27 giugno 2006

I fascisti che sognavano la rivoluzione

Malaparte, Maccari, Berto Ricci, ma sopratuttto Bottai: si illusero di creare l’«uomo nuovo» di una società italiana corporativa ma non totalitaria
di Giordano Bruno Guerri
Ci fu, lungo tutto il corso del regime fascista, un «fascismo rivoluzionario» che affiancò e insieme si oppose - per quanto gli venne concesso - al fascismo-regime. Infatti la rivoluzione promessa da Mussolini nel 1919 si andò stemperando anno dopo anno nell’accordo con quelli che oggi chiameremmo «i poteri forti»; in seguito, a partire dal 1925, si trasformò in una dittatura che di rivoluzionario ebbe solo gli intenti e la capacità di portare attivamente le masse a partecipare alla vita dello Stato. L’élite intellettuale e politica che cercò di riportare il fascismo ai suoi ideali originari di trasformazione dello Stato e della società è stata spesso definita come un «fascismo di sinistra»: espressione impropria e deviante che confonde le idee, piuttosto che chiarire una posizione. Adottare la formula, esatta, di «fascismo rivoluzionario» è il primo merito dell’ampio saggio di Paolo Buchignani La rivoluzione in camicia nera (Mondadori, pagg. 458 eura 20). Il secondo merito è quello di esaminare tutte le numerose correnti del fascismo rivoluzionario, accompagnandone gli sviluppi dalle origini al 25 luglio 1943.
Curzio Malaparte, Giuseppe Bottai, Mino Maccari, Ardengo Soffici, Berto Ricci, Ugo Spirito sono solo alcuni dei protagonisti di questa categoria, che aveva tante teste quanti orientamenti. Il nome che li accomuna tutti, però, è quello di Bottai: il quale non solo fu l’unico a avere una visione organica della rivoluzione da compiere, ma fu anche l’unico che ebbe un potere politico reale per quasi tutto il ventennio: l’unico, inoltre, a avere raccolto intorno a sé (e alle sue riviste Critica fascista e Primato) due generazioni di giovani e di intellettuali: molti dei quali approderanno, nel dopoguerra, alla sinistra, quella vera. L’errore - ahimé, basilare - di Buchignani, è accomunarli anche nella volontà di realizzare un regime totalitario: se per «totalitario» si intende, come si intende, un regime teso a distruggere i gruppi e le istituzioni che formano il tessuto delle relazioni private dell’uomo, estraniandolo così dal mondo e privandolo persino del proprio io. Totalitari furono il nazismo e lo stalinismo, non il fascismo, neppure quello rivoluzionario.
Certo non era questo il fine di Bottai, né degli altri, anche se il suo progetto comportava una radicale trasformazione dell’uomo e della società. Bottai fu, più che un semplice uomo politico, un teorico dell’agire sociale. Provò a trasformare un regime, di cui percepiva i limiti e le debolezze umane, ma non quelle strutturali, al punto da scrivere nel dopoguerra che quello fascista fu «fallimento di persone, non di sistema». Come politico e intellettuale si addossò la missione di trasformare una filosofia politica in una completa rielaborazione di ordinamenti, istituzioni, iniziative e programmi per uno Stato nuovo, impegnato nell’impresa epocale di una «rivoluzione da compiere».
Questa profonda ristrutturazione dello Stato doveva necessariamente partire da una concezione dell’individuo all’interno del fascismo: all’individuo Bottai chiedeva non un’astratta e formale cooptazione all’interno di un organismo superiore, esterno e intangibile, bensì una partecipazione attiva fatta di responsabilità e diritti. Secondo Bottai la democrazia liberale grava sul cittadino come un governo assillante, sempre pronto a invadere in modo indebito lo spazio di libertà del singolo, soffocandolo con un peso burocratico e legislativo tanto più insopportabile quanto più si manifesta in modo paternalistico; il cittadino dello Stato corporativo concepito da Bottai, invece, esalta le proprie prerogative e capacità specializzate, mettendole a disposizione di un ente di cui fa parte piena, cosciente e legittima. Così lo Stato non sarà più un leviatano oscuro e incombente: accoglierà invece la vita intera del cittadino, gratificato dalla compartecipazione a una struttura collettiva a cui ha tutto l’interesse - in primo luogo morale - di essere solidale. Uno Stato moderno, da parte sua, deve ampliare il proprio ruolo sociale, trasformandosi da spettatore asettico delle esistenze dei propri abitanti a interprete delle loro esigenze, ma anche e soprattutto suggeritore di stili, abitudini, mentalità.
Dopo una prima fase di sperimentalismo politico all’insegna delle avanguardie futuriste, appena Mussolini arriva al potere, Bottai si preoccupa di elaborare l’idea-forma sulla quale il fascismo dovrà fondare la propria ipotesi di creazione di uomo nuovo. Non poteva esserci una vera e propria rigenerazione d’Italia, né una nuova classe dirigente, senza una rivoluzione morale che, attraversando le classi, desse ai cittadini la possibilità di identificarsi con lo Stato. Una politica unitaria avrebbe reso impraticabili settarismi, visioni egoistiche, distinzioni manichee e, soprattutto, individualismi guicciardiniani. Lo Stato avrebbe potuto così assumere una propria disciplina politica capace di coinvolgere tutti gli strati della vita nazionale: superando conflitti e lacerazioni, proponendo politiche globali e consolidandosi come espressione di un potere collettivo. La trasformazione dell’Italia avrebbe assorbito non solo la vita pubblica dei cittadini, ma anche quella etica: «Il fascismo deve essere qualcosa di più che un metodo di governo: deve essere un metodo di vita, quindi ricercare la vita, non solo ove essa è istituto, legge, programma di partito, ma più in là, dove essa è ancora formantesi coscienza del popolo», scrive nel 1923.
Dato l’obiettivo finale, è evidente che la gestione politica non si potesse ridurre a una pratica amministrativa o burocratica: suo compito sarebbe stato, invece, cambiare il midollo stesso degli italiani, farli partecipi di un processo di rinnovamento generale. La politica diventava così educazione a un’idea di rivoluzione che affrontava in modo inedito l’esigenza di formare la personalità di un intero popolo, rinnovando concezioni e forma mentale di tutta la società. Secondo Bottai, il fascismo doveva affermarsi - e a questo fu diretto il suo infaticabile lavoro di mediazione - come una «rivoluzione intellettuale», contro le «deformazioni manganellistiche» (1924): la soluzione dittatoriale, imposta con la violenza e con la coercizione, rappresentava per lui un’esperienza temporanea e eccezionale, preparatoria a una «costituzionalizzazione» del fascismo mediante lo Stato corporativo. Soltanto attraverso lo Stato corporativo poteva essere concepita una forma matura di democrazia sostanziale, fondata su un’idea moderna, condivisa anche dal pensiero politico mussoliniano: l’inserimento delle masse nelle strutture dello Stato.
Addirittura agli albori del ventennio, nel lontano 1923, a chi auspicava un rilancio rivoluzionario sotto l’intrigante etichetta della «seconda ondata», Bottai aveva opposto programmi e ambizioni di ben altro tenore: formazione dal basso di una nuova classe dirigente di partito; affermazione di un nuovo spirito di disciplina, che conciliasse gli obiettivi individuali con quelli del nuovo corso politico; attribuzione di poteri rigorosi nella distinzione tra Stato e partito; rigorosa programmazione politica e culturale. A questo disegno rimase sempre legato, non importa quanto fosse realmente coltivabile e, soprattutto, praticabile nelle logiche reali del fascismo. Nella società del domani sognata da Bottai, la tolleranza e la dialettica sarebbero stati garantite grazie a uno Stato nazionale fascista basato non sul pluralismo partitico, ma su di una società corporativizzata, culturalmente unificata dal progetto fascista: un modello di Stato a partito unico, contrapposto però a quello sovietico in quanto garante dei valori della tradizione umanistica dell’Occidente. E contrapposto, in seguito, alla Weltanschauung nazista in difesa dei valori latini.
Si pensi alle basi programmatiche che sottendono a una delle sue iniziative più durature e significative nel corso del Novecento: la riforma della scuola del 1939 si fonda proprio su questi presupposti, incentrati su una concezione dello Stato come educatore delle masse, formatore di una sostanza ideale e di una visione del mondo collettiva scaturite da un libero spiegamento delle energie intellettuali, non dalla coercizione. Rivoluzione sì, ma non totalitaria.

Come fu tradita un’idea
Nell’introduzione a Vent'anni e un giorno, insieme diario e analisi delle proprie idee politiche (Garzanti, 1977), lo stesso Bottai chiarisce e ribadisce la sua posizione antitotalitaria: «Il partito unico correva il rischio di perdere ogni movenza dialettica nel totalitarismo, che portando l’istanza dell’unità ai suoi limiti estremi, e spesso valicandoli accentra e concentra poteri, funzioni, compiti negli organi d’amministrazione e di comando, in un progressivo impoverimento e annichilimento d’iniziative dal basso. Il che è avvenuto». (pagina 42)
«Invece del corporativismo, con la sua esigenza d’organizzazione molteplice e snodata di categorie, avemmo il “totalitarismo”, furiosamente accentrato: monolitico. Tutto d’un pezzo. (...) Dove si diceva “fascista” o “corporativo”, si cominciò a dire “totalitario”, senza che ci si rendesse conto di quanto la nuova definizione comportasse di rinuncia ideologica e di pratico deviamento dall’originaria qualità associativa del moto». (pagina 55)
«Il Giornale» del 27 giugno 2006
L'autore del libro, Paolo Buchignaghi, risponde a Giordano Bruno Guerri, sempre su «Il Giornale» il giorno 29 giugno con il seguente articolo
Ma il fascismo fu totalitario, non libertario
Nella recensione comparsa sul Giornale di martedì 27 giugno, Giordano Bruno Guerri riconosce al mio libro La rivoluzione in camicia nera due meriti: quello della completezza dell’informazione e quello della correttezza nel definire la componente del fascismo da me presa in esame; condivide il fatto che la definisca «rivoluzionaria» e non «di sinistra». Lo ringrazio di questo. Per il resto, tuttavia, mi trovo in radicale dissenso rispetto al suo discorso. Dissento intanto dall’occhiello dell’articolo, in cui si afferma che il fascismo rivoluzionario sarebbe stato «la visione politica di una minoranza»: no, esso non è stato né un fenomeno marginale, né un fenomeno «eretico», ma l’essenza stessa del fascismo, il suo nucleo ideologico originario, la sua vitalità, la sua progettualità, il suo tentativo di costruire una «terza via» alternativa tanto al liberalismo (e al capitalismo) quanto al comunismo. Esso ha assicurato al regime il consenso delle classi lavoratrici e popolari, dei giovani, degli intellettuali. È stato il fascismo di un gerarca importante come Giuseppe Bottai, ma anche, per molti versi (seppure in modo del tutto particolare dato il suo ruolo specifico) dello stesso Mussolini, il quale, a partire dalla metà degli anni '30, con l’«accelerazione» rivoluzionaria e totalitaria, comincia progressivamente a realizzarne alcune istanze (l’antiborghesismo, il populismo, il rafforzamento delle prerogative del Pnf, la legislazione razziale e antisemita, la sostituzione della Camera dei deputati con quella dei fasci e delle corporazioni, la Carta della Scuola, la creazione del ministero della Cultura popolare, della Gil ecc.). L’esito disastroso della guerra mondiale travolgerà il regime fascista, interrompendo bruscamente questo processo assai gradito ai sovversivi neri, per i quali il Duce, fanaticamente amato, è il più grande rivoluzionario del secolo.Fondamentale, dunque, il fascismo rivoluzionario ai fini della comprensione del fenomeno fascista nel suo complesso; fondamentale e - aggiungo subito - assai pericoloso, al di là della buona fede di molti di coloro che ne fanno parte (sovente mossi, specie i giovani nati in camicia nera, da generose aspirazioni di rinnovamento e di giustizia sociale). Pericoloso - ed è su questo punto che dissento in modo più netto da Giordano Bruno Guerri - proprio perché totalitario, come credo di aver ampiamente documentato nel mio libro. Esso invoca più totalitarismo per avere più rivoluzione (per colpire più a fondo la borghesia e i moderati) e più rivoluzione per avere più totalitarismo (la «nuova civiltà fascista» del tutto fascistizzata). Altro che fascisti liberali e libertari! Il pluralismo politico essi nemmeno lo concepiscono: per loro lo Stato liberale è morto e sepolto e non deve risorgere. Reclamano sì il diritto alla critica, ma dentro il fascismo e soltanto per i fascisti. Come ha efficacemente dimostrato Emilio Gentile, tutto questo vale anche per Bottai, di cui, più dell’autobiografia assai addomesticata del secondo dopoguerra, dobbiamo prendere in considerazione l’opera del Ventennio, le azioni e gli scritti del potente gerarca, autore della fascistissima Carta della Scuola e convinto sostenitore delle leggi razziali. So bene che il regime italiano è stato meno totalitario del nazismo e dello stalinismo, ma lo è stato non per merito dei rivoluzionari (in fondo alla rivoluzione da essi auspicata intravedo gli universi concentrazionari), ma proprio per la presenza di quei «poteri forti» (la monarchia, la borghesia, la Chiesa cattolica), che hanno contenuto la vocazione totalitaria del fascismo mussoliniano e bottaiano.

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