12 giugno 2006

«La crisi della democrazia nasce dalla sfiducia»

di Pierre Rosanvallon
(Storico e docente al Collège de France)
Ragionando da un punto di vista storico la democrazia si è sempre presentata contemporaneamente come una promessa e come un problema: la promessa di un regime in linea con i bisogni di una società e il problema di una realtà che molto spesso non è in grado di raggiungere questi nobili ideali. Il progetto democratico, anche se abbondantemente corrotto, astutamente limitato o meccanicamente distorto, è sempre rimasto incompleto proprio laddove è stato proclamato. Le democrazie esistenti sono spesso rimaste incomplete o indebolite, anche se in maniere differenti. Così il disincanto ha sempre accompagnato le speranze che hanno generato la rottura nei confronti di regimi eteronomi e dispotici. Definire le condizioni per stabilire un potere legittimo e tratteggiare una «riserva di sfiducia» sono due azioni simultanee. Il principio elettorale utilizzato per la costruzione della fiducia e la sfiducia dei cittadini nei confronti del potere governativo sono proceduti di pari passo.
La storia delle democrazie reali è inseparabile da tensioni e costanti contestazioni. In questo modo, le teorie della democrazia rappresentativa hanno dissimulato una tensione costante tra legittimità e fiducia utilizzando il meccanismo elettorale. Queste due qualità, che le elezioni hanno spesso sovrapposto, non sono della stessa natura. La legittimità è una caratteristica fondamentalmente procedurale e giuridica: essa è strettamente ed assolutamente realizzata attraverso il processo elettorale. La fiducia, al contrario, è molto più complessa da definire.
La separazione tra legittimità e fiducia ha costituito un problema chiave nella storia dei governi rappresentativi. La loro separazione è stata la regola, mentre la loro sovrapposizione è stata l’eccezione. In francese, l’espressione l’état de grace - in inglese honeymoon - traducono la situazione che segue ad un’elezione politica, una breve fase durante la quale si assiste ad un’eccezionale unione tra le due qualità. Le reazioni a questa situazione si sono sviluppate lungo due direttrici. Da un lato si sono avute proposte ed esperimenti per rinforzare gli obblighi nei confronti della legittimità procedurale: ad esempio una maggiore frequenza nelle elezioni e una maggiore attenzione ai meccanismi di democrazia diretta nello sforzo di aumentare la dipendenza degli eletti dagli elettori. In ognuno di questi tentativi, l’ambizione è stata quella di migliorare «la democrazia elettorale». Ma si è anche avuto un percorso parallelo, che ha sviluppato una serie di pratiche sovrapposte, al fine di compensare l’erosione della fiducia attraverso l’istituzionalizzazione della sfiducia.
L’articolarsi di questa sfiducia si sviluppa lungo due direzioni: una dimensione democratica ed una liberale. La diffidenza liberale nei confronti del potere è stata comunemente teorizzata e commentata, soprattutto nei lavori di Montesquieu il quale ne ha fornito la più classica definizione, e nei Padri Fondatori degli Stati Uniti i quali ne hanno elaborato la forma costituzionale.Esiste tuttavia una seconda forma democratica della sfiducia. L’intenzione, in questo caso, è controllare affinché il potere eletto mantenga i propri impegni, fornire i mezzi per mantenere le aspettative richieste da un effettivo perseguimento del pubblico interesse. Essa si manifesta in molteplici forme. Ne sottolineo tre: il potere di vigilanza, di supervisione; le forme della sovranità negativa; e la democrazia giudiziaria. Questi tre poteri indiretti, o contro-poteri, che albergano nei recessi della democrazia elettoral-rappresentativa, descrivono i contorni di quello che ho definito contro-democrazia. Questa contro-democrazia non è l’opposto della democrazia, è piuttosto la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, una forma organizzata della democrazia della sfiducia posta di fronte alla democrazia della fiducia. La contro-democrazia e le istituzioni democratiche legali formano un sistema coerente e per questa ragione esso deve essere compreso ed analizzato come forma politica globale.
Prima di tutto il potere di vigilanza. Nel 1789 «sorveglianza» era la parola usata per designare quella forma complementare di sovranità che garantiva la piena realizzazione di un governo fondato sulla volontà generale. Il controllo del popolo, inteso come sentinella sempre attenta, era celebrato come soluzione fondamentale per tutti i disfunzionamenti istituzionali e in particolare per quelli riferibili ad una sorta di «entropia rappresentativa».
Trasformato durante il Terrore in un simbolo della tirannide dei club e delle associazioni, il concetto di sorveglianza venne bandito dal vocabolario politico. Ma se la parola scomparve, il suo riferimento rimase. La società civile ha instancabilmente proposto ed inventato nuove forme di ispezione e controllo attraverso altri canali. Questi poteri progressivamente aumentarono. Mentre i fondamenti istituzionali della democrazia rappresentativa non sono stati rivoluzionati negli ultimi due secoli - in particolare per quello che riguarda la concettualizzazione della rappresentanza, l’esercizio della responsabilità, o il ruolo svolto dalle elezioni - i poteri di sorveglianza sono progressivamente aumentati e si sono diversificati.
Il moltiplicarsi dei poteri finalizzati alla prevenzione caratterizza la seconda forma della cosiddetta sfiducia contro-democratica. La sovranità popolare si manifesta sempre più come un potere di rifiuto e ciò avviene o periodicamente attraverso le elezioni, o in forme più continuative di reazione a decisioni governative. Una nuova democrazia del rigetto ha rapidamente sostituito la democrazia dell’intenzione e del progetto. Si è verificato l’emergere di una forma di sovranità popolare che può essere riferita a ciò che in Francia si definisce un peuple-veto e che in inglese potrebbe essere reso con l’espressione negative people. La forma di governo democratica non è definita solamente da procedure di conferimento dei poteri o della legittimazione, ma è anche strutturata attraverso il confrontarsi di differenti forme di veto poste da gruppi sociali così come da forze economiche e politiche. Così in tempi recenti, i regimi politici sono stati sempre meno caratterizzati dalle loro strutture istituzionali (presidenzialismo, parlamentarismo, bipartitismo o multipartitismo) e sempre più da forme di azione determinate da svariate categorie di veto-players, per usare le parole di Gorge Tsebelis.
In terzo luogo, la contro-democrazia è costituita dall’emergere del potere del popolo in quanto giudice. La sempre crescente litigiosità della politica è il primo vettore di questa trasformazione. Esso presuppone una situazione nella quale i cittadini sono sempre più portati ad avvalersi di processi giudiziari per realizzare ambizioni che non sperano più di veder soddisfatte attraverso le elezioni. La natura litigiosa della politica è parte costitutiva di una de-responsabilizzazione dei dirigenti pubblici nei confronti delle richieste dei cittadini. Ai governi è richiesto un maggior grado di responsabilità proprio nel momento in cui essi si mostrano meno sensibili a tale necessità. In questo senso, le democrazie dell’accusa hanno sostituito le democrazie della rappresentanza e del confronto. Sulla base di questa osservazione è oramai comune parlare dell’ascesa dei giudici nella sfera politica. Ma una considerazione di questo genere riguarda solo un lato del problema.
L’essenza della questione risiede nel comprendere le caratteristiche comparative di elezioni politiche e sentenze giudiziarie. La preferenza odierna per la sentenza può essere chiarita solo attraverso la comprensione delle caratteristiche peculiari di questa azione intesa proprio come tipologia di decisione.
Sia per il suo carattere teatrale che per il suo stretto legame con il particolarismo, la sentenza si è progressivamente stabilita come una forma meta-politica, percepita come superiore rispetto alle elezioni dal momento che produce risultati più tangibili. Il cittadino votante tipico del contratto sociale è stato sostituito dalle sempre più occhiute figure del cittadino-sentinella, del cittadino che pone il veto e del cittadino-giudice. Come risultato di tutto ciò sono emerse nuove tipologie di esercizio della sovranità non fissate in maniera specifica nelle costituzioni. Si tratta di una sovranità indiretta in quanto costituita da una serie di effetti; essa non ha origine da una qualche autorità formale e non è nemmeno espressa da esplicite decisioni che possano essere definite politiche. Essa si qualifica come l’equivalente odierno di una potestas indirecta che si rifà alla teoria politica classica, o al governo indiretto teorizzato e difeso da Rousseau ne La nouvelle Héloise. Di conseguenza si può parlare di contro-democrazia - che non è, ancora una volta l’opposto della democrazia, ma la democrazia dell’opposizione, la democrazia dei contro-poteri.
«Il Giornale» del 9 giugno 2006

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