14 giugno 2006

Fame, la disfatta

La denuncia degli esperti: con la Dichiarazione del millennio ci eravamo impegnati a dimezzare la fame entro il 2015, ma la percentuale mondiale aumenta invece di diminuire. E l’Italia non è ancora riuscita a destinare la quota prefissata del Pil per i Paesi poveri. In settembre lo Special Forum della Fao
di Paola Springhetti
Ma perché non riusciamo a sconfiggere la fame nel mondo? Ancora oggi 30mila bambini al giorno muoiono di fame o di malattie curabili. Sono bambini che fanno parte di quel miliardo di persone che vive con meno di un dollaro al giorno e di quei 18 milioni di persone (50mila al giorno) che muoiono ogni anno per cause legate alla povertà. Che sarebbe poi come dire che dal 1990 al 2004 sono morte di povertà 270 milioni di persone: come se l'intera popolazione degli Stati Uniti sparisse in pochi anni. Il dibattito sulla fame e sulla povertà nel mondo si è riacceso negli ultimi tempi, anche in vista del prossimo settembre, quando si svolgerà lo Special Forum, organizzato dalla Fao per fare il punto sugli ultimi dieci anni di lotta alla povertà. Dieci anni sconfortanti, stando a quanto scrive Sergio Marelli sull'ultimo numero di "Volontari per lo sviluppo", il mensile di Volontari nel Mondo-Focsiv: «L'obiettivo di dimezzare la fame del mondo entro il 2015… è ben lontano dall'essere realizzato; la percentuale mondiale di popolazione denutrita continua ad aumentare invece di ridursi». Le cause sono molte: «regole commerciali ingiuste, l'assenza di una equa distribuzione della terra, il mancato rispetto dei diritti di donne, gruppi indigeni, campesinos, sono le sfide che siamo chiamati ad affrontare e che dobbiamo pretendere entrino nelle agende dei nostri governi». Già, i governi. In teoria si sono impegnati: quelli di ben 189 paesi hanno infatti firmato, nel 2000, la Dichiarazione del Millennio che individua otto obiettivi concreti e verificabili e una scadenza, il 2015, entro la quale dimezzare la povertà. Ma già nel 2002 il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, rendendosi conto che pochi fatti seguivano a quell'assunzione di impegno, cercò uno strumento per responsabilizzare i governi. Da qui la Campagna del millennio-No excuse 2015, sviluppatasi all'insegna dell'idea che «questa è la prima generazione che può eliminare la povertà», visto che ne possiede tutti gli s trumenti economici, tecnologici, produttivi eccetera (i dati di cui sopra e gli obiettivi si trovano nel sito www.millenniumcampaign.org). «Non c'è dubbio che, se non si riesce a sconfiggere la povertà è per mancanza di volontà politica», spiega Silvia Francescon, scelta dall'Onu come coordinatrice per l'Italia della Campagna del Millennio. «Quando quei 189 capi di stato hanno firmato, sapevano che gli obiettivi erano raggiungibili. E chi ha voluto muoversi l'ha fatto senza cercare alibi. Come quello secondo il quale non ci sarebbero risorse finanziarie per raggiungere quella quota dello 0,7% del Pil da versare in aiuti per lo sviluppo: ci sono paesi che queste risorse le hanno trovate, pur in situazioni economiche difficili». Secondo l'Ocse, il nostro Paese ha versato, nel 2005, lo 0,29% del Pil, il che, dice Francescon, «è pur sempre meglio dello 0,15% del 2004. Ma il vero problema non è questo, è che manca una vera strategia che permetta di raggiungere gradualmente, ma con certezza, la quota prevista». In termini ancora più chiari, l'ha scritto anche padre Giulio Albanese nell'ultimo numero del settimanale "Vita", in cui ha messo in guardia le Ong dal diventare il capro espiatorio di una politica di cooperazione inefficiente o, meglio, inesistente. «Secondo la stragrande maggioranza delle organizzazioni non governative, nel corso degli ultimi cinque anni l'Italia ha di fatto ignorato gli Obiettivi per il Millennio. Le accuse sono chiare e peraltro ben documentate: carenza di fondi, assenza di una strategia politica della cooperazione, scarsa efficienza della macchina burocratica e del sistema di monitoraggio degli aiuti. Ma non è tutto qui: nei documenti di cui sopra si parla anche di un grave deficit etico nell'operato governativo, dato che la penalizzazione della cooperazione ha inevitabilmente significato un'altra cosa: la riduzione drastica degli aiuti umanitari». Il fatto è che le cose che i Paesi ricchi dovrebbero fare, non sono semplici: «la campagna», spiega Francescon, «chiede ai governi di concentrare gli aiuti nei Paesi più poveri, ma anche di "slegare" questi aiuti da interessi proprio (quelli italiani vengono dati a patto che si utilizzino tecnologie e mezzi del nostro paese per la realizzazione dei progetti), di proseguire con più decisione sulla strada della cancellazione del debito, di trasferire tecnologie e, soprattutto, di accettare regole per i commerci internazionali che non penalizzino sistematicamente i paesi poveri». Tutte cose che non si possono fare senza una grossa spinta motivazionale, senza l'elaborazione di un'"etica pubblica" e condivisa che consideri inaccettabile la contabilità milionaria dei morti di povertà. Intanto, in Italia è stato rilanciato il Comitato italiano per la Sovranità alimentare (presieduto da Sergio Marelli), che coordinerà le iniziative in vista dello Special Forum e cercherà di tenere desta l'attenzione su questo tema. Anche perché, come dice Francescon, «i cittadini devono essere consapevoli del proprio potere di pressione sui governi per quel che riguarda questi temi». Contemporaneamente, però, padre Albanese ripropone un vecchio slogan che non ha perso il suo valore: «"Contro la fame cambia la vita!", che rivendica anzitutto l'impegno coerente di ogni libera coscienza, credente o non credente, a passare dalle parole ai fatti». Perché in fondo, per una vera lotta alla fame e alla povertà, bisogna ritrovare le motivazioni, quelle personali, quelle comuni, quelle politiche.
« Avvenire » del 14 giugno 2006

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