28 giugno 2006

Scienza, il ko dei filosofi (Andreoli 2)

di Vittorino Andreoli
Nel '600 la scienza aveva asserito che l'uniuverso e anche l'uomo che ne è parte, ha una struttura meccanica, determinata. Ciò ha scatenato una critica che ha preso due forme: la prima "leggera", interna alla stessa scienza, che ha cercato di salvarne il valore e qualche spazio per la libertà dell'uomo; la seconda è stata un attacco distruttivo da parte della filosofia. Si è passati così da una scienza intesa come verità assoluta a una vista come strumento relativo di conoscenza.

A generare la crisi della scienza ha concorso la sua incapacità di rispondere alle esigenze di libertà dell’uomo: dentro il determinismo assoluto l’uomo si riduce a un ingranaggio fatale nella grande macchina della natura. Non a caso è stata la filosofia a contribuire in modo determinante ad incrinare la forza titanica con la quale la scienza si era imposta, e ad incrinare al tempo stesso il suo futuro quale unica modalità di conoscenza...
Occorre ricordare tuttavia che anche all’interno del mondo scientifico, che nella seconda metà dell’Ottocento si identificava con il positivismo, vi era stato chi aveva criticato l’indebita estensione del principio di causalità (ad ogni effetto occorre sempre una causa che lo produca), constatato certo nei fenomeni osservati, ma allargato con determinismo assoluto alla natura, fino a negare conseguentemente la libertà nell’uomo.

MODERATA AUTOCRITICA. Antoine Augustin Cournot aveva osservato che, a rigore, noi constatiamo tante singole serie di cause, le quali ci portano a spiegare il perché dei fenomeni, seppure queste stesse serie siano indipendenti l’una dall’altra, e quindi isolabili. La nostra conoscenza riguarda dunque sempre pezzetti di una natura che nel suo insieme ci sfugge. I fenomeni si associano o si giustappongono sotto l’impulso di un’azione che è insieme transitoria e inspiegabile. Questo «incontro irrazionale di serie causali o indipendenti» costituisce il caso; che è necessario ammettere anche se esclude tanto la razionalità del reale quanto la sua rigorosa causalità deterministica (A.A. Cournot, Théorie des chances et des probabilités, Paris 1843, cap. II). Insomma, la scienza studia singoli avvenimenti e stabilisce come questi siano legati e preceduti – in ciascun fenomeno – da cause specifiche, diverse l’una dall’altra. Per cui, se non si può dire che un fenomeno è prodotto dal caso, si può tuttavia affermare «che due o più fenomeni sono riuniti dal caso» (John Stuart Mill, System of Logic, 1843, l.III, cap.XVII, par.2). Ammettere pertanto un rapporto di causa ed effetto per il singolo fenomeno non significa estendere questo principio al mondo intero e alla natura nel suo complesso, quanto meno una simile estensione non è possibile dimostrarla scientificamente.
E qui, proprio dalle quinte della scienza, ecco far capolino il caso, una sorta di demonietto che ancora una volta appare senza sapere perché, e senza una motivazione scientifica che lo giustifichi.
Roberto Ardigò parlò al riguardo di «concetto positivo del caso». La natura – sosteneva – era sì regolata secondo il più rigido meccanicismo, sicché non si poteva affermare vero alcun effetto senza una causa determinante, ma la stessa natura può svolgersi in modi infinitamente diversi, poiché non vi è una successione prestabilita di forme determinate. Ogni fatto, ogni evento è strettamente legato alla sua causa, ma questa avrebbe potuto causare infiniti altri fatti e comporre infiniti altri ritmi, nessuno dei quali è preordinato e quindi prevedibile: «l’ordine col caso e il caso con l’ordine». Esiste un ordine ed esisterà sempre, ma è un caso che esso si realizzi in un certo modo piuttosto che in un altro.
Si fonda così dentro la natura un certo empirismo, che si oppone al determinismo, e dunque alla certezza del fenomeno naturale. Viene in tal modo confutata la possibilità di prevedere il futuro (cfr. La formazione naturale nel fatto del sistema solare, 1877, con un’importante aggiunta sul "caso" in Opere, vol. II, Padova 1884).
A ben vedere, è qui condotto il tentativo di negare il determinismo basandosi sul caso, anche se ciò è difficilmente definibile. E se viene in mente Bacone secondo cui «ciò che il caso è nell’universo, nell’uomo è la volontà», è per affermare recisamente che «caso è il nome di una cosa che non esiste» (Novum Organum, I, 60).
Rimane certo che il caso ha una grande forza per il tema ora assai sentito della libertà. E s’è peraltro già detto come l’esigenza di libertà sia la motivazione forte nella critica alla scienza.
Ma se osservando un fenomeno occorre trovare la causa sua specifica, andando al primo fenomeno, in principio, quale può essere la sua causa? Charles Renouvier e lo spiritualista Rudolph Hermann Lotze osservavano che la serie causale può sì non avere fine, ma deve avere un principio: un libero inizio che darebbe origine, non essendo esso stato causato, alla serie necessaria successiva; sicché, almeno agli inizi, la libertà poteva essere ammessa.
Anche Alfred Fouillée aveva cercato di salvare la libertà senza distruggere il determinismo nel suo libro sulle idee-forza (La liberté et le déterminisme, Paris 1872). Le idee – diceva – nascono, come tutto nasce nell’universo, per cause determinanti, e non sono quindi libere, ma forze nuove che, una volta sorte, influiscono sulla realtà determinandone a loro volta il corso e quindi un corso che non era in tutto prevedibile.
Con questa autocritica non si esce ancora dalla scienza, ma ci si allontana dal meccanicismo fatale di Laplace, poiché nell’universo, contrariamente a quanto egli affermava, non si può certo prevedere lo stato futuro del mondo.
Accenni, questi, che senza voler distruggere nelle sue linee generali il quadro dell’universo fisico che la scienza aveva rappresentato, ne combattono tuttavia l’estensione universale.

PROCESSO ALLA SCIENZA. Ma è alla filosofia che spetta il compito del vero e proprio assalto ai positivisti, anche a quelli capaci di un’autocritica. Si fa incominciare il "processo alla scienza", ossia la sua ufficiale messa in stato di accusa, in Francia ad opera del gruppo della cosiddetta "philosophie universitaire". E già il portare sul banco degli imputati la scienza significava sminuirne la regalità. «Il s’est produit en effet de nos jours – scrive Adrien Naville – un phénomène assez etonnant, c’est que la royauté de la science a étée contestée» (in Revue de Théologie et de Philosophie, n. 16, sept.-oct. 1915).
Cominciò Jules La chelier, con la tesi Du fondement de l’induction (1871), in cui cercava di dimostrare, sulle orme di Kant, che l’ordine secondo cui si succedono i fenomeni è da legare al pensiero. Sosteneva inoltre che la più elevata conoscenza non riguarda tanto il mondo esterno, quanto il pensiero e la sua propria natura. La critica alla scienza suona particolarmente dura, poiché dice agli scienziati che si illudono se credono con i loro metodi di affrontare e comprendere il mondo esterno, dal momento che si limitano a svelare il pensiero che ordina e determina le loro ricerche.
Due anni più tardi un giovane allievo di Lachelier, Emile Boutroux, presenterà una tesi, De la contingence dans les lois de la nature, che sarà il primo elaborato a condurre una sistematica e decisa critica della conoscenza scientifica. Aveva lo scopo di «scrollare il postulato che rende inconcepibile l’intervento della libertà nel corso dei fenomeni», il postulato cioè della necessità assoluta di ciò che accade. Parte così il grande impegno di Boutroux che, vent’anni dopo (1893), nell’opera De l’idée de loi naturelle dans la science e dans la philosophie contemporaine completerà le sue teorie.
La realtà, per Boutroux, si svolge per salti imprevedibili; l’ordine e la necessità vi sono introdotti dal pensiero, la legge stessa è opera del pensiero. Vi è sì qualcosa "a parte naturale", una certa uniformità, ma ciò può essere spiegato psicologicamente.
Non proviamo forse in noi stessi come, attraverso l’abitudine, la libertà si attenui fino a diventare spesso una dura catena, avvertita talora come infrangibile, cioè come se fosse una legge necessaria? Si può dunque considerare meccanico ciò che è semplicemente abitudinario, e che pur è partito casualmente. E non era possibile per Boutroux far riferimento ai comportamenti ossessivi, alla coazione a ripetere gesti che sembrano meccanici e insopprimibili, ma che nascono dal caso o da esigenze psicologiche.
L’idea che la scienza studi la realtà vest endola della mente e dei suoi principi ha un solo presupposto, che vi sia cioè una stretta analogia tra natura e spirito, e che l’attore principale si collochi nello spirito (immateriale).
Questi filosofi erano ormai entrati nel cuore della critica, e non di una singola scienza, ma della scienza nel suo complesso. Ed è a questo punto che il castello della scienza classica comincia a tremare non solo per gli scienziati che fanno la scienza, ma anche per i filosofi che indagano sulle questioni teoretiche del sapere scientifico.

LA SCIENZA RIDIMENSIONATA. L’esempio forse più significativo di questa stagione è di un gruppo di fisici capeggiati da James Clerk Maxwell, per i quali la scienza non può darci la verità, né ha questo come fine: essa ha piuttosto una funzione pratica, indirizzata com’è all’azione. Per giungere a ciò, la scienza ha bisogno di formulare i suoi concetti, rappresentandoli mediante immagini sensibili, cioè mediante modelli meccanici che sono fondati su semplici analogie. Le immagini non rappresentano la realtà, ma la simboleggiano soltanto: possono quindi essere sempre sostituite da altre che risultino in quella circostanza più adatte. Non sono né vere né false, ma verosimili e utili. Insomma detto in maniera semplice, la scienza è un mezzo di conoscenza, una modalità per avvicinarsi a capire il mondo, e in quanto tale non può arrogarsi né l’esclusività del sapere, né quello della verità.
Sul finire del secolo, massimo difensore di questo indirizzo fu William Thomson (Lord Kelvin). «Io non accetto nulla – egli diceva – di cui non possa immaginare un modello». Ed aggiungeva: «Mi sembra che il vero senso della domanda: comprendiamo noi o no un dato fisico? Sia questo: possiamo costruire un modello meccanico corrispondente?» (Lectures in molecular Dynamics, London 1904, p. 131). Insomma, la scienza capisce in quanto fa dei modelli di ciò che intende studiare .
Piccola pausa e cerchiamo di fare il punto. Dunque, la scienza nel Seicento si era affermata come modalità unica del sapere e del sapere definitivo, e aveva asserito che l’universo, e anche l’uomo che ne è parte, ha una struttura meccanica (si parlò persino di homme machine) fatalmente determinata. Era una scienza che negava di conseguenza la libertà, ridotta ad un’illusione.
Ciò scatenò la critica che prese due espressioni: la prima "leggera", interna alla stessa scienza, che cercava di salvarne il valore e anche una qualche libertà minore, e una seconda nella forma di un vero attacco distruttivo da parte della filosofia.
Si giunge così a concepire la scienza come una modalità del sapere, una delle vie di conoscenza che si caratterizza semplicemente per un suo proprio modo di studiare: riproducendo nei laboratori i fenomeni che si vedono in natura, e quindi studiando la realtà attraverso dei suoi modelli.
Il salto tra scienza come verità e scienza come strumento relativo di conoscenza, è enorme. Ma non è finita.

I MODELLI MECCANICI. La teoria dei modelli meccanici trovò degli oppositori che la definirono "mitologia meccanica". Tra questi Ernst Mach (Analisi delle sensazioni, 1886) e Richard Avenarius (La critica della esperienza pura, 1888-90). Essi sostenevano che la realtà è costituita da fenomeni – i "fatti" – oggetto di esperienza, che la mente raccoglie in classi per ragioni esclusivamente pratiche e conformemente a un principio di economia. Si tratta cioè di comode abbreviazioni della immensamente ricca molteplicità dei fatti: tutta la coerenza non è che adattamento economico. Altro che verità, dunque. L’unica realtà e veri elementi del mondo sono le sensazioni, e il fenomenismo è il limite insuperabile dell’indagine naturale. Ciò significa pure che il confine tra fisico e psicologico è puramente pratico e convenzionale .
Ce n’è abbastanza allora per non veder più, se non immerso nell’ombra, il grande edificio della scienza quale perfezione e quale unica conoscenza che porta alla verità.
Anche Karl Pearson (The Grammar of Sciences, London 1892) e i pragmatisti giungono ad analoghe conclusioni, e così in Francia Henri Poincaré (cfr. l’articolo «Les géométries non euclidiennes» del 1901 nel vol. La science et l’hypothèse, Paris 1902). Per Poincaré la scienza si fonda su convenzioni accettate come convenienti, perché in grado di giustificare i fatti sperimentali: le "convenzioni giustificate" (La Valeur de la Science, Paris 1909). In altre parole, la scienza non ci dà tanto la verità oggettiva quanto solamente una sua concezione legalistica.
Ma se questo è la scienza, trova forza il ritorno della filosofia, con un problema nuovo: quello di come distinguere l’una dall’altra.

ET-ET, NON AUT-AUT. Il percorso compiuto dalla scienza dall’inizio del Seicento, aveva messo da parte la filosofia come vecchio sistema di conoscenza, privo di un andamento progressivo, riducendola a mero gioco di idee e parole senza un controllo, senza un metodo rigoroso quale quello scientifico e sperimentale. Sul finire dell’Ottocento e agli albori del Novecento, la scienza entra in crisi e risorge la filosofia, che ha solo bisogno di definire i suoi campi propri, non confondibili con quelli della scienza.
La caduta della scienza, che sta forse all’origine di quella caduta dei princìpi che a noi giunge ormai nella forma di un massacro, può essere letta e riscontrata anche nella cultura in generale, per esempio nella letteratura.
Mentre nel 1848 Ernest Renan aveva inteso dare ali alle più accese speranze in quel vangelo dello scientismo che fu il suo Avenir de la science (pubblicato solo nel 1889), nel 1894 Ferdinand Brunetière pensava di poter addirittura proclamare «la banqueroute de la science» (cfr. «Visite au Vatican», in Revue des Deux Mondes). Secondo questo letterato, la scienza era fallita perché non era riuscita a risolvere alcuno dei problemi che assillavano l’umanità: l’origine della vita, il destino dell’uomo, Dio e via di questo passo. Un giudizio affrettato, certo, ma significativo di un particolare modo in cui era vissuta in quel periodo la scienza. La quale forse non era fallita, ma occorreva ridimensionarla, per non trovarsi a pretendere da lei ciò che non doveva né poteva dare.
Tuttavia questo processo era servito a dimostrare che quella concezione classica della scienza, nata nel Seicento, apparsa perfetta e indistruttibile, era ormai permeata di troppo dogmatismo. E che il determinismo, niente affatto provato, consisteva dunque in un’affermazione non scientifica: per darvi un fondamento non si era necessariamente costretti a fare della libertà un’illusione.
Insomma, si animò una guerra sul problema della libertà difesa dalla filosofia e contro il determinismo della scienza. Una guerra che, nella seconda metà dell’Ottocento, vede contrapposte schematicamente due posizioni: da una parte il romanticismo e la filosofia di Hegel, la Naturphilosophie, che avevano proclamato la sovranità della filosofia, all’interno della quale doveva risolversi la scienza, e dall’altra lo scientismo che, sotto l’influsso del positivismo, aveva proclamato la sovranità della scienza fino al disprezzo di ogni filosofia e alla caduta della metafisica. Una guerra che lasciò strascichi per molto tempo: su un versante c’erano infatti i sostenitori di una scienza pura, empirica, che deploravano l’intrusione della filosofia; sull’altro i sostenitori della filosofia che rilevavano invece i mali della scienza.

SCIENZA E TECNOLOGIA. Bisogna però fare ora riferimento alla tecnologia. Si ammetteva che la scienza genera la tecnologia: con i suoi vantaggi ma anche con i danni che essa determina, altrettanto evidenti. E proprio in questa relazione si arrivò persino ad intravedere nella scienza un male. «Sapere è potere, è stato detto; ma ahimè, se il potere è bene, è anche potere il male» (Louis de Broglie, Materia e luce, p. 390).
Non è facile separare le due dimensioni, della scienza e della tecnologia. E sovente i danni della tecnica si riversano negativamente s ulla scienza. Goethe stesso fa sì che Faust, l’eroe del secolo, esplorati i campi dello spirito e dell’esistenza terrena, rivolga alla tecnica il suo ultimo pensiero: morente, placato, davanti alla visione delle vaste lande demoniacamente bonificate, sa che nella tecnica si adempirà il destino dell’economia, ma non dello spirito. Faust non si è redento, e la maledizione mefistofelica ha continuato a tormentare i suoi seguaci: la tecnica non è sufficiente a redimere.
In altre parole, non sarà la sola tecnica a salvare una civiltà.
Un esempio: se la civiltà greco-romana cadde, ciò fu per il lento oscuramento e per la dispersione di un patrimonio culturale faticosamente accumulato, e non per ragioni esterne come le invasioni barbariche. Finché il desiderio di fedeltà alla propria storia resta vivo, e forse oggi non lo è più dentro la nostra civiltà, non c’è da temere né decadenza né fine, e ciò a prescindere dalla tecnologia. La Serenissima Repubblica di Venezia, ad un certo punto, crolla dopo un dominio durato un millennio, e non si riesce ad individuare alcun fatto rilevante che possa giustificare la sua fine. A venire meno sono piuttosto la perdita di "fiducia" nelle istituzioni che ne erano state alla base e il modo stesso di percepire Venezia e il suo ruolo. Insomma, la caduta è prima di tutto legata alla stanchezza, all’esaurimento dei capisaldi (i principi) e della cultura che l’aveva vista nascere e dominare con un suo stile proprio e mai più ripetuto poi nella storia. Dal canto suo, José Ortega y Gasset grida un allarme specifico ne La ribellione delle masse (1929-30). Lì parla infatti di «barbarie della specializzazione», che è un fenomeno tipico delle scienze e delle tecnologie sia pure in senso ampio.
Insomma non è alla tecnologia che può legarsi una civiltà, e nemmeno la sua fine. Problema del nostro tempo piuttosto è se la civiltà, fondata sulla ragione, possa sopravvivere mentre la ragione crolla o è già del tutto scomparsa.
Quando la scienza del mondo classico decadde, i suoi contemporanei non se ne resero conto, essi pensavano anzi di avere progredito sostituendo con vaste e ben ordinate enciclopedie gli scritti frammentari e disordinati dei precursori. E quando la superstizione dominò tramite i neopitagorici e gli ultimi rappresentanti del neoplatonismo, gli uomini del tempo non si resero conto che stavano perdendo qualcosa di prezioso, la sobria chiarezza della ragione e i tesori del sapere, al contrario erano convinti di scoprire o riscoprire mondi nuovi e ben più ricchi. Una decadenza morale vera e propria si ha quando il senso dell’onesto si ottunde, e non quando i moralisti tuonano contro la corruzione dei tempi.
Che la scienza sia oggi in crisi è indubbio, ma occorre vedere in che cosa consista questa crisi. I grandi risultati che la scienza continua ad accumulare sono fuori discussione, tanto appaiono prodigiosi, ma a ben guardare essi intaccano la vita materiale, non il sapere vero e proprio. Anzitutto sono i risultati stessi a costituire un problema, per il differente uso che se ne può fare: non sono il bene in sé, ma devono loro – ossia questi risultati – servire al bene, che però le scienze del mondo fisico non sanno da sole definire o indicare.
La Scientia deve essere guidata dalla Sapientia, avrebbe detto uno stoico. Ed ecco quindi come dalla scienza nasca un problema filosofico, che deve assolutamente coinvolgere lo scienziato, in quanto uomo. Inoltre, se non si può andare contro la scienza, pretendendo di correggerla in base alle nostre esigenze e ai nostri princìpi, non ci si deve neppure aspettare che la scienza possa fornirci la soluzione di quei problemi insopprimibili che sono veramente e genuinamente filosofici.
Non si può nutrire l’illusione scientista che i problemi che toccano più da vicino l’umanità possano essere risolti, o lo saranno un giorno, grazie a qualche scoperta scientifica.
I fatti, insomma, che sono campo esclusivo della scienza sperimentale, non bas tano più a se stessi: per riuscire a spiegarli è necessario introdurre uno straordinario numero di ipotesi, e queste sono attualmente così contrastanti tra loro da costituire da sole un problema, una questione di tale complessità che non può, almeno per ora, esser risolta sperimentalmente. In altre parole, la scienza scopre in sé tutto un mondo di problemi che sono eminentemente di natura filosofica, al punto da diventare essa stessa, nel suo costituirsi e svilupparsi, un problema filosofico. A tale proposito, viene in mente un celebre libro, Man, the Unknown, di Alexis Carrell (trad. it., L’uomo, questo sconosciuto, Bompiani 1939), ma anche: The mysterious Universe di James Jeans (trad. it., 1930).
Quanto lontani siamo dalla "pacifica filosofia sicura" del Settecento, allorché sembrava che ogni segreto della natura fosse stato svelato o stesse per esserlo. Mentre ritorna l’antico ammonimento socratico che nel V secolo a. C. proclamava nelle piazze di Atene: «Unum scio, nihil scire». Ma anche nell’Eneide (IX, 742) leggiamo: «Hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem».
Insomma, la scienza si pone come una grande costruzione umana che non risolve i problemi dell’uomo ma semplicemente li esprime.
Hugo Dingler afferma: «La crisi della scienza moderna non può essere risolta se la scienza moderna non acquista uno spirito filosofico» (in: Der Zusammenbruch der Wissenschaft und der Primat der Philosophie, München 1926) e il biologo Ludwig van Bertalanffy proclama la necessità di porre a fondamento della biologia sperimentale una biologia teoretica, che è poi disciplina filosofica. E per promuovere questo studio fu fondata a Leyda nel 1935 una apposita rivista: gli Acta biotheoretica.
Non c’è dunque dubbio alcuno, la scienza non ha risolto i problemi della conoscenza, semmai li ha complicati e, a parte i progressi nella vita pratica e i disagi che vi si mescolano, ha lasciato l’uomo nel dubbio, nell’incertezza, quando non nella disperazione. In questo senso s i parla di crisi di una civiltà, e a farlo non sono certo delle Cassandre, ma già Spengler, nel Tramonto dell’Occidente, parla di una decadenza della civiltà legata all’incertezza della scienza e all’indeterminazione di ciò che questa ci racconta.
Non siamo lontani da quanto diceva un medico veronese del Cinquecento, Gerolamo Fracastoro, scopritore delle cause della sifilide (il Treponema pallidum) nell’epistola a Flaminium et Galeatum Florimontium: «Che dirò mai ch’io faccia, qual vita dirò ch’io conduca se, misero, inquieto, indago sempre ed invano il mondo che mi sfugge, se, appena per poco si mostra, a me, sì come Proteo, già presto mutato d’aspetto, in mille modi m’inganna?» (trad. G. Lentini - G. Carabba).
Il percorso
La storia dei prìncipi della scienza mostra la loro affermazione, a partire dal XVII secolo, ma allo stesso tempo la nascita di diatribe sulla loro pertinenza e fondatezza, che hanno portato alla loro «distruzione». Un rovesciamento di prospettiva, rispetto alle premesse galileiane, che ha avuto una profonda ricaduta sui «princìpi» in senso generale, sul volto e l'autocoscienza della società occidentale.
È questo il tema affrontato domenica scorsa da Vittorino Andreoli, secondo cui la riflessione sul percorso della scienza moderna è una tappa imprescindibile per comprendere appieno la temperie culturale in cui viviamo. Per Andreoli l'uomo di oggi si trova immerso in una situazione ambigua, se non schizofrenica, di cui non sempre si rende conto: assiste ad un susseguirsi incessante di scoperte e innovazioni, scambiandole per successi della scienza, per segnali di un progresso incessante di quest'ultima. In realtà, se un progresso c'è, questo è da inserire nell'ambito dell'empirismo e della tecnica, mentre la scienza, più che in ascesa, pare versare da ormai un secolo in uno stato di profonda crisi. È terminata infatti la sua secolare «signoria» sugli altri saperi, è terminato il suo ruolo di dispensatrice inconfutabile di chiarezza e di certezze. Dopo essere stata conquistatrice instancabile per oltre tre secoli, si è ritirata lasciando sul campo dubbi, indeterminatezza e soprattutto una «ragione» più che mai indebolita. Il riemergere nella società di pulsioni irrazionali, di visioni magiche e superstiziose, ne è una testimonianza. Un fenomeno, quest'ultimo, che rimanda a quello che è spesso accaduto durante il declino delle grandi civiltà, come quella greco-romana.
In questi periodi di decadenza il tramonto di una visione salda del reale, ancorata a rocciosi «principi» fondativi è stata accompagnata dal riaffiorare di antichi culti dell'ebbrezza, di diffusi atteggiamenti sovversivi, di un senso comune allergico alla legge, ad ogni legge, vista come insostenibile vincolo e coercizione dell'Io. Alla perdita di un «centro».
Stiamo assistendo anche noi alla decadenza e alla dissoluzione di una civiltà, come i cittadini dell'impero romano del IV secolo? Per Andreoli i segnali ci sono tutti. La diagnosi sembra non lasciare dubbi. Con una differenza, forse. Il collasso in cui siamo coinvolti si svolge in un clima di spensierato ottundimento, di ilare inconsapevolezza. Una sorta di novello ballo sul Titanic.

Il libro
La modernità contro se stessa
José Ortega y Gasset (1883-1955) fu filosofo e saggista spagnolo, figlio dello scrittore José Ortega y Munilla. Nel 1908 vinse la cattedra di psicologia presso la Scuola superiore di magistero di Madrid, e nel 1912 la cattedra di metafisica all'Università della stessa città, che conservò fino al 1936 (negli anni 1929-31 si dimise per protesta contro la dittatura di Primo de Rivera). Nel 1923 fondò la Revista de Occidente, che diresse fino al 1936, facendone una delle più vivaci pubblicazioni europee di quegli anni. Filosofo idealista, almeno in partenza, Ortega elaborò un pensiero fondato sul concetto di "ragione vitale", del vivere come un costante rapporto dinamico dell'io con le cose, essendo queste comprensibili solo entro la vita, che ne "dà ragione". Una teoria applicata con duttilità a vari ambiti del sapere, dalla storia alla sociologia, dalla politica alla critica letteraria e artistica. Nel suo libro più celebre, La ribellione delle masse (1930), diede una lettura pessimistica dell'ondata totalitaria che stava investendo il vecchio continente. Non gli sembrava un fenomeno accidentale, bensì l'espressione di cambiamenti decisivi avvenuti nella struttura psichica dell'uomo medio. Un nuovo tipo antropologico si era formato nel seno della società industriale - l'uomo-massa, appunto - e si stava impossessando della scena storica. L'industrialismo, modificando improvvisamente le condizioni materiali di vita delle moltitudini, aveva messo in moto un processo di corrosione dei valori e dei modelli di comportamento tradizionali. La modernità, dunque, presentava un drammatico paradosso: produceva nel suo seno i suoi distruttori, che non erano gli affatto operai, "eredi" storici della filosofia classica tedesca (come credevano Marx ed Engels) bensì i nuovi uomini-massa.

Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, Editore: SE, € 19, pp. 256

parole & idee
Èmile Boutroux
Filosofo francese (1845-1921). Cercò di vanificare la visione deterministica della realtà, tentando di svuotare di ogni valore oggettivo le stesse leggi scientifiche. Con lui la polemica sulla scienza si spostò dalla semplice rivendicazione della libertà e dell'ordinamento finalistico della natura, a un attacco al cuore stesso del positivismo.

Homme machine
È il titolo di un saggio del 1748 del medico francese Julien Offroy de La Mettrie. Il quale sosteneva che in linea di principio l'uomo non differiva dai graziosi automi e dai raffinati orologi che caratterizzavano il gusto barocco della sua epoca, se non per il grado di maggior complicazione dei suoi "meccanismi".

Scientismo
Visione filosofica secondo cui la scienza deve essere il fondamento di tutta la conoscenza, in qualunque dominio, anche in etica e in politica. In questi ambiti la gestione "scientifica" dei problemi eliminerebbe l'inestricabile groviglio delle polemiche: una soluzione "scientifica" elaborata da tecnici competenti non avrebbe motivo di essere contestata. Su questo argomento c'è anche un approfondimento sul nostro sito.

Oswald Spengler
Pensatore tedesco (1880-1936). Nella sua opera capitale, Il tramonto dell'Occidente, afferma la relatività non solo della conoscenza ma di tutti i valori fondamentali della vita umana alle epoche della storia, considerate come entità organiche che si sviluppano e muoiono.


DA CONOSCERE
Il profeta di un «nuovo mondo»: Francesco Bacone
Francesco Bacone o, in inglese, Francis Bacon, (22 gennaio 1561 – 9 aprile 1626) nacque a Londra da sir Nicholas Bacon, che fu per vent’anni Lord Guardasigilli della Regina Elisabetta, e da Anne Cooke, figlia di uno dei precettori di Edoardo VI. Avviato alla carriera politica e diplomatica, sotto Giacomo I Stuart ottenne cariche ed onori, fino ad essere nominato Lord Cancelliere (1618). Nel 1621 il parlamento lo accusò di corruzione e peculato. Riconosciuto colpevole, fu imprigionato nella Torre di Londra ed escluso da tutte le cariche dello stato. Liberato qualche giorno dopo per intercessione del sovrano, si ritirò a Gorhambury, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Bacone ha fornito alla nascente scienza del ’600 alcuni punti fermi e una prima, grande prospettiva, per cui è considerato, con Cartesio e Galileo, uno dei padri della filosofia moderna. Tema dominante della sua opera è il tentativo di sostituire a una cultura di tipo retorico-letterario una cultura di tipo tecnico-scientifico. Presupposto della sua critica alla filosofia tradizionale è che nella storia dell’umanità è iniziata un’epoca nuova. Di fronte a questo destino che attende gli uomini, e che gli uomini devono costruirsi, è colpevole cercare di richiamare in vita la «scienza delle tenebre» dell’antichità, invece che la luce della natura. È necessario introdurre un atteggiamento nuovo di fronte alla realtà, che implica sia argomentazioni e dimostrazioni nuove (al vecchio metodo deduttivo o sillogistico, che gli appare sterile, «inutilis est ad inventionem scientiarum», oppone il metodo induttivo che solo può dare verità utili), ma anche un’idea di verità, un’etica e una logica ritenute innovative rispetto al passato. Dei suoi scritti, che nelle intenzioni dell’autore dovevano condurre alla «instauratio magna» di tutto il sapere, si ricordano Cogitata et visa (1607); La sapientia degli antichi (1609); Storia naturale e sperimentale (1622); Il nuovo Organo (1620); Sulla dignità e il progresso delle scienze (1623), che amplia i temi dell’opera del 1605 intitolata Sull’avanzamento della conoscenza divina e umana. La Nuova Atlantide fu invece pubblicata postuma nel 1627.

«Avvenire» del 12 febbraio 2006

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