsabile delle ricerche a Los Alamos) è processato con l’accusa di avere trasmesso informazioni sulla "bomba" all’Unione Sovietica di Stalin, e finirà per pentirsi dei sui stessi studi.
Si giunge all’inquinamento atmosferico, passando per i danni prodotti dalla ricerca, di cui la talidomide è un esempio lampante nel campo della medicina e della farmacologica. Assieme a molte vittorie scientifiche nei singoli settori e a indubitabili vantaggi in vari campi, è difficile non aver presenti anche i disastri. Si fa pressante ed endemica la paura per il rischio del nucleare. Basterebbe citare Cernobyl, ma anche la diossina della nostra Seveso, e poi guardare alle tante guerre "minori", a cominciare dal Vietnam, e alla tecnologia nucleare che si è sviluppata all’ombra dello scudo spaziale.
A partire da quel primo decennio del Novecento, insomma, si può individuare una serie continua di catastrofi e procedere a un elenco senza fine dei rischi di morte legati alla scienza, rischi che insidiano il singolo ma anche le masse.
Con la tecnologia infatti, la scienza passa dal bacino ristretto degli scienziati a quello assai più ampio delle popolazioni, che magari non percepiscon o la profondità e la specializzazione delle singole ricerche, ma ne avvertono il senso generale e il pericolo per la loro vita.
E qui non si possono non ricordare i problemi legati non solo alla biologia ma anche alla tecnologia sugli embrioni, e quindi agli strumenti per impedire che si origini la vita oppure per interromperla mentre si sviluppa. Comunque la si consideri, si tratta di una dimensione che crea angoscia, e suscita gli interrogativi più radicali. Non si può più dire insomma che la scienza trovi riparo nel segreto dei laboratori, anche perché, diventando essa molto costosa, ha bisogno di grandi supporti e diventa materiale di promozione da parte di chi amministra la società, da coloro cioè che devono rendere conto ai cittadini di come il denaro pubblico viene speso. Così, da disciplina che produce certezze, la scienza diventa una via per conoscere i dubbi, fino alla teorizzazione che essa non può produrre altro che dubbi. Ogni risultato infatti è parziale e in più falsificabile, cioè contiene almeno un’aporìa che necessita di correzione. Ciascun dato perciò non può che essere transitorio e parziale.
In altre parole, la scienza appare come una modalità faticosa per ricercare la verità, senza incontrarla poi mai, anzi sbagliando per il solo pensiero di riuscire a scoprirla. La scienza apporta, semmai, correzioni a errori, mentre però ne veicola altri: "verità" storiche transeunti.
Se si osserva bene quanto è avvenuto nella fisica di Werner Heisenberg, di Paul Dirac e di Albert Einstein, non si può certo negare che essa abbia compiuto grandi progressi, ma semplicemente perché aveva tanto da distruggere. Uno scenario che dal Seicento in poi si era solo allargato, al pari di una delle nostre metropoli in espansione continua, come ad esempio Tokyo che ha raggiunto i 26 milioni di abitanti.
Quando ci si chiede perché la ricerca sia oggi così poco sostenuta non si tiene mai conto che è diminuita fortemente la fiducia in essa, che non ha più fascino, esse ndo anzi percepita come un affare pericoloso e foriero di disgrazie. A questo riguardo, basta considerare l’atteggiamento generalmente adottato nei confronti degli organismi geneticamente modificati, a partire dalle culture agricole. Ebbene, si tratta di scoperte che la gente non accetta, anche quando gli scienziati si fanno garanti della sicurezza alimentare, e anche in presenza di un’indubbia convenienza a livello di prezzo. Ormai c’è paura per ogni innovazione. E trovo che sia difficile convincere il mondo a sostenere una ricerca che fa paura: alcuni eventi drammatici sono ancora assai vivi nella memoria, e per molte famiglie o nazioni ne perdura la realtà.
Se si pensa al concetto di natura contrapposta a tecnologia e ai sistemi che chiamiamo biologici, si può senz’altro intravedere questa paura, in parte almeno inconsapevole.
La natura non è infatti un "hortus conclausus", come a suo tempo pensava anche Aristotele, ma un mondo che si è fortemente modificato: non solo rispetto all’antico ma anche in confronto a pochi secoli fa.
Un mondo modificato anche da una tecnologia capace di interventi acuti, ben diversi da quelli di cui sono capaci anche scoiattoli e uccelli, animali capaci di apprendere operazioni nuove rispetto al passato. Domina questo scenario un preciso ideale di natura, insieme all’idea che la ricerca e la tecnologia non debbano intaccare la natura medesima, quasi fosse una statua, qualcosa che l’uomo deve rispettare e trattenersi dal rovinare.
È di certo possibile far danni, ma non è lecito inventare una natura che non esiste e porre in relazione con essa l’uomo come se fosse un soggetto estraneo, che la rovina sadicamente, alla stregua di un démone. Una simile mentalità frena la ricerca e si esprime in un atteggiamento anti-scientifico, magari sostenuto da chi al tempo stesso chiede di sovvenzionare la ricerca.
La scienza che doveva soppiantare la filosofia si fa dunque debole, esile, persino malata.

FILOSOFIA. A questo proposi to però non si può certo dire che la debolezza della scienza abbia incrementato il potere della filosofia. Se ci soffermiamo infatti sugli anni della crisi, a cavallo tra Otto e Novecento, possiamo renderci conto che in realtà anche la filosofia si è indebolita, sino a diventare filosofia della crisi. Basterebbe citare la fenomenologia, corrente che si forma attorno a Edmund Husserl proprio a partire dai primi anni del Novecento, ma che si allarga a Karl Jaspers e a Ludwig Binswanger. Una visione che si lega all’esperienza, all’essere qui e ora, e quindi alla vita. A conferma di ciò basterebbe citare il titolo quanto mai espressivo di un’opera fondamentale di Husserl, «La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale».
Da questa corrente filosofica promana un fascino capace persino di sedurre. Non può tuttavia sfuggire il senso di crisi che essa trasmette poiché rinvia ogni fondamento all’esperienza vissuta, e quindi alla relazione che proprio perché singolare è irripetibile. Così però viene a mancare di ogni sostegno obbiettivo, almeno nel senso che questo termine aveva nella filosofia di Kant, e che arrivava a includere l’universale.
Giunti a questo punto non c’è dubbio alcuno che il cammino sin qui percorso per la scienza potrebbe essere ripetuto per la filosofia. La crisi del kantismo infatti è il segnale che anche l’ultima fortezza si incrina, se non crolla addirittura. Viene meno una costruzione del pensiero, una conoscenza del mondo che dava certezza ed esibiva persino verità, al punto che molti avevano pensato che non si potesse andare oltre Kant, quasi che le sue opere costituissero le colonne d’Ercole del sapere umano. A questo panorama bisogna naturalmente aggiungere le filosofie esistenzialistiche e quelle che si sono radicate nell’empirismo più estremo.

SACRO. È inevitabile che la debolezza della scienza e della filosofia induca ad avvicinarsi al sacro e alle religioni, che sembrano fornire una risposta immediata e totale, sen za dubbi e senza parzialità: è la risposta della fede, un «credo quia absurdum», un percorso breve tra il bisogno e la sua risposta.
Del resto, perché contrapporre fede e scienza quando è fede anche l’accettazione di assiomi, di postulati, di ipotesi di ricerca che nulla hanno a che vedere con il metodo rigido e razionale, e tanto meno con la sperimentazione? La fede in un Dio si aggancia all’autonomia e concretezza di ciascuno e propone quei comportamenti che, al di là del significato specifico che ogni religione vi attribuisce, servono ad allontanare la paura, a controllare l’angoscia del vivere che si accentua poiché la vita si lega a una specie di filo di ragno che sembra sempre sul punto di rompersi.
Il problema si allontana sempre più dalla scienza "pura" e si lega ai miti, alla magia e persino alla metamorfosi, tanto che si scoprono sostanze che sembrano produrla rapidamente.
Si ritorna al misticismo delle droghe, che hanno avuto una lunga storia presso i popoli primitivi e che adesso entrano nelle società avanzate colte dalla paura.
Ai princìpi della logica scientifica e alle categorie della filosofia si sostituiscono gli empirismi pratici, la visione di mondi senza un futuro che nessuno garantisce e che si fa misterioso. Il mistero però non è più un primitivismo che aspetta di essere superato dalla civiltà della ragione, come sognava Giambattista Vico, ma una dimensione sopravvissuta alla scienza, che nel frattempo è morta.

INCONSCIO E PSICOLOGIE. Dilaga l’inconscio, e questo sembra persino un paradosso se solo pensiamo al nome con cui s’impone questa dimensione nascosta in ciascuno ma capace di guidare lungo percorsi comportamentali che non hanno scelta e non si attivano sulla base di una logica razionale.
Per secoli sul comportamento dell’uomo avevano dominato il capire e il volere, nella convinzione che con la ragione si potesse discernere il bene e separarlo dal male, e che poi con la volontà si riuscisse a scegliere il primo e rinu nciare al secondo. Su questi parametri si dipingeva l’uomo libero, in grado di capire il mondo che la scienza svelava sempre più nei suoi veri connotati come premessa per intessere una vita più opportuna e giusta. Su questi stessi parametri si fondava la pedagogia: sviluppando la ragione e poi rinforzando la volontà l’uomo poteva assurgere alla sua dignità e servire la verità.
Nella seconda metà dell’Ottocento si comincia a parlare di inconscio, ancor prima della sua proposta organica da parte di Sigmund Freud. L’intento è di sostenere che il comportamento non sia riducibile al capire e al volere poiché nell’uomo agiscono forze oscure collocate oltre la coscienza, delle quali pertanto non c’è consapevolezza. Se così è, significa che si tratta di forze non comprensibili – almeno razionalmente – e non dominabili con la volontà, poiché sfuggono persino alla loro identificazione (e senza identificazione non si può esercitare alcuna scelta).
Ciò che di oscuro si agita dentro l’uomo veniva già anticipato dalle correnti romantiche: ma si trattava di ombre che si coglievano in qualche figura, ad esempio in tutti i grandi personaggi dell’arte usciti da uno "Sturm und Drang", da una sorta di tempesta emotiva. Un simile aspetto s’imponeva con realizzazioni che, per quanto estranee al senso dettato dalla ragione, si proponevano come prodotti dell’uomo, sue creature. Ora invece l’inconscio s’intravede in tutti gli uomini come qualcosa di strutturale.
C’è come la certezza d’un incerto, la presenza di uno sconosciuto che può giungere persino a dominare, un demone che può possedere l’uomo senza che egli possa fare nulla.
Si mettono in gioco, così, la libertà e la responsabilità. È di questo periodo la dichiarazione che l’uomo può compiere gesti senza la capacità di capire e di volere ciò che fa. In queste condizioni egli non può essere ritenuto responsabile dell’azione e del danno che consegue a quel comportamento. Ma se l’inconscio – e dunque quell’ombra di cui si dicev a poc’anzi – è presente in tutti, e se addirittura esiste un inconscio non solo individuale ma collettivo, come sostiene Carl Gustav Jung, allora non è forse l’intera specie a trasformarsi in un’entità governata non da ragione e da volontà ma dall’inconscio collettivo che vuole qualcosa che la coscienza ignora? E se lo ignora, come dominarlo? E come educare al controllo di ciò che è sconosciuto?
Freud tenterà di dare un volto comprensibile a questo mostro sconosciuto che ci possiede, e lo farà proprio per non entrare nel dominio della religione rimanendo invece nell’àmbito della medicina e persino della scienza, poiché questa era la sua provenienza. Ma questo mostro rimane sempre nelle vesti di un limite, di qualcosa che sfugge, anche se lo psicoanalista lo può rincorrere con la sua tecnica.
Freud compie un’operazione elegantemente disperata: dare un senso all’ignoto, tentare di razionalizzare l’empirico e il misterioso.
D’altra parte, ci si potrebbe chiedere: che senso ha avuto – e ancora ha – domandare uno statuto scientifico alla psicoanalisi, se la scienza nelle forme più pure della matematica e della fisica possiede un’aporìa che non la libera dall’irrazionale e non le permette di giungere a conclusioni di verità e di certezza? Non vogliamo entrare in questo tema specifico ma limitarci alla scoperta di una dimensione dell’uomo che mette in crisi la concezione classica di un’entità che di misterioso non dovrebbe aver nulla.
UOMO. L’uomo è un grande sconosciuto, un mistero, nonostante tanta ricerca e tanto "progresso". Lo stesso criterio di progresso a un certo punto viene anzi posto in discussione. A metterlo in crisi – si dice – sono i calcoli sulla valutazione delle risorse alimentari ed energetiche del pianeta che non sarebbero in grado di soddisfare un numero giudicato già troppo alto di viventi. Il Club di Roma, coordinato da Aurelio Peccei, comincia a preconizzare la fine del pianeta per effetto di un consumo che lo devitalizzerebbe. Un’anali si che evidenzia soprattutto i limiti dello sviluppo (si vedano, oltre ai rapporti dell’istituzione, anche Aurelio Peccei, «Quale futuro?», Biblioteca dell’Est, Mondadori 1974, e «La qualità umana», Biblioteca dell’Est, Mondadori 1976).
Si aggiunge un’altra dimensione che sembra persino ridicola: l’uomo deve fare i conti con i rifiuti che egli stesso produce e che potrebbero seppellirlo. Un consumo che, così descritto, sa di idiozia, poiché non è segnale di benessere ma di una sorta di dipendenza che produce allo stesso tempo la morte del pianeta e dell’uomo. Ma l’uomo è anche spaventato: non crede più alla scienza, e di fronte a ogni suo risultato si domanda cosa veramente nasconda e se essa non sia invece uno strumento di potere, un’arma cioè che i potenti usano contro i poveri o i più deboli. Con il nazismo la tecnologia delle armi di distruzione mostra la crudeltà non solo dell’uomo ma di un’intera nazione: che è la più forte, e si mostra come la più crudele.
La scienza come terrore e paura finisce per trovarsi collocata nel cielo assieme agli dèi e alle potenze numinose da cui nascono le correnti apocalittiche.
Nella cruda descrizione fatta dal Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij – siamo nel 1880 – costui afferma che l’uomo ha bisogno di un pezzo di pane e di un padrone cui delegare la propria libertà e ubbidire. Questo romanzo è un richiamo straordinario al problema del male che ormai si fa dominante e non sembra risolvibile, almeno non dalla scienza. È un male che coesiste con l’uomo, come sua parte costitutiva, un male cui si lega un dolore ineliminabile e tremendo.
La scienza dunque non domina più lo scenario dell’uomo: lo affianca piena di dubbi, di limiti, di aporìe, senza più princìpi, o almeno senza quelli della certezza e della verità, sostituiti dai princìpi dell’impotenza e del relativismo che la detronizzano. È come se si fosse colto il limite intrinseco al procedere stesso della conoscenza, per cui si misura il mondo con la mente dell’uomo che è ignota, o almeno sfugge nella sua completezza e persino nella sua funzionalità. È come misurare una distanza senza conoscere l’unità di misura che la determina, quasi che il "metro" fosse un pressappoco, un’entità sconosciuta per misurare ciò che è indeterminato.
È il problema della mente dell’uomo, che si pone questioni e non sa darsi risposte se non vaghe e mai prive di un dubbio: un dubbio che sarà diverso da quello originario ma che si trascina solo cambiando maschera, non concedendo mai alcuna certezza. In taluni momenti l’uomo ha cercato di convincersi e di credere in sé, nelle proprie forze, in altri invece ha sentito forte il senso del limite. Nel primo caso si rifugiava nella certezza di trovare la verità, nel secondo camminava più lentamente sapendo che tanto la verità non avrebbe mai potuto trovarla.
La storia si è sviluppata tra questi due poli: una vera maniaco-depressione del genere umano in rapporto al significato del mondo e al senso stesso dell’uomo. Talvolta si è pensato di dimenticare la parola "verità", scordando anche che nasceva dall’interno stesso dell’uomo e che quindi si trattava di una passione interiore che, se anche perde d’intensità, non può annullare la propria forza. La verità, dunque, vista come un bisogno.
C’è stato un tempo in cui si è avuta fede nella ragione, nel suo potere assoluto di discernere tra vero e falso, tra buono e cattivo.
Una ragione destinata a sovrastare quel sentimento che è invece il marchio dell’individuo, della sua irripetibilità. La ragione vista come universale, fondamento oggettivo, assoluto.
Poi si scopre che la ragione risente delle emozioni, e che persino nel cervello le strutture che regolano la ragione sono embricate con quelle dell’affettività, e che pertanto una separazione è solo utopica. Si scopre che il cervello non è nemmeno meccanico, ma una sua parte – il cervello plastico – si struttura e si modifica in rapporto alle esperienze e quindi in base alle rela zioni che il singolo stabilisce con altri esseri umani. Dunque il cervello cambia, si storicizza e finisce per stampare dentro la sua materia, nella carne, esperienze che quel singolo ha fatto e poteva non fare. Quindi il tempo e l’esperienza strutturano lo stesso organo che dovrebbe scientificamente "misurare" il mondo dentro cui l’uomo è calato.

EPICRISI. Ci siamo limitati in questa analisi ai decenni della crisi delle scienze e quindi a quei fatti che hanno caratterizzato il clima scientifico dell’inizio del Novecento, poiché da qui comincia il grande declino che oggi, nel terzo millennio, appare in tutta la sua drammaticità fino a fare del tempo presente un tempo dominato dalla stupidità, da una involuzione che sembra apocalittica non tanto per ordine di un Dio stanco ma di un uomo che si è perso, senza più riferimenti e senza più princìpi.
Il percorso, che in parte abbiamo alle spalle, è dunque quello di analizzare gli anni del cambiamento per poi passare al presente che descriveremo nella vita e nei comportamenti che si sono fatti cronaca.
Ma non abbiamo fretta. Vogliamo trattenerci sulla caduta dei princìpi, mantenere l’attenzione costantemente e quasi ossessivamente su di essi, sulle categorie: poiché, oltre che prestare attenzione a un itinerario che stiamo tracciando, vogliamo che dentro ciascuno si attivi una percezione dei princìpi perduti, la consapevolezza di che cosa è accaduto, anche se nessuno lo ha mostrato in maniera chiara e con l’impegno che un tale segnale di pericolo mortale avrebbe meritato non solo per il singolo ma per un’intera società, e forse per una civiltà. Che le civiltà finiscano, del resto, non è un delirio di qualche profeta di sventura.

Idee & figure

Paul Dirac
(1902 - 1984) fisico teorico, annoverato tra i fondatori della fisica quantistica. Nacque a Bristol, Inghilterra, ottenne il Ph.D. a Cambridge nel 1926, anno in cui sviluppò una formalizzazione della meccanica quantistica basata sull'algebra non commutativa di operatori. Nel 1928, partendo dai lavori di Pauli derivò l'equazione che prese il suo nome e che descriveva l'elettrone da un punto di vista relativistico, il tutto partendo dall'invarianza relativistica, sviluppando una teoria di grande semplicità. Questo gli permise, nel 1930, di predire l'esistenza del positrone, avente la stessa massa e carica dell'elettrone, ma di segno opposto. Il che aprì tutta una serie di ricerche sull'esistenza dell'antimateria. Nel 1933 ricevette il premio Nobel assieme a Schrödinger per la scoperta di nuove forme della teoria atomica. Morì a Tallahassee in Florida.

Ludwig Binswanger
(1881-1966) assistente di Bleuler e collaboratore di Jung, fu sensibile alla lezione psicoanalitica di Freud e divenne figura di primissimo piano di quell'indirizzo psicologico esistenziale che si richiama direttamente a Heidegger e alla fenomenologia di Husserl. Fra le sue opere tradotte in italiano, «Per un'antropologia fenomenologica: saggi e conferenze psichiatriche» (1970) e «Il caso di Ellen West e altri saggi» (1973).


Il personaggio
Il fisico della bomba atomica: Robert Oppenheimer
Celeberrimo fisico statunitense (1904 – 1967), diede importanti contributi nel campo della fisica, in particolare alla teoria quantistica, ma la sua fama è legata soprattutto alla costruzione della prima bomba atomica. Dopo essersi laureato all’Università di Harvard nel 1925 Oppenheimer eseguì ricerche in vari centri di fisica europei, fra cui quelli di Cambridge, Leida, Gottinga e Zurigo. Tornato in patria nel 1929, divise i suoi impegni fra L’Università di Berkeley e il California Institute of Technology, distinguendosi sia come ricercatore sia come maestro di fisica teorica. Oppenheimer eccelleva per chiarezza di idee, capacità di sintesi, intuizione, doti organizzative. Perciò, nel 1942, il governo degli Stati Uniti lo chiamò a dirigere il laboratorio di Los Alamos, nel New Mexico, per realizzare il Progetto Manhattan, ossia la costruzione della bomba atomica. In tale periodo Oppenheimer si circondò dei migliori fisici del mondo, ma, a differenza di molti suoi colleghi, fu sempre consapevole della propria parte di responsabilità per il lancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki. Il suo dramma si manifestò apertamente nel dopoguerra quando, come presidente del comitato consultivo della commissione per l’energia atomica, si oppose alla costruzione della bomba all’idrogeno e sostenne attivamente la necessità di mettere al bando le armi nucleari. Fu sconfitto. I suoi maggiori avversari furono due: il fisico Edward Teller, che diventò il padre della bomba all’idrogeno americana, e il senatore Joseph McCarthy, persecutore di attività antiamericane, la cui azione "inquisitoria" colpì anche Oppenheimer (che nel passato aveva manifestato simpatie per le idee socialiste). Nel 1954 subì un clamoroso processo al termine del quale gli fu vietato l’accesso ai segreti atomici. Rimase fino alla morte professore all’Institute for Advanced Studies di Princeton. Il premio Fermi, conferitogli nel 1963, volle essere il segno di una riabilitazione ufficiale che gli Stati Uniti concedevano, tardivamente, allo scienziato che più di ogni altro aveva mostrato le contraddizioni laceranti dell’uomo di scienza di fronte all’impiego dell’energia nucleare.

Il percorso
«La malattia dei Principia», «Crisi della Scienza, «Scienza, il ko dei filosofi», «Grandezza e miseria della fisica», «Scienza, realtà e mistero», «Vivere secondo natura?», «Matematica, la crisi di una grande signora», «Requiem per il principio di causalità», «L'eterno enigma spazio-tempo», «Natura senza legge?», «Il mondo salvato dai colori», «Biologia, gli scienziati a caccia del segreto della vita», «L'enigma della vita». Sono state queste le tappe della prima parte del viaggio di Vittorino Andreoli, parte dedicata alla scienza e che si conclude con questa puntata. Lo scopo, la meta della spedizione è la ricerca dei «principia» perduti, quelli che la nostra società sembra avere smarrito, esponendosi a pericoli di portata incalcolabile. La morte di una civiltà - tale è il rischio che per Andreoli incombe sull'Occidente - non avviene infatti per un intervento traumatico improvviso, che in genere ne è solo la causa apparente o comunque ultima in ordine cronologico: essa si consuma nell'oscuramento di fattori spirituali portanti, in un decadimento progressivo che può passare inosservato, o largamente sottovalutato.L'uomo di oggi, in particolare, si trova nel mezzo di un guado: è diviso tra la fiducia cieca e ingenua in una tecnica a cui ha appaltato la sua realizzazione/felicità e i timori per l'incontrollabilità della realtà circostante, di un contesto che appare sempre più scardinato, caotico, che rigetta rabbiosamente quelli che sono stati i suoi riferimenti più saldi e profondi. È un uomo che, dietro la vacua sicurezza del benessere materiale, resta in ballo di forze invisibili che lo guidano dove lui certamente non vorrebbe andare, se solo fosse consapevole della vera destinazione. Quella che Andreoli si propone non è però una semplice riedizione del passato, ma in primo luogo una rivisitazione dei passaggi che hanno portato la nostra cultura a questa situazione drammatica. La comprensione dei perché di una metamorfosi e di una deriva tanto radicali, acceleratesi a partire dal '500 '600. In secondo luogo la valutazione di cosa può essere riattualizzato, riformulandolo, di un lascito che rischia di scomparire. E di scomparire nell'ilare indifferenza di molti, troppi, impegnati in una sorta di nichilistico ballo sul Titanic. Scrive lo psichiatra veronese: «Vogliamo che si attivi una percezione dei princìpi perduti, la consapevolezza di che cosa è accaduto, anche se nessuno lo ha mostrato chiaramente e con l'impegno che avrebbe meritato».
Il libro
Freud 150 anni dopo
All'inizio tra psicoanalisi e Chiesa, specialmente quella cattolica, fu guerra guerreggiata e ciò senza risparmio di colpi: da ambedue le parti si parlava di morte, un evento che ciascuno auspicava per l'altra. Poi gradualmente le opposte posizioni cominciarono a smussarsi. L'antropologia cristiana e quella psicoanalitica rimasero certo in contraddizione, ma subentrò fra di loro un distacco, un ignoramento reciproco e venne col tempo l'apprezzamento di singoli aspetti del campo avverso.
Si avviò così uno scambio fra psicoanalisti e credenti, andato avanti negli anni. La fisica delle particelle, la filosofia delle scienze e il pensiero dello psicoanalista Matte Blanco suggerirono similitudini insospettabili. Dal canto suo la gruppo-analisi, un derivato dalla psicoanalisi, avanzò l'idea di una possibile, per quanto problematica, sovrapponibilità tra antropologia analitica con quella propria della Chiesa. Per alcuni la Chiesa istituzionale, indipendentemente dal merito della sua realtà mistica, avrebbe addirittura maturato un debito con la psicoanalisi, come sostiene oggi Leonardo Ancona, nella sua ultima provocazione pubblicata da Franco Angeli.
Professore emerito di psichiatria all'Università Cattolica, psicoanalista e gruppo-analista, Ancona ha avuto come maestri Agostino Gemelli per la psicologia, Noel Maillox per la psicologia clinica, Ignacio Matte Blanco per la psicoanalisi, M. Foulkes-F. Napolitani per la gruppo-analisi. Ha ricevuto la medaglia d'oro per i benemeriti della scuola, la cultura e l'arte, ha promosso la fondazione della Coirag (Confederazione di Organizzazioni Italiane per la Ricerca Analitica sui Gruppi), della quale è stato il primo presidente. È autore di 10 volumi e di numerosi articoli scientifici. Esercita a Roma.
Leonardo Ancona, Il debito della Chiesa alla psicoanalisi, Franco Angeli, pp. 64, € 12,00
«Avvenire» del 7 maggio 2006

L'eterno enigma spazio-tempo (Andreoli 5)

IL PROBLEMA DELLE CATEGORIE SPAZIALI E TEMPORALI COPRE TUTTA LA STORIA DEL PENSIERO OCCIDENTALE. SI TRATTA DI DUE RIFERIMENTI OBBLIGATI: PER LA RAGIONE CHE PROCEDE PER SEQUENZE, E PER LA REALTÀ, LA MATERIA, CHE SI PUÒ DEFINIRE COME QUALCOSA CHE OCCUPA UNO SPAZIO. DOPO AVER ASSISTITO ALLA FINE DEL PRINCIPIO DI CAUSALITÀ, OCCORRE ADESSO PREPARARCI AD UN’ALTRA ESECUZIONE SCIENTIFICA: A QUELLA DI DUE RIFERIMENTI CHE COSTITUIVANO ALTRETTANTE MAGNIFICHE CERTEZZE

di Vittorino Andreoli
1 Sant’Agostino ha sviluppato una vera dottrina del tempo, mentre il pensiero precedente si era limitato a riferimenti non sistematici 2 Per Kant spazio e tempo sono enti mentali che usiamo per leggere la realtà, che imponiamo al mondo esterno fenomenico 3 Per Einstein le due dimensioni sono come fuse. La loro separazione è dovuta all’analisi e alla prospettiva dell’osservatore 4 In questo salto la fede nella visione di Newton e in quella di Euclide è definitivamente caduta
Il problema dello spazio e del tempo copre tutta la storia del pensiero occidentale. Si tratta di riferimenti obbligati per la ragione – che procede per sequenze – e per la realtà, per la materia, definibile come un quid che occupa uno spazio. Spazio, dunque, che è contenitore del mondo.
Dopo aver assistito alla fine del principio di causalità, occorre adesso prepararci a un’altra esecuzione scientifica: quella del tempo e dello spazio, con la scomparsa di una nuova certezza. Ma è bene farlo come nei romanzi gialli, partendo cioè dal momento in cui tutto appare tranquillo e anche la vita della futura vittima, del designato, si svolge dentro il fasto e la grandezza.

NELL’ANTICHITÀ CLASSICA. Si cominciò a discutere di tempo e spazio nella scuola eleatica, attiva intorno al V secolo a.C. Tale scuola aveva posto la propria attenzione sull’ente (ciò che è e non può non essere), e dunque sulla questione legata all’esistenza delle cose e al loro significato. Un tema, questo, che si incrociò subito con quello del tempo e dello spazio . Per Parmenide infatti l’ente è immobile e fisso, mentre per Zenone, colpito dalla molteplicità delle cose, esso si lega al tempo e allo spazio: i due parametri cioè entro i quali è contenuto il mutamento e si manifestano la qualità e la quantità delle cose. Si pose allora anche la questione del vuoto, e lo spazio vuoto divenne l’espressione del puro non-essere.
La scuola eleatica esercitò grande influenza anche su Platone, il quale legò il divenire e il cambiamento all’aspetto irrazionale del mondo, ritenendo invece fisso e costituito dalle idee il piano razionale ed eterno. Al mondo delle cose si contrappone dunque nel suo pensiero quello delle idee eterne: l’iperuranio.
Questo mondo – dice Platone – è geometrico. Una concezione che si chiarisce meglio in Euclide, secondo il quale lo spazio è concepito come estensione perfettamente vuota, continua e del tutto indifferente ai fenomeni, infinita e omogenea, tridimensionale.
È da qui, insomma, che parte la grande discussione in cui spazio e tempo diventano connessi al mondo e all’esistenza e ne costituiscono riferimenti essenziali.
Aristotele lega lo spazio alle cose, pur senza che lo spazio sia una cosa. Non c’è uno spazio che sia altro dagli oggetti materiali che contiene. Il luogo è connesso ai corpi come attributo, ma non si identifica con questi. Diversamente si dovrebbe ammettere l’assurdo di un luogo che si muova con il corpo che lo occupa. Aristotele afferma che lo spazio è «il limite immobile di un corpo che lo contiene». Se lo spazio è estensione, allora il tempo è successione, cioè mutamento. Per Aristotele «il tempo non è altro che il numero [mezzo per misurare la sequenza e la successione] del moto secondo un prima e un dopo» (Nat. Auscul., IV, 11, 5).

AGOSTINO & IL TEMPO. Platone preannuncia il pensiero cristiano, facendo del tempo una realtà generata: «Perché dei giorni e delle notti e dei mesi e degli anni, che non erano prima che il cielo fosse generato, allora con il costituirsi di esso egli produsse le generazioni» (Timeo, 37).
È sant’Agostino a sviluppare poi una vera dottrina del tempo, a fronte di un pensiero precedente che si era limitato a offrirne riferimenti sparsi e non sistematici. La sua dottrina, esposta nell’XI libro delle Confessioni, ha avuto e continua ad avere un’influenza non trascurabile. Partito dal dubbio manicheo sull’interpretazione dell’«in principio» del Genesi ( perché – si chiedevano i manichei – Dio ha "aspettato" a creare il mondo, che quindi non è ab aeterno?) Agostino ritiene sia necessario distinguere l’eternità, che è «sempre ferma e immanente», rispetto al tempo, che è mutazione e movimento. Il tempo, che non è mai fermo, consta di molti istanti transitori e così trapassa e trascorre intorno a noi. Nell’eternità invece non c’è nulla che passi, tutto è presente, stabile: è da questo presente che sempre traggono il loro essere il passato e il futuro del tempo.
Ma cos’è il tempo? Qual è la sua natura? «Se nessuno me lo domanda, lo so: se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (XIV, 17). In realtà Agostino lo scruta con una profondità straordinaria.
Innanzitutto il tempo si misura nel suo trascorrere, e appunto per questo è movimento: una caratteristica propria, intrinseca – potremmo dire – di tutti i corpi, e non solo di quelli celesti. Infatti, anche se i corpi stessero fermi il tempo scorrerebbe ugualmente. Dunque i corpi si muovono nel tempo. Quando un corpo si muove si dice che la durata del suo moto si misura con il tempo. Altro quindi è il moto del corpo, altro è «ciò con cui ne misuriamo la durata»: quest’ultimo è il tempo (XXIV, 31). Se si analizza cosa sia ciò con cui si misura, si conclude che «il tempo null’altro è che estensione» (XXVI, 33; XXIII, 30), misurata nell’anima stessa: «Gli è in te, anima mia, ch’io misuro il tempo... L’impressione che le cose fanno in te nel passare, e in te rimane quando sono passate, è questa ch’io misuro nel presente, non le cose passate in modo da introdurvele» (XXVII, 36). E ancora: «Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è ancora nella mia memoria» (XVIII, 13).
Sono addirittura sbalorditive, tanto sono belle, le osservazioni che Agostino offre. Non c’è passato o futuro "lungo": lungo, piuttosto, è il ricordo, così come lunga è l’attesa. Tutto ciò accade nella memoria, in quella «reggia immensa», in quel «ventre dell’anima», in quella «immensa sinuosità dell’anima..., piena delle immagini di tante e tanto grandi cose», i cui misteri Agostino indaga nel X libro delle Confessioni, a partire dal VII capitolo. Come non c’è tempo senza mobilità e mutabilità, così non c’è tempo senza creazione. Ne consegue che nell’eternità non c’è mutazione, e dunque non c’è tempo.
Cade così il dubbio manicheo: come chiedersi cosa faceva Dio prima della creazione, se non c’era un "prima"? Fuori dal tempo non c’è che l’eterno, un presente che non ha un prima né un poi, tutto egualmente spiegato innanzi al Creatore, e non già perché Egli sia fornito di una scienza e prescienza così vaste da conoscere tutto il passato e il futuro allo stesso modo in cui noi alcune cose passate le ricordiamo e alcune future le prevediamo. Questa mente, questa che pur «è un’anima meravigliosa e stupenda da mettere i brividi», sarebbe ancora lontana dal modo nel quale Dio conosce il passato e il futuro, che è assai più mirabile e misterioso (XI, XXXI, 41). Egli infatti «è immutabilmente eterno ... in una presenza stabile ed eterna» (De Civitate Dei, XI, 21).
Ci si fermerebbe indefinitamente nel pensiero di Agostino sul tempo, perché si rimane come imprigionati (e affascinati) tra la sponda del comprensibile e quella dell’ineffabile, che pure appare essenziale. Il mio compito non è però di soffermarmi sulla dottrina agostiniana del tempo, per la quale – tra l’altro – rimanderei a studiosi ben più impegnati su questo pensatore. Vorrei piuttosto dare uno sguardo panoramico sulle considerazioni relative a tempo e spazio, per giungere a quel periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento quando entrano in crisi la certezza e i princìpi su cui si erano fondati per secoli il pensiero e la scienza: è il periodo nel quale ha inizio quella caduta dei princìpi che oggi sembra esprimersi in una civiltà quantomeno confusa e in un uomo alla deriva.

TRA CARTESIO E NEWTON. Non c’è dubbio che si debba giungere al XVII secolo per incontrare un’analisi di questo problema che possa assurgere alle altezze del pensiero di Agostino, anche se a questo punto del nostro percorso occorre uscire dall’alveo della metafisica.
Cartesio non ammette l’esistenza di uno «spazio assoluto» distinto e separato da ogni oggetto: «noi possiamo dire che una stessa cosa nel medesimo tempo muta di luogo e non cambia affatto… e se noi pensiamo che non sarà possibile incontrare in tutto l’universo un punto che sia veramente immobile… potremmo concludere che non esiste cosa al mondo che sia ferma e immobile, se non in quanto noi la fermiamo nella nostra mente ...» (Principia philosophiae, II, 13).
Newton postulò invece uno spazio assoluto e oggettivo, immobile nei confronti dei corpi che vi si muovono. Allo stesso modo, la necessità di distinguere tra simultaneità e successione lo condusse a postulare un tempo assoluto, vero e matematico, che «considerato in sé e nella sua natura, senza relazione a nulla di estraneo, fluisce egualmente» (Princìpi matematici della filosofia naturale, trad. it., Roma 1925, p. 40). Nello spazio oggettivo le cose hanno un loro posto determinato, così come accade nel tempo per gli avvenimenti che si susseguono, in modo che le mutue relazioni sono stabilite in maniera obiettiva indipendentemente da ogni altra condizione. I rapporti sono assoluti e si fondano sulla immobilità dello spazio e sulla costanza del tempo. Spazio e tempo Newton li concepì come attributi divini, come «sensoria Dei».
Dalle due opposte vedute di Cartesio e di Newton nacque una delle più celebri polemiche scientifiche del XVIII secolo, quella tra Leibniz e Samuel Clarke, seguace di Newton. All’idea di uno spazio assoluto, attributo di Dio, Leibniz muove molte acute critiche.
Se ogni qualità è attributo di qualche sostanza, di quale sostanza si dovrà dire sia attributo lo spazio vuoto e limitato? Di Dio, come dice Newton? Ma allora come si potrà sostenere che sia adeguato a Dio – indivisibile – lo spazio infinitamente divisibile?
Se lo spazio sarà ritenuto come una «realtà assoluta» anziché una «proprietà», si dovrà pensare che Dio non possa distruggerlo ma neppure modificarlo, ciò che equivarrebbe ad ammettere «una infinità di cose estese fuori da Dio». Leibniz, in sostanza, nega l’assolutezza oggettiva dello spazio e del tempo, pur avvertendo il pericolo di relativizzarli.

LA SOLUZIONE DI KANT. Per Kant spazio e tempo sono reali in quanto enti mentali che usiamo per leggere la realtà. In questa "formidabile" soluzione, spazio e tempo tornano a essere qualcosa di oggettivo, di una oggettività che è del pensiero, e da esso è imposta al mondo fenomenico esterno: l’oggettività che la Mente legislatrice impone alla Natura attraverso le sue forme sempre identiche.
La scoperta di quella che, in un bisticcio di parole, potrebbe chiamarsi l’"oggettività soggettiva" (una dimensione oggettiva, dentro ciascuno di noi), cioè della "sintesi a priori", è una delle grandi tappe del pensiero umano, paragonabile alla scoperta socratica del concetto. Vi è in ciò qualche cosa di definitivo, tanto da far sembrare che non fosse più possibile tornare all’impostazione pre-kantiana del problema dello spazio e del tempo.
Per Kant spazio e tempo sono anzitutto forme dell’intuizione pura. Intuizioni e concetti sono gli elementi della conoscenza. Sono puri, e non empirici, anche se adatti a comprendere gli oggetti: sono dunque ordinatori delle sensazioni.
Spazio e tempo sono cioè due «fonti di conoscenza» perché «forme pure di ogni intuizione sensibile», sicché «se togliessimo di mezzo il nostro soggetto, o anche semplicemente la costituzione soggettiva dei sensi in generale, tutta la costituzione, tutti i rapporti – spaziali e temporali – degli oggetti, anzi, persino lo spazio e il tempo svanirebbero, né come fenomeni possono esistere in se stessi, ma soltanto in noi» (ibid., Estetica trascendentale).
Insomma, lo spazio e il tempo sarebbero preformati dentro la nostra mente e servirebbero a comprendere il mondo. Dunque sarebbero forme che accolgono come contenuti gli oggetti, senza le quali gli oggetti stessi rimarrebbero privi di ogni significato. Quanto alla natura dello spazio, il riferimento era sempre stato allo spazio euclideo (la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti), almeno finché non si cominciò a intravedere la possibilità di geometrie non euclidee. A supporla per primo fu padre Giovanni Saccheri sul finire del Settecento, anche se il tema si svilupperà nell’Ottocento grazie a Carl Friedrich Gauss, Bernhard Riemann e Nikolaj I. Lobatcevskij.
Anche Kant aveva considerato questa possibilità, pur pensando che solo una geometria dovesse essere oggettiva: quella euclidea, che appartiene alla nostra intuizione dello spazio. Astrattamente parlando, le forme della spazialità sono diverse «giacché noi non possiamo giudicare delle intuizioni di altri esseri pensanti, se esse siano o no legate alle stesse condizioni che limitano la nostra intuizione» (Critica della ragion pura, trad. it. di Gentile e Lombardo Radice, p. 70).

DIMENSIONI DELLA PSICHE? Dopo Kant si dovette aspettare almeno un secolo per riaprire il problema e cominciare a vedere la caduta della costruzione di uno spazio assoluto. Successe quando ci si accorse che, se l’osservatore è immerso egli stesso nello spazio, allora vuol dire che ne condivide la struttura e non può controllarla. Secondo quella che si è soliti definire l’ipotesi di Delboeuf-Helmholtz-Poincaré, infatti, «se le dimensioni del mondo diventassero mille volte più grandi, non ce ne accorgeremmo… se aumentassero di dimensione gli oggetti, anche il nostro corpo aumenterebbe in proporzione». Non ci renderemmo neppure conto se lo spazio da euclideo diventasse curvo, poiché anche i nostri strumenti di misurazione si incurverebbero e non avremmo modo di accorgercene.
Poincaré, a questo punto, fa una osservazione che anticipa Einstein: «Meglio sarebbe ammettere che lo spazio è relativo». Un’affermazione che combaciava con gli studi di Ernst Mach, il quale aveva dimostrato che ogni concetto di moto è relativo e che non ha valore l’antica distinzione tra movimenti rettilinei e movimenti di rotazione. Ecco tornare il relativo, con l’aggiunta di una nuova dimensione critica legata a quella psicologia che nell’Ottocento assume una presenza più sostanziale C’è lo spazio dei geometri, puro, o metrico. C’è lo spazio dei matematici, obiettivo ma non reale. Ci sono anche gli spazi delle rappresentazioni psicologiche, reali ma non omogenei né qualitativamente indifferenti. Lo spazio, in altri termini, è relativo alle percezioni: cambia cioè a seconda del fatto che sia ricostruito con la vista o con il tatto. Dunque non è omogeneo, e di volta in volta ci appare diverso. Lo si può notare nei primitivi: il loro spazio reale è infatti pieno di qualità (Lucien Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, 1932). Lo spazio – diremmo oggi – è vissuto con modalità e qualità che dipendono dal singolo, dalle sue esperienze percettive e dalle risposte emotive che egli esprime.
Discorso analogo vale per il tempo. Vi è difatti un tempo obiettivo – o matematico – che è omogeneo, indefinitamente divisibile in parti identiche, che scorre in modo continuo e uniforme, senza principio né fine. È il tempo newtoniano. Ma accanto a esso sussiste il tempo psicologico, quello che sperimentiamo in noi stessi, nello scorrere della nostra vita interiore, quel tempo-coscienza, quel sentimento del tempo che Simmel sostiene sia lo «stato fondamentale dell’anima» (Grundschicht der Seele). Ora, questo tempo vissuto, che è il sentimento soggettivo di un perdurare, non è affatto identico in tutti: varia per ogni soggetto, e in ognuno a seconda di circostanze e stati d’animo. Non a caso si parla di ore lunghe e ore brevi, di anni che sono fuggiti rapidi e di anni che non trascorrono mai. Ci sono tanti tempi psicologici, con tanti ritmi, e persino un tempo che muta con l’età.
Tutte queste sensazioni soggettive si collegano alle affermazioni (certo più sostanziali) fatte da Mach, che intorno al 1880 aveva dimostrato come il concetto di tempo fosse relativo: perché mai alcune sequenze temporali dovrebbero essere considerate più vere di altre? L’oscillare di un pendolo è forse più vero di una respirazione affannata?
BERGSON E EINSTEIN. Era questo il quadro della situazione mentre lo studente Bergson preparava la sua tesi su spazio e tempo, entità che egli anzitutto contrappose: mentre la natura si fonda sullo spazio, la filosofia si basa sull’intuizione pura del tempo («Il est donné immediate de la coscience», «è il dato immediato della coscienza»). Bergson introdusse poi la dimensione «de la durée», vale a dire il sentimento soggettivo «della durata» che nega la dimensione obiettiva, e anzi stabilisce che i fenomeni psichici abbiano una loro intensità variabile che li rappresenta con differenze di qualità. Si tratta cioè di rappresentazioni psicologiche o di fenomeni psichici elementari, che sono alla base della conoscenza e persino (su questo Bergson insiste molto) della percezione della libertà. Il suo Essai (Saggio sui dati immediati della coscienza) ebbe un enorme successo e riaccese l’interesse sull’argomento. Era il 1889. Nel 1908 davanti all’assemblea dei naturalisti e medici tedeschi riuniti a congresso a Colonia il matematico Hermann Minkowski prospettava con parole solenni quella che, a suo giudizio, sarebbe stata la concezione futura della fisica: «D’ora in poi spazio per sé e tempo per sé devono precipitare nel regno delle tenebre, e solo una specie di unione dei due può avere esistenza autonoma... un mondo in sé» (in Raum und Zeit, 1908, e in Nuovo Cimento, serie V, vol. XVIII, anno 1909, p. 333). Di tale suggerimento s’impadronì subito Einstein (che già tre anni prima aveva esposto i princìpi di quella che venne definita "relatività ristretta") per svolgere il suo concetto del reale inteso come un continuum in cui spazio e tempo sono fusi e che ha la sua rappresentazione tecnica in un sistema a quattro dimensioni (cfr. Kopff, I fondamenti della relatività einsteniana, Milano 1923). Nell’esperienza fisica reale, spazio e tempo non esistono mai separatamente: la loro distinzione è dovuta esclusivamente all’analisi astratta e dipende dalla prospettiva dell’osservatore. La decomposizione in rapporti spaziali e temporali può essere realizzata in modi differenti secondo il punto di vista di chi osserva, ma non c’è alcuna ragione perché una tale divisione sia ammessa in natura.
Inutile dire che la relatività di Einstein parve avere punti di contatto con la teoria di Bergson. L’una e l’altra fondevano spazio e tempo, così come entrambe negavano lo spazio euclideo e il tempo newtoniano, andando insieme contro gli insegnamenti di Kant. Secondo Einstein, bisogna distinguere tra spazio vuoto e spazio riempito di materia, quello cioè che costituisce l’universo fisico. Il primo è euclideo, mentre non lo è il secondo (che è poi lo spazio reale) in quanto le proprietà geometriche vi sono condizionate dalla materia che può incurvare lo spazio rendendolo non euclideo. Nella pratica la differenza non è grande, tanto che sarà possibile cavarsela affermando che il nostro è un mondo "quasi-euclideo" (Sulla teoria speciale e generale della relatività, trad. it. Bologna 1921, pp. 101 sg.).
Assai più sconvolgenti sono le affermazioni relative al tempo. Per Newton c’è una metrica temporale assoluta in cui le relazioni di successione e contemporaneità hanno un valore obiettivo e non variano al variare della posizione dell’osservatore.
Einstein sostiene invece l’esistenza di una metrica tutta diversa, in cui due avvenimenti simultanei rispetto a un osservatore possono essere successivi rispetto a un altro la cui distanza spaziale e il cui stato di moto o di quiete siano diversi da quelli del primo.
Ciò che è contemporaneo per un osservatore può non esserlo per un altro. Per decidere se due intervalli di tempo sono eguali, cioè se due avvenimenti hanno luogo contemporaneamente, dobbiamo già sapere come si misura il tempo. Ma stabilire l’unità di tempo presuppone la capacità di decidere se due grandezze sono uguali. Non vi è qui un circolo vizioso?
In realtà non si può stabilire obiettivamente una contemporaneità tra due avvenimenti che si verificano in luoghi diversi dello spazio. Ma allora manca una misura oggettiva del tempo, e di conseguenza ciascuno dei tempi singoli che ogni osservatore può stabilire avrà un eguale valore. Si giunge così a conclusioni paradossali, la più nota delle quali è che l’età scorra in maniera differente per uomini che rimangano sulla terra rispetto ad altri che volino su un aereo a enorme velocità. Ma, al di là degli aneddoti, la conclusione più importante è che possiamo conoscere solo i tempi relativi e mai il tempo assoluto della fisica classica.
Si deve aggiungere che le misure temporali non sono indipendenti da quelle dello spazio, né – viceversa – quelle spaziali dalle misure temporali: tutte le grandezze sono spazio-temporali. Insomma, spazio e tempo dipendono l’uno dall’altro. Siamo così passati dal tempo assoluto a un tempo che non è mai lo stesso. In questo salto la fede nel tempo newtoniano e nello spazio di Euclide è definitivamente caduta, e lo stesso Kant ha perso la sua grande autorevolezza, anche se si è cauti nel metterlo in soffitta.

UNA RICERCA DISPERATA. L’attacco alla dottrina delle forme a priori universali e necessarie è ormai cominciato, un’altra certezza si frantuma. Tutto ciò non è soltanto un gioco in casa di filosofi e fisici ma anche nel mondo dell’agire e nel comportamento di ciascun uomo che, pur non discutendo di filosofia e delle sue difficili questioni, tuttavia non può che respirare l’una e le altre.
Voglio concludere questa tappa del nostro viaggio citando un grande poeta, il cantore del sentimento del tempo: Giuseppe Ungaretti.

Ti odo nel fluire della mente
Approfondire lontananze
Emula sofferente dell’eterno

Madre velenosa degli evi
...
Quando m’avrai domato: dimmi:
Nella malinconia dei vivi
Volerà a lungo la mia ombra?
Sì da invocare desolato:
Figlia indiscreta della noia
Memoria. Memoria incessante
Le nuvole della tua polvere
Non c’è vento che se le porti via?
(Canto primo,1932)

Ritorna in questi versi la dimensione dell’eterno, un principio la cui caduta ha effetti che non si limitano alle scienze particolari e all’interno di una filosofia che sembra appassionare solo pensatori per lo più incomprensibili e bizzarri. Le conseguenze di questa dissoluzione si ripercuotono infatti sull’esistenza di ciascuno, sul quotidiano, su quella dimensione del sapere che non è "raffinata" né è prerogativa dei soli addetti ai lavori, ma che si avverte all’opera dentro il senso della società in cui viviamo, con i suoi riferimenti aperti o impliciti. Anche il sapere colto trapassa nella vita della gente, di ciascuno di noi. Possiamo non essere in grado di capirne i contenuti, ma ne respiriamo gli effetti. Mentre scompare il senso del tempo e dell’eterno, il poeta lo ricerca ancora e lo riveste della sua poesia. Quella poesia che ricrea ciò che la scienza ha negato, mentre la fede trova ciò che la ricerca scientifica non individua e finanche nega. Senza ormai più certezze, si riscopre che queste stesse certezze sono un bisogno, una necessità. E allora?

Io non so ove i gabbiani abbiano nido
Ove trovino pace.
Io sono come loro
In perpetuo volo
La vita la sfioro come essi l’acque ad acciuffare il cibo.
Ma forse come anch’essi amo la quiete ,
la grande quiete marina
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
(Vincenzo Cardarelli)

Idee & figure
Gerolamo Saccheri

(1667-1733) Gerolamo Saccheri entrò nell'Ordine dei Gesuiti a Genova nel 1685. Cinque anni dopo andò a Milano dove studiò filosofia e teologia. Fu ordinato sacerdote nel 1694 a Como, in seguito insegnò in vari Collegi Gesuiti dell'Italia. A Pavia occupò anche la cattedra di matematica dal 1699 fino alla sua morte. In Euclide ab omni naevo vindicatus (1733) Saccheri tentò di dare una dimostrazione del postulato euclideo delle parallele, arrivando a risultati che anticiparono la nascita delle geometrie non euclidee.

Hermann Minkowski
(1864 - 1909) Matematico e fisico russo, a lui si deve l'idea secondo cui lo spazio ed il tempo costituiscono un tutt'uno inscindibile: lo spazio-tempo quadridimensionale. I suoi fondamentali lavori su questa intuizione e la riedizione della elettrodinamica in forma quadridimensionale servirono come base matematica alla teoria della relatività ristretta di Einstein.

Georg Simmel
(1858 - 1918) Filosofo e sociologo tedesco, fu docente a Berlino e a Strasburgo. Con la crisi del positivismo, si avvicinò al neokantismo nonché alla fenomenologia di Husserl. Una fase, pur mossa dal riconoscimento di forme e valori ideali ulteriori all'accidentalità del mondo fenomenico, caratterizzata da una prevalente tendenza relativistica.


Il percorso
La malattia dei fondamenti ideali che hanno sorretto la civiltà occidentale vista attraverso la crisi della scienza. E la crisi della scienza analizzata nel suo rapporto con la corrosiva filosofia moderna, nei paradossi in cui si sono incagliate alcune delle sue branche più illustri - la fisica e la matematica - e nell'indeterminatezza che ha avvolto concetti basilari come quello di "natura" o come il principio di causalità.
Sono state queste le prima tappe del viaggio che Vittorino Andreoli ha iniziato su queste pagine ormai due mesi fa, alla ricerca dei «principia» perduti, quelli che la nostra società sembra avere smarrito, esponendosi a pericoli di portata incalcolabile. La morte di una civiltà - tale è il rischio che per Andreoli incombe sull'Occidente - non avviene per un intervento traumatico improvviso, che in genere ne è solo la causa apparente o comunque ultima in ordine cronologico: essa si consuma nell'oscuramento di fattori spirituali portanti, in un decadimento progressivo che può passare inosservato, o largamente sottovalutato.
L'uomo di oggi, in particolare, si trova nel mezzo di un guado: è diviso tra la fiducia cieca e ingenua in una tecnica a cui ha appaltato la sua realizzazione/felicità e i timori per l'incontrollabilità della realtà circostante, di un contesto che appare sempre più "scardinato", caotico, che rigetta rabbiosamente quelli che sono stati i suoi riferimenti più saldi e profondi. È un uomo che, dietro la vacua sicurezza del benessere materiale, resta in ballo di forze invisibili che lo guidano dove lui certamente non vorrebbe andare, se solo fosse consapevole della vera destinazione.
Quella che Andreoli si propone non è però una semplice riproposizione del passato, ma in primo luogo una rivisitazione dei passaggi che hanno portato la nostra cultura a questa situazione di inedita problematicità. La comprensione dei perché di una metamorfosi e di una deriva tanto radicali, acceleratesi a partire dal '500 '600. In secondo luogo, lo psichiatra e indagatore veronese si propone di valutare cosa può essere riattualizzato (riformulato) di un lascito che rischia di scomparire. E di scomparire nell'ilare indifferenza di molti, troppi, impegnati in una sorta di nichilistico ballo sul Titanic. La tappa di questa domenica è dedicata all'evolversi delle categorie di spazio e tempo, che percorre come un filo rosso la storia del pensiero occidentale.

Il libro
Pensare l’eterno

Terminata la pubblicazione dell'opera omnia bilingue di sant'Agostino in 60 volumi, l'editrice Città Nuova ha ripubblicato una delle più preziose introduzioni al grande dottore della Chiesa, quella firmata dal curatore della stessa opera omnia, il padre agostiniano Agostino Trapé (1915-1987).
Nato grazie ad una coraggiosa decisione dei suoi genitori («Tu, o Signore - ha lasciato scritto nelle sue memorie - hai difeso la mia vita, che mi avevi dato, fin dal seno materno, quando uomini dimentichi della tua legge avevano deciso di sopprimerla, dicevano, per salvare quella pericolante di mia madre») Trapé entrò giovanissimo nell'ordine agostiniano, dove imparò a conoscere e ad amare il santo di Ippona. Nel 1960 fu nominato membro della Pontificia commissione teologica per la preparazione del concilio Vaticano II. Dal 1962 prestò la sua opera come perito e, dopo la sua elezione a priore generale, come padre conciliare. Fu fondatore dell'Istituto patristico Augustinianum, che diresse fino alla morte, e membro dell'Accademia di S. Tommaso d'Aquino. La convinzione che la spiritualità agostiniana fosse un tesoro unico da conoscere e sfruttare per la Chiesa, lo indusse a focalizzare la sua attività di studioso principalmente sulla figura e sulla dottrina di Agostino, di cui divenne uno dei massimi conoscitori.
Questa Introduzione dà una panoramica approfondita delle tematiche agostiniane riferite al mistero del tempo, al mondo intelligibile che supera il materialismo, al male che non proviene da Dio ma rientra nei suoi piani, alla libertà interiore frutto della grazia, alla libertà di scelta che la grazia non toglie ma aiuta, a Cristo mediatore universale. Un testo esemplare per chiarezza e completezza di informazioni.

Agostino Trapé, Introduzione a Sant’Agostino, Editore: Città nuova, € 36, pp. 392


Il personaggio
Il filosofo dello slancio vitale: Henri Bergson
Henri Bergson (1859-1941) nasce a Parigi da famiglia ebraica, studia filosofia, chimica e biologia alla Scuola Normale. Dapprima insegnante nei licei, arriva a ricoprire la prestigiosa cattedra di filosofia al Collegio di Francia dal 1899 al 1921, anno in cui si ritira dalla vita accademica per problemi di salute. Durante la prima guerra mondiale svolge importanti funzioni diplomatiche e nel 1927 riceve il Nobel per la letteratura. Famosissimo in patria (le sue lezioni erano pressoché un evento) morì di malattia durante l’occupazione nazista di Parigi, rifiutandosi di fuggire per condividere il proprio destino con quello della sua gente, malgrado negli ultimi anni della sua vita si fosse avvicinato alla religione cattolica.
La filosofia di Bergson è tesa ad una comprensione del reale in contrasto con quella del positivismo. Bergson avverte che il divenire, ovvero la fluidità mutevole e irriducibile degli accadimenti del mondo non può essere in alcun modo determinata in senso rigoroso dalle leggi fisiche e matematiche. Il tempo proposto dalle scienze è un susseguirsi ordinato e meccanico di eventi. Ovvero la semplificazione di una realtà che giunge alla coscienza in modo più fluido.
La suddivisione dell’azione in istantanee è un processo messo in atto a posteriori dalla mente umana, che cerca così di mettere ordine in una realtà che altrimenti sembrerebbe inafferrabile (se il tempo non fosse inteso come un susseguirsi ordinato di ricordi del passato e di atti di comprensione del presente, nulla sarebbe comprensibile). Il tempo delle scienze deterministiche è quindi una convenzione, la realtà vissuta è molto più elusiva, non classificabile entro alcun sistema cartesiano.
La coscienza vive il presente prolungandosi in parte nel passato e in parte nel futuro, nell’impossibilità di congelare il presente in un unico momento. Un attimo può durare un’eternità, altri sembrano talmente veloci da non potersi nemmeno ricordare. La durata della coscienza è quindi il moto ondoso del presente che, tendendo sempre e comunque verso il futuro, trascina con sé qualche traccia del passato.

«Avvenire» del 2 aprile 2006

Requiem per il principio di causalità (Andreoli 4)

Tra i principi della scienza,quello di causalità gode di una posizione speciale,non solo perché è fondamento della logica ma per il fatto che la lettura della realtà secondo la cultura occidentale è possibile solo ordinando in sequenze i fenomeni, facendo sì che uno preceda in maniera precisa il successivo, in una relazione per cui il primo è causa del secondo. Diventa perciò utile guardare al destino di questo principio, passato da una fase di grandezza ad una di crisi
di Vittorino Andreoli
1.Cartesio era stato spinto a meditare sul problema della conoscenza anche dalla difficoltà di distinguere il sogno dalla veglia. 2. Per Ernst Mach la nozione del tempo assoluto newtoniano come «corso eterno e stabile», era poco più che un’astrazione. 3. Le teorie intorno al mondo subatomico, la teoria dei quanti e la meccanica ondulatoria, hanno distrutto la fiducia nella causalità. 4. Anche per Bertrand Russell il linguaggio di causa ed effetto non rappresenta nulla di veramente riscontrabile nel mondo fisico.

Tra i principi della scienza, quello di causalità gode certo di una posizione speciale, non solo perché è fondamento della logica e quindi del pensiero scientifico, ma per il fatto che la lettura della realtà secondo la cultura occidentale è possibile solo ordinando in sequenze i fenomeni, facendo sì che uno preceda in maniera precisa il successivo in una relazione per cui il primo è causa del secondo. Diventa perciò utile guardare al destino di questo principio, nell’ipotesi che anch’esso sia passato da una fase di grandezza ad una di crisi, con perdita di dominio e persino di senso.

I PRINCIPI DI CAUSALITÀ. È più corretto parlare di principi – anziché principio – di causalità.
Nel III secolo a.C. Aristotele, scrivendo il primo libro della Metafisica, distingue quattro tipi di causa per spiegare la realtà. Vi sono anzitutto le cause "intrinseche" che si riferiscono al "quod est" [ciò che è] e quindi che caratterizzano intrinsecamente una cosa, la sua essenza, e ciò che la distingue da ogni altra: si tratta delle cause che secondo Aristotele interessano la filosofia, e più propriamente l’ontologia, e dunque che riguardano la questione dell’essere della realtà nel loro principio stesso. Quindi ci sono le cause "estrinseche", più proprie dell’osservazione positiva, che si riferiscono al "quomodo" [la maniera], ai fenomeni e quindi alle modalità con cui si presentano e appaiono. "Estrinseche" poiché si legano ad un quid esterno rispetto alla loro essenza, e al loro esistere, anche se è in grado di condizionarle. Cause che si evidenziano attraverso l’osservazione e persino l’esperimento. Vi è poi la causa "efficiente" [id a quo: questo proviene da quello] che mette in relazione la causa con il suo effetto, una relazione precisa, adeguata, proporzionata e prima di tutto in sequenza temporale. È questa la causa a cui guarda in maniera specifica la scienza. E da ultimo c’è la causa "finale" [id cuius gratia: questo in virtù di quello] che dà ragione del perché di quel fen omeno e di quella realtà, e permette di scoprirne il senso: la spiegazione completa della natura si raggiunge solo attraverso le cause finali – dice Aristotele – che si trovano in una posizione di predominanza rispetto a tutte le altre. Come si nota, sono molti i principi di causalità e occorre sempre precisare a quale si fa riferimento. Noi ci occuperemo in particolare della causa efficiente, che è quella che interessa particolarmente le scienze, anche se prima occorre aggiungere qualche altra caratteristica di questo impianto aristotelico che durerà a lungo nella diatriba filosofica e scientifica. Una prima caratteristica riguarda la distinzione tra materia e forma.

CAUSE PER MATERIA E FORMA. Le cause intrinseche sono di due tipi, giacché riguardano la materia e la forma che nell’insieme costituiscono la natura. Un dualismo netto che trova riferimento nella distinzione tra materia e anima (sia pure nelle tre specificazioni di vegetativa, animale e spirituale). È dunque evidente che la comprensione del mondo deve dare ragione sia della materia sia dell’anima. Il dualismo dura a lungo e giunge oltre il mondo greco per inserirsi nel cristianesimo e fino al Rinascimento, quando Bernardino Telesio con il De rerum natura iuxta propria principia trova la causa dei fenomeni naturali nella natura stessa, asserendo un rigoroso monismo in cui sono inseparabili la materia e le sue forze dinamiche. Ogni fenomeno dunque è una "materia in moto" che racchiude in sé, nella sua stessa natura, la causa. Anche lo spiritus è materia o facoltà della materia. Giordano Bruno, nel dialogo De la causa principio et uno, aggiunge che la materia non riceve, ma piuttosto produce essa stessa le forme, le «manda dal suo seno», perché ha in se stessa «la fonte delle forme». Dopo tante distinzioni il Bruno chiude il suo dialogo con un inno al «principio unico» dell’universo «uno, infinito e immobile», in cui forma e materia, atto e potenza, si uniscono. Ma questi sono semplicemente accenni ad una diatriba ben più lunga e complessa, che è interna alla filosofia, dove hanno collocazione i pensatori che abbiamo richiamato. Un accenno lo merita la causa finale che è propria della teologia, e che non ha cessato dopo Aristotele di essere discussa. Basterebbe riferirsi al problema della vita umana e di quando essa inizi: se nel momento in cui si incontrano le due cellule (concepimento) oppure in uno stadio successivo della moltiplicazione cellulare. Le due posizioni si reggono sul fatto che alcuni applicano la causa finale (la vita c’è fin dal concepimento), gli altri invece si appellano alla causa efficiente (la vita c’è soltanto ad un certo grado di sviluppo quando si intraveda e dunque si constati una struttura).

CAUSA FINALE. Aristotele attribuisce la posizione di dominio alla causa finale: se si vuole comprendere veramente il mondo, e anche quello della scienza, meglio indagare la sua finalità: individuato il fine, si comprendono le altre sequenze causali, poiché sono "informate" dal fine, sono mosse secondo la direzione del fine. Aristotele l’aveva definita come una determinazione che non procede da quanto è avvenuto in precedenza, ma da ciò che si deve raggiungere: dal fine o dallo scopo. E ciò appare come un’inversione del rapporto causale che le scienze generalmente presuppongono: il rapporto "prius-posterior" della causa efficiente. E’ questo il principio della teleologia. Ma anche in questo caso domina storicamente l’opposizione. Bacone sostiene l’inutilità delle cause finali, Galileo e Cartesio ne respingono l’uso nelle ricerche scientifiche anche se, come già Leonardo, le rimandano allo studio dei teologi. Scrive Leonardo: «O speculatore delle cose non ti laudare di conoscere le cose, che ordinariamente per sé medesima la natura, per sua ordine, naturalmente conduce; ma rallegrati di conoscere il fine di quelle cose, che sono disegnate dalla mente tua» (Prose, a cura di G. Negri, Torino 1928, p. 173). E Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo mostra che «è temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio», quasi che tutto dovesse essere fatto per noi e fosse «vano e superfluo tutto quello dell’universo che non serve per noi», quando «nel maturar quel grappolo d’uva, anzi pur quel granello solo, vi si applica che più efficacemente applicar non vi si potrebbe quando il termine di tutti i suoi affari fosse la sola maturazione di quel grano» (Giornata III). Da parte sua Cartesio proclama che «non ci fermeremo neppure a esaminare i fini che Dio s’è proposto nel creare il mondo, e respingeremo interamente dalla nostra filosofia la ricerca delle cause finali; perché non dobbiamo presumere tanto da noi stessi da credere che Dio abbia voluto che noi facessimo parte del suo consiglio...» (Principia philosophiae [1644], I, 28). Fino a questo punto si riconosce la causa finale ma semplicemente si afferma che non appartiene alla scienza, ai suoi scopi. Un colpo deciso, questa volta per negare la causa finale, lo sferrerà Spinoza, il "perfectissimus atheistas". È un pregiudizio, una fantasia, anzi una "superstizione", egli dice, quella per cui gli uomini suppongono che, come fanno loro stessi, così tutte le cose della natura agiscano per un fine. E aggiunge che non si deve essere così ciechi da non vedere che mentre con il teleologismo si pensa di glorificare Dio e la Natura, in realtà li si diffama. Infatti li si rende responsabili di tutti gli svantaggi che, accanto ai vantaggi, essi elargirebbero agli uomini. E continua sostenendo la mostruosità per cui la finalità considera «come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa; e inoltre quel che per natura è anteriore lo si fa posteriore» (Ethica, Pars I, Appendix). In questa guerra alla causalità finale, che questa volta incomincia già nel Seicento, la voce che cerca di mediare e condurre a un armistizio è Immanuel Kant, ma per farlo la definisce in maniera nuova: il senso nuovo della causa finale è quello di un tutto che d etermina le sue parti, istituendo un’azione reciproca tra queste. Noi pensiamo il particolare come contenuto nel generale, afferma, e pertanto occorre un principio che non può essere ricavato dall’esperienza. È il principio "dell’intelletto legislatore" per il quale le leggi particolari, empiriche, devono essere considerate secondo una tale unità «come se fossero state parimenti istituite da un intelletto... per rendere possibile un sistema dell’esperienza ... come se ci fosse un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice delle leggi empiriche di essa» (Critica del giudizio, Introduzione, IV e IX). Si afferma la subordinazione delle parti al concetto di un tutto: come si può capire un particolare, il fenomeno di cui si occupa la scienza, se non dentro l’insieme, il mondo? E come è possibile cogliere l’insieme se non nel suo senso e quindi nel suo scopo che si riverserà in ogni particolare? Il teleologismo risponde all’esigenza del nostro spirito legislatore ed è concepito quale necessario completamento della serie di osservazioni che possiamo fare spontaneamente o secondo le metodologia della scienza. I fenomeni acquistano concretezza e plausibilità se sono posti, come mezzi che si adattano a un fine, in una connessione tale che li colleghi e unifichi. In questa visione il finalismo è il determinismo causale visto nella sua sistematicità e unità concettuale: «La finalità è la determinazione di un risultato per mezzo della totalità dei fenomeni, che possono esercitare su di esso un’azione causale» (O. Hamelin, Essai sur les éléments principaux de la représentation, Paris, 1925, pp. 351 sg.). Ora passiamo alla causa efficiente poiché ci permette di entrare dentro la scienza, essendo tra i principi di causalità quello più specifico. Ma – lo ripetiamo – si tratta di una delle cause, una delle modalità attraverso cui indagare i fenomeni, non la sola: non la causa, ma una delle cause.

CAUSA EFFICIENTE. Vi sono due modi di concepire la causa effici ente e il rapporto causa-effetto. Si può vedere il problema infatti da un punto di vista empirico, identificando la causa come quel legame tra due fatti, A e B, che dato il primo si produce necessariamente il secondo. È questa la maniera che gli scienziati hanno inteso: scoprire il "quomodo" [la maniera di essere] senza preoccuparsi del "quia" [perché essere]. Ma si può anche vedere la questione da un punto di vista razionalistico, considerando la causalità come espressione del principio di identità realizzatosi nell’unità della natura. Quindi la relazione causaeffetto diventa strutturale, non solo sequenziale [è così perché non può essere che così]. Per valutare meglio cosa si intenda per causa efficiente secondo il punto di vista empirico, riferiamo la definizione di John Stuart Mill: causa è «l’antecedente o l’insieme di antecedenti di cui il fenomeno chiamato effetto è invariabilmente e incondizionatamente la conseguenza» (Logica, III, cap. 5 e Esame della filosofia di sir William Hamilton, XVI, 355). Posta così la questione, risulta che il concetto di causa è un concetto di relazione e che il relazionare è tipico del pensiero, anzi sussiste solo nel pensiero, dunque la causa non ha sussistenza nella realtà. Si aggiunge anche che non ha senso parlare di causa se non avendo realmente presente allo stesso tempo l’effetto: la causa da sola non si rappresenterebbe. Possiamo segnalare poi che, nella storia di questo concetto, la scienza da una parte ha tentato di difenderlo, mentre la filosofia, in alcuni periodi almeno, lo ha combattuto. Nel Medioevo, per esempio, gli occasionalisti volevano sottrarre Dio dal legame di causalità e finirono per negare anche la connessione causale tra i fenomeni. Duns Scoto afferma che tutto ciò che Dio ha fatto dipende soltanto da un libero atto della sua volontà, sicché non si può mai dedurre dalla natura dell’effetto come necessità quello della causa poiché questa, se Dio avesse voluto, si sarebbe potuta manifestare benissimo con un effetto diverso da quello in cui effettivamente si è manifestata. La conseguenza di questo volontarismo è che, senza negare del tutto il valore delle prove "a posteriori" dell’esistenza di Dio (tra cui quella della causalità: se c’è il mondo occorre un Dio che lo spieghi, un motore che lo muova), Duns Scoto tende a sminuirne l’importanza, riducendole a semplici argomenti di probabilità e di credibilità, mentre accentua invece l’importanza e il valore della prova ontologica che è "a priori". Guglielmo di Occam, criticando la prova dell’esistenza di Dio come Motore (per cui il mosso deve essere mosso da un altro), finisce per impugnare la stessa legge di causalità. Insomma, il principio di causalità non ha valore universale e necessario. Solo la successione è scientificamente constatata, e niente ci autorizza a porre qualche cosa che vada al di là della pura e semplice successione: la necessità del succedersi dei fenomeni non è in alcun modo giustificata. È solo dall’esperienza che sappiamo che B segue A: «L’effetto è totalmente diverso dalla causa e per conseguenza non si trova in essa»; inoltre non nasce una relazione di necessità che possa valere anche per l’avvenire. La ripetizione di casi simili non può da sola far sorgere un’idea originale, diversa da quella che si trova in ciascun caso particolare. L’esperienza non ci mostra mai il "potere" del fatto A su B: noi non siamo mai capaci, neppure in un singolo caso, di scoprire qualche "potere", bensì constatiamo soltanto che l’una cosa segue l’altra. È una "determinazione della mente" che esiste nella mente e non negli oggetti (David Hume, An Enquiry concerning human Understanding [1748], p. II, sezz. I e VII). Kant infatti affermava: «Tutto ciò che accade presuppone qualche cosa da cui deriva». Come a dire, che sappiamo soltanto che la causalità è uno schema obbligato per leggere la realtà, in sequenza di causa ed effetto a loro volta causa di effetti a cascata successivi. Ma tutto questo rimane privo di sen so se manca una cornice generale che inquadri non solo quel frammento di realtà che la scienza ha studiato e ridotto a sequenze, ma il mondo intero, la realtà tutta nel suo significato: ed ecco ritornare il bisogno di una causa finale. Le cause efficienti devono essere completate da quella superiore della causalità finale. Alla concatenazione meccanica che la coscienza riconosce, ma che non basta ad affermare l’ordine e l’unità armonica di tutto il reale, deve sovrapporsi la risposta al perché dei fenomeni e del mondo (temi della filosofia e della teologia).

NELLE SOCIETÀ NON OCCIDENTALI. Oltre a queste considerazioni, è utile riferirsi ad un aspetto antropologico e chiedersi se veramente il principio di causalità che è alla base stessa della ragione e quindi del pensiero logico razionale, sia applicato in tutte le società e dunque si imponga come strumento di analisi e di comprensione del mondo in generale, universalmente. Nell’Ottocento, l’estensione del concetto di universalità ha assunto una dimensione verificabile, poiché con l’etnografia e l’attenzione nei confronti delle cosiddette popolazioni primitive esso poteva essere verificato studiando le diverse culture, comprese quelle lontane dalla civiltà occidentale, fondata certamente sulla logica. In altre parole, è diventato possibile sapere se la mentalità del primitivo lavora veramente seguendo il nesso causale. Secondo Lucien Lévy-Bruhl, il pensiero logico, e quindi costitutivo delle realtà in serie secondo un N rapporto causa-effetto, non è presente nella mente del primitivo, nella quale si trova invece la concezione magico-mitica, per cui ogni evento cosmico è un miracolo e un segno del libero intervento di una forza sopra-naturale. Per il primitivo cioè, manca nel mondo una causalità, e tutto si lega alla libertà che l’etnologo francese chiama «impermeabilità dell’esperienza». Insomma, dalla magia alla scienza, dalla mentalità prelogica a quella logica si frappone un salto, un vero e proprio salto, non una continuità (Les fonctions mentales, Paris 1910, pp. 451 sg.). La scienza è un colpo di Stato che si impone sopra l’esperienza sensibile. È necessario ammettere un funzionamento differenziato della mente del primitivo in cui non domina certo l’idea di un universo determinato causalmente. Ciò non deve far credere che il primitivo non si serva di osservazioni sequenziali, come quando avvelena la punta di una freccia per cacciare un animale, mostrando di tenere conto di un effetto derivante da un’azione (Léon Brunschvicg, L’expérience humaine et la causalité physique, Paris 1921, e Les âges de l’intelligence, Paris 1924).

PRINCIPIO DI CAUSALITÀ E SOGNO. È possibile usare un’altra argomentazione contro l’universalità della causalità: lo studio dei sogni. Cartesio era stato spinto a meditare sul problema della conoscenza anche dalle illusioni scaturenti dai sogni e dalla difficoltà di distinguere il sogno dalla veglia. Poiché tutto ciò che è in noi proviene da Dio, e non possiamo avere alcuna altra certezza dell’esistenza del mondo se non attraverso Dio, ciò di cui ho coscienza è vero, dunque anche quanto deriva dal sogno. Non è infatti sufficiente dire «che i nostri ragionamenti non sono mai così evidenti e completi nel sogno come durante la veglia», mentre d’altra parte «quand’anche io dormissi, tutto ciò che si presenta al mio spirito con evidenza è assolutamente vero» (Meditationes de prima philosophia e Discorso sul metodo, p. IV, fine). È così difficile distinguere la vita reale dal sogno che più tardi Blaise Pascal si chiede se la vita reale non sia tutta un’illusione, e nota che solo la maggior continuità distingue la vita reale dal sogno. «La vie est un songe un peu moins inconstant» [la vita è un sogno un po’ meno incostante] (Pensées, ed. Chevalier, 380). Senza la fede, si potrebbe ben pensare all’opera di un «demon méchant» (un démone malvagio) e che tutto quanto si crede di vedere è illusione. «Vida es sueño» aveva detto Pedro Calderón de la Barca e nei versi del Macbeth Shakespeare aveva ripetuto che la vita era sogno e inganno. Ma anche i sogni diventano oggetto di studio da parte della scienza e si stabilisce così un nuovo campo di indagine: la onirologia che elenca molti studiosi come Sante De Sanctis che nel 1899 pubblica a Torino il primo vero e proprio trattato: I sogni: studi clinici e psicologici di una alienista (cfr. anche «Il sogno. Struttura e dinamica» in Rivista di antropologia Vol. XX, 1916). Ma tutti sono destinati a essere dimenticati dopo l’opera di Sigmund Freud, pubblicata nel 1900, che rimarrà fondamentale nella storia della cultura occidentale: Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni). Insomma, i sogni non sono anarchia incomprensibile, e l’individuazione di uno stimolo fisico che può attivare una seriazione di immagini o più ancora la concezione freudiana di un linguaggio dell’inconscio non servono a salvare il principio di causalità, ma a metterlo ulteriormente in crisi. E ciò, non solo perché nei sogni si può ribaltare l’ordine temporale e causale, ma perché l’inconscio è una struttura della psiche umana che manca proprio della relazione spazio-temporale e quindi di quella sequenza "prius-posterior" che è alla base della causalità. E il pensiero primitivo rileva la vita dell’inconscio attraverso associazioni che sono legate dal ritmo, persino da assonanze, ma non certo dalla causa efficiente. Semmai i sogni servono a sottolineare la relatività della nozione di tempo, poiché è indubbio che la percezione del tempo nel sogno persiste però con un andamento del tutto particolare e irreale, non cronologico, ma, appunto, psichico. Tuttavia il tempo è condizione necessaria alla sequenza causale. Del resto nello stesso periodo, intorno al 1880, Ernst Mach aveva criticato la nozione del tempo assoluto newtoniano come «un corso eterno e stabile», notando che il tempo è relativo in quanto è un decorso misurabile solo attraverso criteri arbitrari. «Non siamo per nulla in grado di misurare nel tempo le variazioni delle cose. Il tempo è piuttosto un’astrazione, a cui giungiamo attraverso la variazione delle cose; non siamo rivolti a nessuna misura determinata di tempo, poiché tutte dipendono una dall’altra». È una anticipazione della relatività di Einstein. Per questi, infatti, non solo non esiste tempo assoluto, ma anche il corso del tempo, cioè la grandezza di una differenza temporale, non è necessariamente uguale per tutti gli osservatori. Se vivessimo in un universo in cui ci è dato di trasferirci con immense velocità da una parte all’altra del cosmo, si potrebbero realizzare situazioni temporali quasi incredibili. Poiché il corso del tempo secondo il principio di relatività speciale dipende dal movimento dell’osservatore e dalla distanza di questo dall’oggetto osservato, non si può a rigore escludere che quel che a noi, secondo il punto di vista tradizionale, sembra il decorso naturale del tempo e il solo possibile, possa in determinate circostanze mutare, quasi avere un rovesciamento: in tal caso, quella che noi chiamiamo la causa potrebbe apparire l’effetto e viceversa. Il significato più profondo della teoria della relatività va al di là del semplice concetto di inversione dell’ordine temporale, fino a eliminare il concetto di causa come "prius" temporale e infine la stessa nozione di causa. Il "prius" e il "posterior" sono relativi. Non si può escludere dunque che le spiegazioni causali, che noi siamo portati a dare degli eventi del mondo fisico, dipendano soltanto dalla nostra particolare collocazione nell’universo. Nell’ipotesi del tempo a rovescio, che potrebbe verificarsi in determinate circostanze, tutte le nostre spiegazioni della causalità verrebbero profondamente alterate. Il mondo fisco si trasformerebbe in un caos indescrivibile e incomprensibile, ma la retrocessione del tempo renderebbe comprensibili e prevedibili eventi che nel nostro mondo non lo sono affatto. Se lasciamo andare una matita tenuta sospesa verticalmente su di un tavolo essa cade, ma non possiamo predire in quale direzione. Invece in un mondo dall’ordine temporale rovesciato, le matite giacenti sul tavolo si solleverebbero acquistando una posizione finale ben determinata e prevedibile. Ciò porta a concludere che l’immagine che del mondo fisico noi ci facciamo attraverso la scienza non sia che una riproduzione più o meno difettosa, e che quindi potrà un giorno essere abbandonata per un’altra che sembrerà allora più adatta: non certo in termini assoluti quanto per una variazione delle condizioni in cui ci potremmo trovare da osservatori. Insomma, il mondo potrebbe apparirci come un sogno o più precisamente come nel sogno, senza il rispetto della causalità e della sequenza temporale che implica. Sono avvicinamenti di campo persino temerari e appare addirittura paradossale unire sogno e fisica.
SOGNO E FISICA DELLE PARTICELLE. Ma vogliamo continuare in questa strana associazione secondo cui il principio di causalità non solo viene spodestato, ma persino negato, o addirittura invertito fino ad affermare che l’effetto genera la causa. A fare simile affermazioni non è un matto, ma grandi fisici. C. E. M. Broad, in Il problema della causalità, formula un argomento "ipotetico" fondato sulla velocità della luce. «Supponiamo – egli dice – un osservatore su di una cometa che si allontani dalla Terra con una velocità uguale a quella della luce: se egli potesse vedere attraverso un enorme telescopio i fatti terreni, questi gli apparirebbero come immobili: non vedrebbe alcun succedersi di eventi, non rapporti di cause ed effetti, non storia. Supponiamo ora che la velocità della cometa aumenti ancora: il nostro osservatore vedrebbe il mondo scorrere "à rebours", a ritroso. La partenza di Napoleone per Sant’Elena precederebbe Waterloo. Gli orrori del Terrore verrebbero prima degli anni di miseria delle plebi contadine francesi. Se egli si calasse nei panni dello storico, potrebbe dire che gli eccessi della plebe furono la causa della punizione c ui furono costretti i governanti. Le cause, insomma, diverrebbero per questo osservatore effetti, e viceversa: tutto l’ordine della causalità sarebbe rovesciato». Insomma la direzione della causalità, e si potrebbe dire la causalità stessa, è relativa al punto e alla condizione in cui si trova l’osservatore. Già nel 1897 Kurt Lasswitz, in un suo romanzo (Su due pianeti), aveva immaginato qualcosa di simile. Consideriamo ora insieme la velocità della luce e il meccanismo fisiologico della percezione. Se io osservo il cielo notturno nella direzione in cui mi si dice che si trovi Sirio, vedo una macchia gialla che, in base al principio di causalità, dico essere la stella che cercavo: quella che ha prodotto sulla mia retina l’effetto che mi fa dire d’aver "visto" Sirio. Ma le onde che proprio in questo istante hanno colpito il mio occhio sono partite migliaia e migliaia di anni or sono: la stella di cui mi permettono di rendermi conto è in realtà quella che esisteva moltissimo tempo fa e che può anche non esistere più. Che cosa diremo, allora? Che noi "vediamo" ciò che magari non esiste più? Sarebbe un evidente assurdo. In realtà ciò che vedo è solo una macchia gialla, il resto non è che "deduzione" cui può anche non corrispondere alcuna realtà. Insomma, tutte queste considerazioni mettono in crisi sia la universalità di questa categoria, sia persino la causalità come "prima" e "dopo", come sequenza di una causa che produce sempre un solo effetto.
ATTACCO DECISIVO CONTRO LA CASUALITÀ. Tutto questo, che pure appare stringente, non è ancora l’attacco decisivo contro la causalità, che si radica nelle teorie fisiche dei quanti e in quelle già adombrate delle relatività. Le teorie intorno al mondo subatomico, la teoria dei quanti e la meccanica ondulatoria, hanno distrutto la fiducia nella causalità, intesa come sequenza fissata per cui ad una azione corrisponde un effetto e uno soltanto, per sostituirvi il concetto di un indeterminismo che domina nel mondo corpuscolare e c he si nasconde ai nostri grossolani sensi del mondo macroscopico soltanto perché mascherato nel carattere statico delle leggi. La scoperta e lo studio del fotone e dei quanti hanno portato alle relazioni di Heisenberg, che dimostrano l’impossibilità di prevedere insieme la posizione e la velocità d’un corpuscolo. Se la causalità si riconosce dalla prevedibilità bisogna dire che il comportamento dei corpuscoli è in linea di massima imprevedibile, tranne che in qualche caso assolutamente eccezionale. Planck conclude così: «I danni che ha fatto all’antico determinismo la nuova meccanica sembrano troppo gravi perché possano facilmente venire riparati. È più prudente attenersi a questa constatazione: attualmente la fisica dei fenomeni in cui intervengono i quanti non è più conforme al determinismo» (L’indeterminismo nella nuova meccanica, pp. 222-227). Insomma, il principio di causalità non si applica al mondo subatomico, mentre su quello macroscopico ciò si verifica solo statisticamente, e quindi attraverso l’imprecisione di un procedimento approssimato. Sembra il "requiem" sconcertante per questo principio, fondamento del castello scientifico, ma non siamo ancora alla fase apocalittica. Questa si determina quando la teoria della relatività mette in dubbio non solo l’applicabilità del concetto, ma la stessa sua legittimità: insomma è semplicemente un errore. Bertrand Russell, nel suo ABC della relatività (1925), afferma scultoreo che «il linguaggio della causa e dell’effetto" sarà una comoda abbreviazione per gli scienziati, ma "non rappresenta nulla che sia veramente riscontrabile nel mondo fisico». Il crollo di questo paradigma, pilastro del sapere e della stessa conoscenza, ha il sapore di una caduta degli dèi. Scrive Max Planck: «In nessun caso è possibile prevedere con esattezza un evento fisico. È questa una scomoda, ma inevitabile, verità». E «…con ciò lo scopo della ricerca fisica... viene ricacciato indietro...». Una vera "tragedia", si potrebbe dire, per le c ertezze dell’uomo che non si agganciano più nemmeno alla scienza.
Il libro
Aristotele, Metafisica
La Metafisica è il risultato di un lavoro di assemblaggio realizzato dal curatore dei manoscritti di Aristotele (384 - 323 a.C.), Andronico di Rodi. Gli argomenti sono difficilmente classificabili in termini tradizionali, ma fondano un nuovo campo di ricerca che ha nell'Essere - l'ente in quanto ente - il suo punto di convergenza. Il trattato è diviso in 14 libri, ordinati da Andronico secondo le lettere dell'alfabeto greco. Libro Alfa: contiene la celebre definizione della filosofia come "scienza prima", o anche scienza delle cause prime (è probabilmente la continuazione del II libro della Fisica); libro alfa minuscolo: appendice al libro Alfa; libro Beta: è una raccolta di aporie, in cui Aristotele ha condensato le questioni fondamentali della filosofia; libro Gamma: tratta dell'ente in quanto ente (essere) nei suoi molteplici significati. Contiene anche la trattazione del principio di non-contraddizione; libro Delta: è il "lessico" filosofico di Aristotele, da lui continuamente aggiornato per tutta la vita; libro Epsilon: contiene una serie di schede (probabilmente appunti) di definizione delle diverse scienze. libri Zeta, Eta, Theta: contengono importanti approfondimenti sui concetti di sostanza, potenza e atto; libro Iota: sono probabilmente gli appunti per un corso sui concetti di "ente" e "uno", identità, non-identità, somiglianza, opposizione; libro Kappa: una rimanipolazione non di mano di Aristotele su argomenti dei libri Beta, Gamma, Epsilon e Fisica III; libro Lambda, tratta delle sostanze immobili eterne, e di Dio inteso come motore immobile; libro My: contiene la critica alla dottrina platonica delle idee; libro Ny: contiene la critica alla dottrina pitagorica dei "principi".
Famosissimo l'incipit del primo libro: «Tutti gli uomini per la loro natura desiderano conoscere. E segno ne è l'amore per le sensazioni: infatti anche senza che abbiano utilità sono amate per sé stesse, e sopra tutte le altre le sensazioni date dagli occhi. Infatti non solo per poter agire, ma anche quando non abbiamo intenzione di far nulla preferiamo il vedere - per così dire - a tutti gli altri sensi. E la causa è che questo senso ci fornisce conoscenza più degli altri e ci mostra molte differenze».
Il percorso
La morte di una civiltà non avviene per un intervento traumatico improvviso, che in genere ne è solo la causa apparente o comunque ultima in ordine cronologico: essa si consuma nello smarrimento dei fattori che hanno guidato quella civiltà, in un decadimento progressivo che può passare inosservato, sebbene abbia conseguenze di portata incalcolabile. Questa la considerazione con cui Vittorino Andreoli inaugurava il suo viaggio su queste pagine. Un incipit che aveva come riferimento quella che siamo soliti chiamare civiltà occidentale, la quale sta affrontando una fase di estrema delicatezza e drammaticità. Per Andreoli, più precisamente, l'uomo di oggi si trova nel mezzo di un guado: è diviso tra la fiducia cieca e ingenua in una tecnica a cui ha appaltato la sua felicità e i timori per l'incontrollabilità della realtà circostante, per una società che sembra sempre più scardinata, caotica, che rigetta furiosamente quelli che sono stati storicamente i suoi fondamenti ideali. È un uomo che, dietro la sicurezza di un relativo benessere materiale, resta in ballo di forze invisibili che lo guidano dove lui certamente non vorrebbe andare, se solo fosse consapevole della vera destinazione. Di fronte a questa situazione è necessario riconsiderare, riportare alla luce quei «principi» che paiono essere saltati, per vedere cosa può essere riattualizzato di un lascito che troppi considerano irrimediabilmente perduto.

Idee & figure
Bernardino Telesio
(1509-1588) nato a Cosenza. Uno zio gli insegnò le lingue latina e greca. Studiò matematica e filosofia all'università di Padova, quindi si ritirò in un convento di benedettini, dove meditò e scrisse la sua opera più importante: De rerum natura, che gli diede grande fama. La filosofia del Telesio si oppone all'aristotelismo del suo tempo e dà inizio a una corrente di pensiero naturalistico a sfondo panteistico. Telesio fondò nella sua città nativa l'Accademia Cosentina, che fu una delle prime Accademie scientifiche.

John Stuart Mill
Filosofo ed economista (Londra 1806 - Avignone 1873). Esercitò una notevole influenza sul pensiero inglese del XIX secolo, non solo in filosofia ed economia, ma anche nell'ambito delle scienze politiche, della logica - con il suo Sistema di logica deduttiva - e dell'etica. Venne educato dal padre, James Mill, anch'egli filosofo ed economista, e nel 1822 trovò un impiego presso la Compagnia delle Indie, dove lavorò fino al 1858. In seguito, si ritirò a vivere in Francia, presso Avignone.

Lucien Lévy-Bruhl
Etnologo francese (1857-1939), studioso di storia delle religioni e autore della teoria del prelogismo, secondo la quale verrebbe negata alla mentalità primitiva la capacità di formulare i concetti di causalità e d'identità. Tra i suoi libri, La mentalità primitiva (1923), L'anima primitiva (1927).
«Avvenire» del 26 marzo 2006