16 giugno 2006

Contro l’etica di Sparta una politica della vita

Tante proposte di legge per l’eutanasia. Ma nessuno ne presenta per sostenere le esistenze difficili, per alleviare il dolore, per aiutare i malati terminali. Parla il filosofo Cardia
«Chi difende la morte dolce precisa sempre che il suo è il limite massimo assoluto Invece poi quel confine viene continuamente superato, col tempo cadono tutte le barriere»«Il relativismo morale scava lentamente nelle coscienze, ma non riesce a superare una formazione che è radicata nel cuore dell’uomo e che ha reso ancestrali alcuni valori»
di Carlo Cardia
In un libro uscito nel 2005, quando ancora non c'erano state le polemiche sulla regolamentazione dell'eutanasia in Olanda, Umberto Veronesi scrive: «Così come nessuno sognerebbe come lecita l'uccisione di un neonato, così non sarà mai lecito pensare che si possa spegnere la vita di un ritardato mentale grave, o di un malato grave, o di un malato di Alzheimer terminale, ormai totalmente inconsapevole di sé e del mondo fisico e affettivo che lo circonda. Per quanto a noi individui sani e in pieno possesso delle nostre facoltà mentali alcune situazioni possano sembrare "vita senza consapevolezza", dobbiamo affermare con forza come impercorribile questa strada. Altrimenti ci troveremmo sulla stessa posizione che portò il nazismo a definire "vita indegna di vita" quella di bambini gravemente ritardati e di soggetti con handicap, che infatti furono eliminati» (Il diritto di morire, Milano 2003, p. 17).
Propongo questa non breve citazione perché nella vasta letteratura sull'eutanasia c'è un elemento assolutamente singolare. Chiunque afferma che è lecito spegnere una vita in determinate circostanze, aggiunge che però mai e poi mai si deve andare oltre quel limite. Però, subito dopo, questo limite viene superato da un altro autore, o dalla realtà. Chi è a favore di una eutanasia basata sul consenso dell'interessato, afferma che sarebbe un delitto sopprimere la vita di un non consenziente. Poi, si deve constatare che in Olanda è stata autorizzata la soppressione di neonati, e minori, quando presentino malattie gravi e presumibilmente non curabili. Chi approva l'eutanasia per i neonati è sicuro a sua volta che non si possono sopprimere adulti incapaci di intendere e di volere, anche per non avviarsi su una china senza fine. Invece, si trovano autori anche famosi (come Peter Singer e H. Tristan Engelhardt) per i quali quando mancano totalmente l'autocoscienza, l'autonomia e la razionalità, non si può parlare di persone in senso stretto, quindi l'eliminazione di non-persone è lecita. Infine, chi si pronuncia per l'eutanasia soltanto per malati terminali che patiscano sofferenze insopportabili, è pronto a giurare che questo tipo di interventi umanitari non ha nulla a che vedere con il suicidio, perché il suicidio sarebbe una inaccettabile fuga dalla vita e dalla sua intrinseca doverosità. Invece, basta girare l'angolo e si trovano non solo autori che rivendicano piena legittimità per il suicidio, ma Paesi nei quali il suicidio può essere addirittura assistito. Proprio con riguardo al suicidio assistito, Umberto Veronesi racconta un episodio accaduto ad un suo collega in un Paese dove questa pratica è ammessa: «Ho accompagnato un mio paziente che voleva essere aiutato e morire. L'inviato dell'organizzazione ha preparato la pozione letale, il paziente ne ha bevuto la metà e poi ha avuto un ripensamento. L'incaricato gli ha detto: "Guardi che così rischia di avere delle sofferenze indicibili. Beva tutto, perché io sono venuto qui perché lei finisca di bere!". Il paziente ha obbedito, ed è morto». L'episodio, aggiunge Veronesi, «si commenta da sé» (p. 83). Mi sono sempre chiesto come mai esista questo drammatico conflitto di posizioni. Come mai chiunque afferma che l'eutanasia è lecita in determinate circostanze, si sente in dovere di aggiungere: però, questo è il limite massimo cui si può arrivare, oltre non si può andare, perché vorrebbe dire copiare i nazisti, si violerebbe la libertà personale, si commetterebbero dei delitti mostruosi, e via di seguito. Io credo che la risposta sia questa. Che il relativismo etico sta scavando lentamente nella coscienza di molti, ma non riesce ancora a superare certe resistenze "ancestrali" che ciascuno di noi porta con sé, e che non sa come spiegare razionalmente, se non con l'affermazione consolatoria che comunque c'è un limite da non superare. Poi, quel limite viene continuamente superato, e si scopre allora che la destrutturazione della coscie nza può continuare senza soste, e con il tempo è capace di superare ogni barriera. A guardare ancora più a fondo, c'è un altro elemento comune in posizioni tanto diverse. Ed è che tutti partono dal presupposto di giustificare l'intervento eutanasiaco, senza porsi il problema contrario: cosa si può fare per salvare ogni esistenza e per rendere più sopportabili le sofferenze, fisiche o psichiche. In questo modo neanche ci si pone il problema di quale società si vuole costruire attorno a scelte decisive come quelle sulla vita o la sua soppressione, sulla negazione delle sofferenze o sul loro alleviamento. La prima riflessione da fare, resa urgente dalla deriva olandese, è quella che riguarda le «vite inutili» di chi non può decidere, neonato o adulto che sia. La legge può certamente operare una scelta che si basi sul rifiuto delle vite inutili. E può lasciare ai singoli la facoltà di decidere essi stessi, entro certi limiti, quali persone eliminare e quali tutelare, se i neonati handicappati, se i malati di mente pericolosi per sé o per gli altri, o gli anziani che hanno perso coscienza e autonomia. È una scelta possibile, anche perché già percorsa in passato da società che apprezzavano della vita soltanto il suo aspetto attivo e protagonistico. Si può fare come facevano, con pratiche diverse, alcune tribù delle terre ghiacciate, i celti, gli spartani, i romani, e altri ancora. Si possono seguire quegli esempi che per secoli, da quando esiste il cristianesimo (e altre religioni monoteiste), sono stati citati in tutte le scuole d'Occidente come crudeli e feroci, fortunatamente superati dal progredire della civiltà. Si può fare, quindi, e si può tornare indietro. Ci si libererebbe delle passività, dell'onere di assistenze spesso penose, si opterebbe per le vite belle, o almeno passabili. Si cancellerebbero tanti drammi. In questo modo, tra l'altro, si compirebbe il definitivo passaggio dallo Stato totalitario, che decide quando e perché sopprimere i propr i cittadini, all'individuo totalitario al quale sarebbe delegato lo stesso potere di vita e di morte sugli altri. Ma la legge può fare un'altra scelta. Si può decidere che la primordiale applicazione del principio di eguaglianza è quella di chi non discrimina tra vita e vita, ma le ritiene tutte degne di essere vissute, e tutelate. Si può alleviare il dramma di chi si trova coinvolto in queste situazioni, favorendo in tanti modi quelle associazioni, o istituzioni, sanitarie o umanitarie, che si prendono cura dei casi più difficili e assistono i più poveri della terra con una abnegazione che alla luce del moderno 'utilitarismo' si palesa in tutto il suo eroismo. In questo caso non ci si libera di nessuna passività, si accetta e si favorisce una solidarietà che unisce gli uomini in un vincolo superiore. Si comprendono nell'accettazione dell'esistenza anche le persone non perfette, si cerca di dare loro solidarietà e serenità, non di rado felicità, aprendole alla speranza, alla speranza del miglioramento, a volte della guarigione, per chi vuole ad una speranza più alta. Si tratta di due scelte perfettamente possibili, ma non intercambiabili, del tutto antitetiche. La prima, vitalistica e produttivistica, che esalta quanto di forte esiste nella vita e cancella il resto. La seconda, solidaristica e compassionevole, che non esclude nessuno, che cerca di portar sollievo a chiunque, che riconosce e favorisce la dedizione integrale che alcuni, individui o gruppi, praticano verso gli altri. Ho notato, in tanti dibattiti e discussioni sull'argomento, che quando si riesce a concordare su questo punto si depotenzia moltissimo l'altro dilemma sulla eutanasia verso persone adulte e consapevoli, ipotizzata per evitare sofferenze inutili. E si depotenzia per due ragioni. Perché se ci si pone in un ottica diversa, e ci si chiede cosa si può fare per alleviare, o evitare, sofferenze inutili, si scopre che c'è tutto un cammino da percorrere, fatto di tante cose estrem amente attuali. Si può potenziare anche legislativamente il diritto di ciascuno a conoscere, e decidere, sulle cure da accettare e quelle da rifiutare, per evitare il cosiddetto accanimento terapeutico. L'attuale codice deontologico dei medici prevede all'articolo 34 che «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso». E il Comitato italiano di bioetica ha aggiunto che non soltanto i medici dovranno tener conto delle direttive anticipate, ma dovranno giustificare per iscritto le azioni che violeranno tale volontà. La legge potrebbe rafforzare il principio e renderlo criterio direttivo nel rapporto tra paziente e malato. Oggi sembra difficile raggiungere questo obiettivo. Anche perché l'accanimento terapeutico si concretizza spesso attraverso atti e interventi che, isolatamente considerati, possono essere valutati in un modo, ma nel loro insieme provocano patimenti di cui il malato sopporta da solo tutto il peso. Ma proprio questo è lo sforzo da fare perché che si realizzi un rapporto tra paziente e medico fondato sulla conoscenza delle terapie proficue, e di quelle inutili, quindi sulla libertà di scelta per l'interessato e i suoi familiari. Si può legislativamente (e finanziariamente) rafforzare la possibilità di ricorso alle cure e ai farmaci contro il dolore che, pur essendo perfettamente leciti, vengono spesso forniti e utilizzati con resistenza e difficoltà, sia nelle fasi terminali della vita sia in momenti di particolare sofferenza. Si possono meglio predisporre le strutture sanitarie per una accoglienza umana dei malati terminali per superare certe desolanti situazioni di abbandono che tutti conosciamo. E si può rafforzare l'area del volontariato per far superare ai malati che non hanno un sostegno familiare forte, quella solitudine e quel senso di abbandono che, per giudizio quasi unanime dei medici, sono alla base di pensieri e ipotesi disperanti, sulle quali poi si fa leva per ingigantire il cosiddetto bisogno d'eutanasia. Mi chiedo da tempo perché, di fronte a proposte di legge che vogliono rispondere all'interrogativo su quando sia lecito sopprimere una vita, non se ne presentino altre fondate sull'interrogativo opposto: cosa fare per sostenere le esistenze difficili, per alleviare o sconfiggere il dolore, per sostenere i malati terminali. Si tratta di due logiche diverse, che proprio per questo dovrebbero essere messe a confronto. Ho detto, però, all'inizio che l'ottica relativistica scava lentamente nella coscienza erodendo pezzo a pezzo sentimenti e convincimenti che credevamo connaturati all'uomo. In realtà, questi sentimenti sono il frutto di una formazione etica antica e radicata nel cuore dell'uomo. È stata la cultura della vita che ha reso ancestrali alcuni valori, e che ancora resiste e fa dire a molti: non superiamo questo limite perché oltre c'è il delitto. Bene, io credo che si debba ricominciare da capo e dimostrare che difendere la vita, tutte le esistenze senza distinzione, e dare loro dignità e valore anche nelle sofferenze, è non soltanto giusto ma anche possibile.
«Avvenire» del 16 giugno 2006

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