11 giugno 2006

Tutte le vittime di Lenin sulla ruota del Terrore

Lunaciarskij e Martov: due reazioni opposte al totalitarismo. Un bolscevico e un menscevico negli anni tragici della rivoluzione: pubblicati i carteggi inediti
di Vittorio Strada e Julij Martov
Una recente trasmissione televisiva russa ha provocato una certa sensazione: suo oggetto era la «grande rivoluzione socialista d'Ottobre», come un tempo era chiamata e celebrata la presa del potere da parte dei bolscevichi nel 1917. Sulla base anche di materiali d’archivio, in essa si documentava che tale «rivoluzione» era stata finanziata dalle autorità militari e politiche tedesche al tempo della prima guerra mondiale perché, per usare le parole di un alto funzionario del ministero degli Esteri austro-ungarico, «soltanto mediante sovvertimenti interni il colosso russo poteva essere fatto vacillare» e costretto ad uscire dal conflitto. Niente di nuovo, dirà chi conosce la storia reale degli eventi russi del fatale 1917, col famoso «vagone piombato» sul quale Lenin poté rientrare tempestivamente, con altri fuoriusciti rivoluzionari, dalla Svizzera in Russia attraverso la belligerante Germania. Ma la trasmissione, fatta con la partecipazione della storica tedesca Elisabeth Heresch, autrice di un libro su Parvus, l'ebreo russo-tedesco che fu il vero teorico della rivoluzione in Russia e operò per il rientro di Lenin a Pietrogrado nel 1917, dimostrando di saper genialmente combinare malaffare e sovversione al servizio finale della potenza germanica, e di Natalia Narocnitskaja, nota studiosa e politica russa, vicepresidente del comitato della Duma per gli Affari internazionali, non può non fare effetto su un pubblico vasto: essa sposta l'attenzione dalla vecchia critica allo «stalinismo» a una visione negativa della stessa «rivoluzione d'Ottobre» e fa di Lenin una sorta di «nemico della patria», che cinicamente accetta di diventare strumento di una potenza straniera, sia pure sfruttando tale situazione per perseguire i propri fini rivoluzionari, in un momento in cui, si aggiunga, il «colosso russo», fatto crollare dai bolscevichi, era di per sé avariato e pericolante. Un libro che immette direttamente nell’atmosfera del 1917, e illumina il mondo interiore di due eminenti protagonisti di quegli eventi attraverso la loro testimonianza viva, è la recente raccolta delle lettere, per lo più inedite, che nel 1917 il bolscevico Anatolij Lunaciarskij e il menscevico Julij Martov inviarono il primo alla moglie, il secondo a un’amica, rimaste in Europa occidentale, durante il loro viaggio di ritorno dall’esilio svizzero in Russia e nei primi giorni successivi al loro rientro in patria, un viaggio che essi non avevano voluto fare nel modo «spregiudicato» di Lenin sotto la «protezione» tedesca (1917: Ciastnye svidetel’stva o revoljutsii v pis’mach Lunaciarskogo i Martova, «1917: Testimonianze private sulla rivoluzione nelle lettere di Lunaciarskij e Martov»). Lunaciarskij è noto come ministro dell’Istruzione del primo governo comunista e come intellettuale marxista dotato di un’originale personalità. Nella sua biografia, centrale fu l’elaborazione, assieme a Maksim Gorkij, bolscevico «eretico» al pari di lui, di una tendenza ideologica interna al loro partito, detta la «costruzione di dio»: essa faceva del socialismo rivoluzionario la base di una sorta di religione «laica» dell’umanità, fondata sul superamento collettivistico dell’individualismo «borghese» e sull’energia creativa dell’Uomo (o Superuomo) a venire. Fu a Capri durante l’esilio dorato di Gorkij nell’isola, dopo la rivoluzione del 1905, che questa tendenza fiorì e, benché combattuta dall’ateo Lenin, non andò distrutta, anzi sotto altre spoglie rifiorì nell’Urss negli anni Trenta, fondendosi col marxismo-leninismo (un libro, pubblicato a Capri dalla casa editrice La conchiglia col titolo L’altra rivoluzione documenta questa curiosa «religione»). Animo sensibile e morbido, Lunaciarskij tornato a Pietrogrado prova dapprima disgusto per le violenze commesse dai suoi stessi compagni di partito appena giunti al potere. Il 28 ottobre, impressionato per le fucilazioni di giovani allievi ufficiali da parte di soldati bolscevichi, alla moglie scrive: «Capisci? Alla vigilia noi abbiamo abrogato la pena di morte. Se il governo non avesse la forza di impedire radicalmente le esecuzioni capitali sommarie, io non potrei farne parte (...) condividere la responsabilità per il terrore è una cosa che non farò. (...) A un governo terroristico non parteciperò». Un’altra grave perplessità Lunaciarskij la esprime in una lettera del giorno successivo: l’unica prospettiva possibile, secondo lui, al di fuori della quale «non c’è che la fine della rivoluzione», è un «governo puramente democratico» di unità di tutte le forze socialiste. E invece, tra le misure subito prese dai bolscevichi, c’è la censura che proibisce «non solo la stampa borghese, ma anche quella socialista». Ma presto egli supera i suoi dubbi e si inserisce nel nuovo regime: «Un potere forte, ahimè, è necessario, è una cosa che bisogna mandar giù»; fino all’ultima lettera del dicembre 1917, in cui si rallegra che «le ruote della nostra macchina (del potere, ndr), che finora giravano nel vuoto, cominciano a toccare l’acqua viva. La vita in entrambi i miei uffici - il Palazzo d’inverno e il ministero - comincia a fervere». Lunaciarskij è ormai organica parte di un sistema basato sulla violenza e la censura permanenti, e, sia pure con certe sue «liberalità» di vecchio intellettuale, ne condividerà la responsabilità fino alla morte, nel 1933, ormai emarginato dalla vita politica, in tempo però per evitare la sorte che nel 1937 lo avrebbe accomunato alle vittime dei processi staliniani. Di tutt’altra tempra è la figura di Julij Martov, la più eminente nella socialdemocrazia russa con quella di Lenin, ma antitetica a questa: menscevico, cioè socialista, a differenza del comunista Lenin egli si batteva per una via «europea» della rivoluzione in Russia e non pensava che ogni mezzo fosse accettabile e applicabile pur di conquistare al più presto il potere. La sua biografia intellettuale e politica è troppo intensa per essere compressa in qualche formula, e si concluse drammaticamente, nel 1923, in un nuovo esilio, dopo aver assistito al crollo dei suoi progetti di socialismo democratico ed essersi opposto alla nuova autocrazia «rossa» (una breve analisi della quale egli fece nel libro Bolscevismo mondiale, edito da Einaudi nel 1980). Le sue lettere sulla via del ritorno in patria manifestano uno spirito ben diverso da quello «cedevole» di un Lunaciarskij, fino alla lettera finale (del dicembre 1917), di cui qui si traduce un brano, testimonianza di una preveggente capacità di analisi, pari a una intransigente coerenza morale. I due carteggi paralleli di Martov e Lunaciarskij gettano una luce viva su chi operò nei «dieci giorni che sconvolsero il mondo», sui loro comportamenti e destini, sulla grande crisi della coscienza europea e del movimento socialista da cui emersero i totalitarismi del XX secolo.


Un confronto tra percorsi intellettuali: critico letterario e drammaturgo, Anatolij Vasilievic Lunaciarskij (1875-1933) fu ministro dell'Istruzione del primo governo bolscevico; il menscevico Julij Martov (1873-1923, vero nome Julij Osipovic Tsederbaum) ruppe con Lenin al congresso socialista del 1903
la lettera «Il socialismo è libertà»
17 dicembre 1917 In una lettera precedente ti ho spiegato perché sono rimasto all'«opposizione» del nuovo regime «socialista», come anche tu, naturalmente, avevi previsto. Da allora la situazione si è fatta ancora più chiara. Non si tratta soltanto della profonda convinzione che cercare di impiantare il socialismo in un paese economicamente e culturalmente arretrato è un'assurda utopia, ma della mia organica incapacità di accettare una concezione dispotica del socialismo e una concezione anarcoide della lotta di classe, le quali sono generate, naturalmente, dal fatto stesso che si cerchi di impiantare un ideale europeo in un terreno asiatico! Ne verrà fuori un intruglio ributtante. Per me il socialismo è sempre stato non la negazione della libertà individuale, ma al contrario, la sua suprema incarnazione e il principio del collettivismo era diametralmente opposto all'egualitarismo livellatore.
da una lettera a Nadezhda Kristi

« Corriere della sera » del 6 giugno 2006

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