06 giugno 2006

Contro la storia scritta per legge

Polemica in Francia: il legislatore vuole decidere sui contenuti della storiografia
di Eugenio Di Rienzo
Alto e nobile il messaggio in ricordo dell’Olocausto, pronunciato da Benedetto XVI, nel lager di Birkenau, alla fine dello scorso mese di maggio. Alto e nobile, eppure tale da aver suscitato un vero e proprio dibattito storiografico e persino l’accusa di aver sottovalutato il ruolo di «volenteroso carnefice», svolto dal popolo tedesco, all’interno della «soluzione finale» che Hitler aveva decretato per il «problema ebraico». Nulla di male, naturalmente, perché anche le parole del successore di Pietro possono essere utile materia di pubblica discussione. Ma se il Pontefice avesse pronunciato quelle stesse parole, non in Germania, ma in terra di Francia, forse le cose sarebbero andate diversamente e persino il Vescovo di Roma avrebbe potuto incappare in una denuncia penale, a norma della legge Gayssot, votata nel luglio 1990, per punire tutti coloro che «disconoscono o ridimensionano l’esistenza della Shoah».
Parlare del passato prossimo e meno recente, studiarlo e analizzarlo è infatti diventato un mestiere pericoloso al di là delle Alpi, da quando lo Stato francese ha deciso di disciplinare queste attività attraverso le cosiddette «leggi della memoria», arrogando a se stesso e al potere giudiziario la capacità di decidere quale sia, in ultima istanza, la «verità storica». Alla normativa Gayssot ha fatto seguito l’approvazione, nel 2001, di altre due disposizioni legislative, che puniscono, come reato, la negazione del genocidio armeno del 1915 e qualsiasi affermazione tendente a non considerare «crimine contro l’umanità» la schiavitù. A questo apparato legislativo si è poi aggiunta una nuova normativa, varata nel febbraio 2005, che prescrive di inserire nell’insegnamento della storia un giudizio sul «ruolo positivo della presenza francese nelle ex-colonie, soprattutto nel Nord-Africa». E con questa disposizione, inaugurata con raro tempismo proprio alla vigilia della rivolta dei giovani emigrati marocchini, tunisini, algerini nelle periferie di Parigi, l'improntitudine del «politicamente corretto» ha toccato il suo culmine e i provvedimenti approvati da parlamentari magari di «buona volontà», ma sicuramente di scarso senno, hanno provocato effetti davvero dannosi.
Da tutto questo proliferare di buone intenzioni, di cui è sempre lastricata la via dell’inferno, la principale vittima è stata però la Storia, ormai prigioniera dei lacci e laccioli tessuti da un potere politico che ha veramente oltrepassato il giusto limite nel quale deve restare racchiusa la sua azione. Ed è toccato agli storici francesi difendere con fermezza l’autonomia della loro professione, con un pubblico appello, che richiede l’abrogazione di ogni intervento legislativo sulla memoria, al quale ha fatto seguito il volume di René Rémond (Quand l’Etat se mêle de l’histoire, Stock), che si conclude con un durissimo attacco contro il regime di «censura strisciante» inaugurato dalla Quinta Repubblica, che pare voglia obbligare gli analisti del passato a scegliere i loro oggetti di studio in ragione della loro irrilevanza da un punto di vista penale. Insomma: mai più nessuna indagine «pericolosa» sulle grandi trasformazioni del Novecento, ma soltanto innocue ricerche sui metodi contraccettivi nella Provenza del XVII secolo o sulla diffusione delle malattie veneree nel porto di Marsiglia durante il regno di Luigi XV.
Il problema, intendiamoci bene, non è soltanto francese. Anche in Italia si agita il desiderio di arrivare ad una soluzione giustizialista della verità storica e forse si fa strada la trepidante attesa che qualche governante possa fare sua questa aspettativa. Lo dimostra la recente raccolta di saggi di Giuseppe Ricuperati (Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Laterza), dove si decreta, con petulanza, il crollo definitivo del ruolo di indirizzo dello Stato-Nazione nella ricerca storiografica, ormai sostituito dalla comparsa di altre «deleghe» europee e planetarie (ma anche regionali, municipali, etniche, religiose, culturali, persino ambientali), dalle quali si desume il novissimo Sillabo e insieme il Decalogo al quale l’analista del passato dovrebbe sottomettersi, accettando come esclusivi valori di riferimento «la repulsione verso la guerra come soluzione dei conflitti, la possibilità di considerare i diritti del futuro e delle prossime generazioni, il rispetto delle identità e delle differenze».
Si tratta di una ricetta impastata di buoni sentimenti, persino banali nella loro ovvietà, eppure pericolosa, perché destinata a favorire un disciplinamento forzoso dell’attività storiografica. Una ricetta, poi, neppure originale, che ricorda da vicino quella formulata per la prima volta, a Oslo, nel lontano 1928, con il progetto, espresso all’interno del Comitato Internazionale di Scienze Storiche, di attuare una revisione dei manuali di storia, per purgarli dai più scoperti riferimenti di carattere nazionalistico, che si pensava avessero la grande strage del primo conflitto mondiale. A quella proposta, formulata dal delegato francese Lhéritier, si oppose un grande storico italiano, Gioacchino Volpe, designato a rappresentare il nostro Paese in quel consesso. Al suo ritorno, Volpe, inviava al presidente della Camera dei deputati un articolato rapporto su quanto accaduto nella capitale norvegese, nel quale si sosteneva che il programma di Lhéritier era inaccettabile, non tanto per i suoi contenuti quanto per il suo carattere dirigistico, che avrebbe provocato una stagnazione della ricerca in un labirinto delle legittimità, fatto di veti incrociati, costellato da divieti di accesso e di sensi vietati, che rischiavano di rendere il mestiere dello storico non solo difficile, come è sempre stato, ma addirittura impraticabile nella sua pienezza.
«Il Giornale» del 6 giugno 2006

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