23 luglio 2006

«Il martirio islamico è legittimo»

Bologna, una sentenza del tribunale della Libertà legittima il «martirio» islamico
di Magdi Allam
Giudice di Bologna: la violenza contro i militari non è terrorismo
Che un tribunale sciaraitico di Al Qaeda dica che è legittimo combattere contro le forze internazionali in Afghanistan e che è legittimo il «martirio » degli islamici che muoiono in battaglia, è un fatto scontato. Che lo sentenzi il tribunale della libertà di Bologna ci preoccupa assai. Ebbene, ciò è quanto si evince dall’ordinanza del 27 giugno 2006 emessa dalla corte presieduta da Liviana Gobbi, con cui è stata respinta la richiesta di custodia in carcere nei confronti di 18 sospetti terroristi islamici.
La sentenza ha affermato il principio che «restano esclusi dall’ambito della definizione di terrorismo gli atti di violenza, da chiunque compiuti, contro militari impegnati in un conflitto armato, salvo la illiceità di tali atti sotto altri profili del diritto internazionale umanitario (crimini di guerra o contro l’umanità)».
Quel «da chiunque compiuti» si traduce nell’equiparazione sul piano della legalità delle forze multinazionali impegnate in Afghanistan e di quelle che le combattono, di fatto Al Qaeda e i Taliban: «Né pare condizione sufficiente a caratterizzare come "terroristica" la partecipazione a un conflitto bellico da parte di persone non appartenenti ai Paesi in conflitto, dovendo ricondursi alla nozione di forze armate sia l’esercito regolare di uno Stato sia ogni organizzazione armata che partecipi al conflitto, purché posta sotto un comando responsabile che garantisca la disciplina tra i subordinati ed il rispetto del diritto internazionale umanitario». Fino ad arrivare alla legittimazione del martirio islamico se si muore uccidendo le forze multinazionali: «Posto, tuttavia, che la glorificazione di imprese compiute da confratelli in terra straniera si riferisce a personaggi che hanno combattuto in Bosnia e in Afghanistan (...), non può in alcun modo ritenersi certo che il "martirio" più volte emergente nelle conversazioni sia rappresentato quale conseguenza di un’azione terroristica (ad esempio "kamikaze") e non, invece, di un’attività di tipo militare o paramilitare ».
Chiariamo che il contesto di queste conclusioni si riferisce all’attività di Ben Ali Lotfi, già indagato nel procedimento «Vento di guerra» e di cui la stessa corte giudicante ha accertato la diretta partecipazione ai combattimenti in Afghanistan nell’agosto del 2002. Tuttavia, la corte sembra ignorare che all’epoca in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, era iniziata un’azione anti-terrorismo internazionale avallata dalle risoluzioni 1.368 del 12 settembre 2001 e 1.373 del 28 settembre 2001, in base alle quali gli Stati Uniti hanno promosso l’Operazione Enduring Freedom. Così come, con la risoluzione 1.386 del 20 dicembre 2001, le Nazioni Unite autorizzarono la costituzione dell’Isaf (International Security Assistance Force) con il compito di garantire la sicurezza a Kabul e dintorni.
Eppure questo inequivocabile contesto giuridico, in cui delle forze internazionali legittimate dall’Onu si contrappongono a delle organizzazioni terroristiche, viene rivoluzionato dalla sentenza di Bologna laddove si immagina che Ben Ali Lotfi fosse un resistente e non un terrorista: «Dai contenuti delle conversazioni si può cogliere come egli fosse impegnato in attività di combattimento. In particolare egli riferiva ai suoi interlocutori dell’accoglienza a lui riservata dalle popolazioni locali, che pure poverissime, aiutavano lui e i suoi compagni nelle loro esigenze di vita quotidiana.
Dunque Ben Lotfi non agiva contro le predette popolazioni, ma al loro fianco. Gli elementi sopra riportati portano ragionevolmente a escludere che egli partecipasse ad azioni terroristiche contro la popolazione civile o ad altre persone non partecipanti al conflitto armato. (...) Mentre appare altamente probabile che egli facesse parte di una milizia combattente contro le forze della coalizione nell’ambito di un conflitto, probabilmente quello afghano». Dunque per la corte bolognese Al Qaeda e i Taliban sono una «milizia combattente», schierata al fianco della popolazione, che legittimamente combatte contro le forze della coalizione in quello che viene definito un conflitto, non contro il terrorismo, bensì «probabilmente afghano».
Si tratta di una sentenza che legittima ancor più l’attività terroristica islamica globalizzata. Dopo la sentenza del tribunale di Milano, emessa in primo grado da Clementina Forleo il 24 gennaio 2005 e convalidata in appello da Rosario Caiazzo il 28 novembre 2005, che ha legittimato il reclutamento in Italia di aspiranti terroristi suicidi da inviare in Iraq, la nuova sentenza del tribunale di Bologna legittima il terrorismo, nobilitandolo come resistenza, anche in un contesto come quello afghano dove le Nazioni Unite hanno avallato sin dall’inizio il diritto a ricorrere alla forza per combattere Al Qaeda e i Taliban che la proteggevano.
La conclusione è che per la nostra magistratura combattere contro le forze multinazionali impegnate nella lotta al terrorismo non è mai punibile come terrorismo, sia dove l’Onu non ha dato la propria autorizzazione sin dall’inizio, come è il caso dell’Iraq, sia dove questa autorizzazione c’è stata come è il caso dell’Afghanistan.
«Corriere della sera» del 23 luglio 2006

22 luglio 2006

Chiesa e foibe: ecco la verità

I vescovi giuliani, dalmati e croati denunciarono più volte gli orrori commessi dai titini. E anche papa Pacelli intervenne
Di Lucio Toth
I silenzi successivi della storiografia sono da imputare alla Cortina di ferro. A sollevare il velo furono i cattolici in Usa e Inghilterra
Come presidente della più antica associazione di esuli giuliano-dalmati e promotore della Legge n. 92/2004 sul Giorno del Ricordo delle Foibe e dell'esodo di 350.000 italiani (in gran parte autoctoni) dalle province del confine orientale, sento il dovere di intervenire nella polemica aperta dal periodico «Panorama» sull'atteggiamento di Pio XII nei confronti di questa tragedia che direttamente ci riguarda e mi riguarda, poi ripresa dal «Corriere della sera» e dallo stesso «Avvenire».
Da quanto è a comune conoscenza di noi esuli, per esperienza diretta e per le ricerche compiute sulla base della documentazione in nostro possesso, la Chiesa cattolica fu molto vicina al nostro dramma sia nell'immediatezza delle stragi ad opera delle formazioni comuniste di Tito (dal settembre 1943 alla primavera 1945) sia nelle operazioni di accoglienza dei profughi nel territorio italiano liberato.
I nostri vescovi, e precisamente monsignor Doimo Munzani, arcivescovo di Zara, e mio concittadino, monsignor Raffaele Radossi, vescovo di Pola e Parenzo, monsignor Ugo Camozzo, vescovo di Fiume, e monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, si adoperarono a rischio della vita sia nei confronti delle autorità tedesche di occupazione tra il 1943 e il '45, sia nei confronti delle truppe partigiane jugoslave che avevano invaso le nostre province a partire dal 30 aprile 1945 disarmando la Resistenza italiana e sciogliendo il Cln.
È certo da testimonianze documentate che i vescovi fecero pervenire al Vaticano, attraverso i suoi canali riservati, le notizie degli eventi, chiedendo l'intervento della Santa Sede. Questo intervento si esercitò in due direzioni: l'aiuto nella ricerca degli scomparsi nel gulag jugoslavo e le proteste diplomatiche presso i comandi militari e i governi alleati occidentali, i cui servizi segreti erano perfettamente a conoscenza di quanto stava accadendo. Le forme adottate per questa azione di denuncia ci possono essere rivelate solo dagli archivi vatic ani, inglesi e americani, da poco messi a disposizione degli studiosi.
È altrettanto vero che a sollevare il velo su questi tragici fatti, oltre alla stampa italiana, informata dai profughi stessi, furono negli Stati Uniti e in Gran Bretagna proprio gli ambienti della Chiesa cattolica, impressionati dall'alto numero dei sacerdoti italiani tra le vittime, costringendo così i rispettivi governi alle prime prese di posizione contro i crimini di Tito a danno degli italiani della Venezia Giulia.
Del silenzio che, nonostante tutto ciò, cadde su di noi non mi sembrano responsabili i pastori della Chiesa cattolica. Una «cortina di ferro» si era abbattuta su tutta l'Europa centro-orientale. E le nostre province purtroppo coinvolte in questa nuova ondata di barbarie che seguiva a quella nazista. Le scelte politiche dei Grandi erano state adottate a Teheran e a Yalta. E Stalin le interpretò come meglio credeva facendosele ratificare nell'incontro di Postdam. E altrettanto fece Tito violando ogni precedente impegno. Nessuno glielo ha fatto pagare. Anzi fu onorato da presidenti e sovrani e al suo funerale...
Una memoria personale mi sembra illuminante. Nella primavera del 1943 una delegazione di giovani dell'arcidiocesi di Zara si recò in visita ad limina. Alla notizia che venivano da Zara il Papa accarezzò una ragazza, Maria Perissi, che poi diventerà speaker della Rai, posando la mano sul velo che le copriva il capo ed esclamando: «Povera piccola! Che Dio vi benedica!». La tempesta non si era ancora abbattuta sulla città, ma il Papa forse «sentiva» e «sapeva». Dopo pochi mesi infatti cominciarono i 54 bombardamenti e la città fu rasa al suolo dai bombardamenti alleati.
E anche allora il Papa fece giungere ai cittadini di Zara, nel febbraio del 1944, il suo messaggio di conforto e di solidarietà attraverso don Giuseppe Della Valentina, che l'arcivescovo aveva mandato in missione a Roma per esporre al Pontefice la situazione della città, sotto occupazione tedesca , ingombra di macerie, devastata dagli incendi e minacciata dai partigiani jugoslavi.
La cosa più grave e più incredibile è che la comunità croata di oggi tende a nascondere ai cittadini dell'Istria e della Dalmazia queste verità storiche, adagiandosi sulla propaganda nazionalista dell'ex regime comunista. Migliaia di morti dei bombardamenti e delle foibe giacciono in fosse comuni negli angoli dei cimiteri senza una lapide che dica chi sono e soprattutto chi erano: gli abitanti italiani di Zara, di Fiume, di Pola.
«Avvenire» del 22 luglio 2006

20 luglio 2006

Franco Loi: «La poesia è parola vivente»

Poeta stimato da Isella, Fortini e Mengaldo, Loi è un indiscusso protagonista del secondo Novecento italiano. L’antologia Aria de la memoria accoglie una selezione dai suoi trent’anni di lavoro poetico in milanese.
di Paolo Pegoraro
«Omnia mutantur, nihil interit» scriveva Ovidio: tutto muta, ma nulla scompare. Torna alla mente leggendo i versi di Franco Loi, il suo parlare dell’esistenza schietto ma senza il sussiego di chi sa di affrontare le questioni ultime. In Loi c’è, semmai, quell’oncia di fatalismo che il tempo instilla nello scorrere delle generazioni formando quelle stalattiti di sapienza che sono i proverbi. La recente antologia Aria de la memoria. Poesie scelte 1973-2002 (Einaudi, pagg. 274, euro 15,00) ripercorre le principali stagioni del suo denso lavorio attorno al dialetto milanese, aiutando il lettore con traduzioni a pié di pagina che servono soltanto, sia chiaro, per orientarsi.

Lei non si è limitato a ripercorrere una cronologia. Perché ha posposto i poemi di Stròlegh (1975), Teater (1978) e L’angel (1994) a Isman (2003)? «È stato detto che le prime poesie erano epico-narrative mentre poi c’è stato un allontanamento nel lirico, e questo io non lo condivido. La critica tende a stabilire dei canoni, a dire che la poesia scritta prima dà adito a uno sviluppo. Volevo rompere questa sequenza. Anche nelle mie ultime poesie ci sono parti descrittive e sono convinto che in Stròlegh ci siano parti religiose come in Isman».

Perché ha scelto proprio il verso «aria de la memoria»?
«Due fondamenti del mio scrivere e del mio vivere, direi. La memoria non è solo fatto mnemonico degli eventi di una vita, ma vuol dire penetrare sempre di più dentro di sé e in quella memoria inconscia che è la memoria spirituale. A un recente incontro su poesia e politica ho incontrato Bertinotti che ha detto: "Io non sono un ateo, sono un uomo che cerca". La ricerca della verità è sicuramente dentro gli uomini che si mettono in movimento verso se stessi e il mondo, e questa ricerca è continua provocazione alla memoria, è un ricordare per conoscere. E l’aria perché da una parte è un elemento leggero, che non vediamo anche se respiriamo, ma dall’altra è uno spessore, un elemento tra le cose, tra l’uomo e l’altro uomo. E ha una dimensione spirituale perché è il tramite che abbiamo con l’aldilà. Ciò che non vediamo e non tocchiamo è al di là dell’aria».

I suoi versi civili sono invettive...
«L’uomo che meno cerca di conoscersi e capire se stesso, tende sempre a realizzarsi fuori di sé. E quindi le cose materiali e gli altri uomini diventano oggetti del suo potere. Questa trasformazione dell’uomo in oggetto, a servizio di qualcosa che è sempre fugace, è l’antitesi del farsi dell’uomo e del porsi in relazione. E questo m’indigna, tanto più quando è un’organizzazione ecclesiale che magari fa la stessa cosa, perché Cristo ha rifiutato sempre il potere».

Nelle invettive usa il turpiloquio che però, letto in milanese, comunica solo un focoso sdegno.
«Perché c’è un sacrosanto diritto dell’uomo incolto, che soffre, alla bestemmia. È stato anche detto che colui che bestemmia crede, altrimenti non bestemmierebbe: dentro ha un dolore, una passione dell’uomo. E questo non viene capito abbastanza da chi fa tacere il popolo quando bestemmia o addirittura lo redarguisce. Nominare il nome di Dio invano è molto più quello di una preghiera falsa che non quello della bestemmia, perché è la carne che è tutt’uno con lo spirito che soffre, e quindi questa sofferenza ti da diritto all’indignazione, alla rivolta contro il negativo che fa bestemmiare. Ha sempre bestemmiato il popolano, non bestemmia mai il signore, è vero o no? Perché il padrone bestemmia nella vita, bestemmia con il comportamento da sepolcro imbiancato. Ed è allora che Cristo prende la frusta, è l’unica violenza che fa nei Vangeli».

Debenedetti scriveva che il dialetto rende credibili parole che la lingua italiana ha reso desuete, parole come «onore, amicizia, lealtà».
«Perché acquisiscono un potere nella verità. Cos’è la poesia? Come dice Dante, "I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto", cioè ascolto e prendo nota. E questo è importantissimo, perché non è più l’io mentale dell’individuo che costruisce i versi, ma è l’Amore che lo muove dentro e gli fa dire non solo il contenuto ma anche il modo: "e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando"».

Quindi non è in forza del dialetto, ma dell’ispirazione.
«La poesia ha la forza straordinaria di dire come fosse la prima volta quella parola che è bestemmia o retorica nell’uso comune, perché mossa da amore, espressione di qualcosa che trascina l’uomo al dire. È questo che toglie ogni eleganza estetica. La poesia è proprio la parola vivente».

I dialetti sono ridotti a italiani cadenzati. Che ruolo sociale avranno nel domani?
«Mi son trovato a scrivere una lingua che sembrava morente e non so perché. La storia non va dove pensiamo mentalmente che vada. Il latino aveva sommerso le lingue orali degli osci, pelangi, galli… poi l’uomo, libero dal tallone dello Stato, si è rimesso di fronte alla fatica del vivere ed è rinata la lingua. E così non possiamo sapere come andrà quando cadrà l’impero americano, per non dire cosa succederà quando crolleranno gli Stati europei. D’altra parte, se vogliamo sapere come viveva la gente nel Cinquecento si legge il Folengo, non l’Ariosto o Tasso. Per capire la vita sotto il fascismo non si legge Ungaretti né Montale ma Delio Tessa; per sapere come si viveva nell’Ottocento non si legge Leopardi, che amo, ma il Belli e Porta. Anche se scompaiono le lingue parlate – ma non scompaiono, si trasformano – questo ha poco peso per la storia dello spirito umano, perché essa è la storia dei corpi e della terra, e viene fatta attraverso le testimonianze».

La sua poesia ha due motori, la lontananza e il movimento. In questa tensione l’uomo vive. Allora cosa ci minaccia?
«La perdita del senso della lontananza. Si ha la presunzione di aver conosciuto il reale e allora non si ha più la giusta distanza dell’uomo dalla natura, dagli altri uomini e da Dio. La parola indoeuropea sak vuol dire lontananza: il sacro o la pone o la riempie. La perdita di questo senso della lontananza è la perdita della possibilità di riempire la lontananza. Einstein dice che non si perviene alle leggi universali per via di logica: l’intuizione è possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. E il rapporto simpatetico è il rapporto d’amore, torniamo al movimento d’amore che copre la lontananza».

Una sfida per le religioni? «Il mio amico Adonis ha detto che il monoteismo è violento e fa le guerre… dimenticando che né i romani né i greci erano monoteisti. È l’uomo che fa le guerre. E la perdita del senso dell’uomo fa arrivare a questi sproloqui».

«Letture» di aprile 2006

Vignetta di Giannelli sulla missione italiana in Afganisthan

Vignetta di Giannelli sul voto sulla missione militare in Afganisthan
( «Corriere della sera» del 20 luglio 2006 )

Quello che desideriamo influenza quello che vediamo

Un esperimento della Cornell University ha dimostrato che ciò che si vuole controlla le scelte del nostro cervello
Alla luce della ricerca di David Dunning, gli psicologi fanno il punto sulle possibilità e le potenzialità dell'auto-motivazione
Senza saperlo, quello che desideriamo controlla quello che poi vediamo. O, per lo meno, lo influenza. Ne sono certi David Dunning ed Emily Balcetis, i due psicologi della Cornell University autori dello studio che sarà pubblicato sul prossimo numero del Journal of Personality and Social Psychology.
"In psicologia esiste un'antichissima ipotesi - afferma David Dunning - secondo cui i desideri possono influenzare che cosa vedono le persone". La teoria sarebbe rimasta latente per circa 40 anni, senza alcuna prova a sostegno. "Noi abbiamo voluto esaminare di nuovo le acque oscure".
Prima di rendere note le loro conclusioni il professor Dunning e la sua allieva Emily Balcetis, hanno eseguito cinque test separati su 412 volontari della Cornell University. Gli psicologi hanno presentato ai candidati un'immagine ambigua che alcuni hanno interpretato come una testa di un cavallo, altri come il corpo di una foca. Ai volontari, era però stato detto che, a seconda di quello che avrebbero visto, avrebbero dovuto testare una fresca spermuta di arancio o una gelatinosa e piuttosto sgradevole passata di verdura. Risultato: i cervelli dei partecipanti, ignari del reale fine dell'esperimento, hanno sempre "scelto" la figura che li avrebbe portati alla spremuta. "Questo dimostra - ha spiegato Dunning - che il cervello è stato condizionato e, a seconda di quello che l'interessato avrebbero preferito testare, ha interpretato l'immagine come la testa di un equino o il corpo di un animale marino".
"Le due figure che abbiamo usato sono state scelte accuratamente in modo che le persone, all'oscuro dell'esperimento, non potessero mentire o ingannare," ha tenuto a precisare Dunning. L'unico compito dei 412 era indicare che tipo di immagine stavano vedendo a seconda di quale bevanda avrebbero preferito testare. Questo ha attivato un desiderio che ha indiscutibilmente condizionato l'immagine poi vista. "Inoltre - ha precisato Dunning - abbiamo rintracciato i movimenti automatici e inconsci dell'occhio che erano fuori dal loro controllo. Questo indica che i volontari non avrebbero potuto conoscere a priori l'opzione alternativa disponibile".
Dopo la ricerca di Dunning, tutti gli altri scienziati e psicologi che si sono dedicati allo studio del collegamento fra ciò che si pensa e le reazioni fisiologiche nell'occhio, fanno il punto sulle possibilità e le potenzialità dell'auto-motivazione. "Potremmo interpretare le situazioni ambigue in rapporto alle nostre aspettative, le speranze e le vie d'uscita dai nostri timori? Questa è la nostra prossima domanda".
«La Repubblica» del 17 luglio 2006

Il latino torna di moda ora impazza su internet

Video, documentari e siti online lo celebrano nell'era degli sms. Un paradosso? Si appassionano i giovanissimi. Gli esperti: piace perché "fa ragionare"
di Alessandra Retico
Lo declinano hip hop, va a ruba su e-Bay e alla radio è un tormentone. O tempora o mores, roba vecchia le notti insonni prima della versione in classe, speriamo che non esca Tacito, la professoressa fissata con l'esametro con spondeo al quinto piede. Il latino è un'altra faccenda adesso, e se non proprio uno spasso, una passione libera e leggera che attraversa paesi e generazioni.
"Latin is back" titolava qualche giorno fa il Daily Telegraph, il ritorno del latino, ed è curioso che proprio gli inglesi, depositari o presunti tali delle parole della modernità, a quella dei classici attribuiscano come in passato un senso vivo e vegeto, altro che lingua morta.
Non aumentano gli studenti nel Regno Unito, sempre meno scuole offrono corsi. Però le famiglie che riescono a far studiare ai figli Cicerone e coniugazioni dicono: "Una gran fortuna". E un bel commercio: film e video, sceneggiati tv, documentari e siti internet hanno riportato l'antichità al centro della scena contemporanea, la consecutio temporum nella grammatica espressionista degli sms.
Perché tanto interesse? "I ragazzi cambiano, succede dentro, qualcosa a livello intellettuale, la ricerca di un equipaggiamento migliore". David Cartwright insegna al Dulwich College di Londra, gli piace il web: 50 lezioni in vendita sul sito d'aste eBay, si possono comprare anche singolarmente, 3 o 4 pagine a "unit", una sterlina circa (1,50 euro). Economico e divertente il corso, fumetti e personaggi, e mica per bambini. "Imparare il latino per molti è noioso se non terrorizzante. Così scorre meglio". Lo comprano non barbosi e nostalgici, ma medici, avvocati, creativi, professionisti. "Ci aiuta in ufficio". Perché di questo si tratta, il latino fa ragionare davvero, non è un puzzle impossibile della mente, è la mente.
"Dà una competenza a lungo termine: la capacità di organizzare un messaggio, di appropriarsi di un sistema logico argomentativo generale. Per questo torna a essere richiesto dopo almeno un decennio di infatuazione per un'educazione utilitaristica".
Il pedagogista Benedetto Vertecchi dice che è vera questa rinascita che si misura anche "con il costante aumento negli ultimi anni delle iscrizioni ai licei classici e scientifici a scapito dei tecnici". Di più: il recupero del patrimonio antico è una rinnovata sensibilità "verso quello che non serve in senso immediato: il latino è come la poesia, inutile per una spesa consumistica. Non aumenta la prestazione finale ma il profilo del soggetto". A qualunque "classe" appartenga, perché il latino contrariamente a quanto si pensa non è per le élite. Vedi i paesi del nord, quelli che hanno aderito alla riforma protestante: la scolarizzazione è stata forte perché la gente voleva imparare a leggere le Scritture e i classici senza la mediazione del clero. Il diritto a un lavorìo mentale.
Filippo Tarantino, preside del liceo Cagnazzi di Altamura, a Bari, si è inventato una rete europea per il rilancio della cultura umanistica. "Che è cinema, che è teatro, che è molta modernità e popolarità, non solo Quintiliano e ceti abbienti". Dice il professore che "il latino non ha diviso la società per classi, anzi ha favorito la traduzione come atteggiamento mentale: capacità di mettersi in contatto con gli altri, e non solo ginnastica del cervello". Verso pop, strumento di comunicazione, persino d'intrattenimento. Il latino una hit che unisce umori e pensieri. La Finlandia ne va matta, la radio Nuntii Latini trasmette notiziari in lingua, ed essendo questo il semestre di Helsinki alla presidenza europea, una pagina del sito nazionale è in latino. Le librerie espongono in vetrina copertine di autori classici, Dan Brown lo considerano vecchio, e il professore Jukka Ammondt si è messo a tradurre the best of, cioè i meliora, di Elvis Presley.
Al liceo Einstein di Berlino più della metà degli studenti sceglie di studiarlo come seconda lingua, chissà se per cantare Odi et amo di Catullo come fa il gruppo hip hop tedesco ISTA, tre singoli in distici elegiaci. In rete miriadi di portali, anche di insulti che al liceo non ti insegnano, e anche la più grande e democratica enciclopedia online, Wikipedia, ha la sua versione latina: Vicipedia libera Encyclopaedia. La modernità non è spot e bip, ma un linguaggio che porta dentro un'etica, un sistema sociale, una maniera di ragionare, un galateo della parola. Un posto antico, e vivo.
«La Repubblica» del 20 luglio 2006

Vernant, Lamb, Calvino e la doppia vita dei classici più classici

di Roberto Mussapi
Il grande studioso del mondo greco ha riscritto l’«Odissea» per il proprio nipotino. Inserendosi così nel solco di una tradizione che vanta esempi illustri
Jeanne-Pierre Vernant è uno dei massimi studiosi della civiltà greca, autore di opere memorabili. Questo grande interprete di una delle costole del nostro passato e del nostro presente ora scrive una favola rivolta al nipote, la favola di Ulisse (cui segue quella di Perseo e Medusa) che un vecchio vuole narrare a un bambino (C’era una volta Ulisse, Einaudi, pagg. 82, euro 8,50).
Diciamo subito che il risultato artistico è modesto: semplicistica la lettura del mito, che in modo sfolgorante lo studioso ha contribuito a indagare, né la bonomia è un buon registro per raccontare storie memorabili. Ma non è questo il punto, il grande Vernant si è divertito e, ci auguriamo, anche i suoi nipoti. Il punto è che l’autore rilancia un genere letterario esistente quanto un po’ occulto: la creazione di un’opera letteraria partendo da un’altra opera letteraria, necessariamente un insuperabile capolavoro.
Esiste una tradizione poco esplorata in tal senso, ma è il caso di rievocarla, perché tocca alcuni nodi della natura stessa dell’opera letteraria. Non mi riferisco alla riduzione per ragazzi dei grandi capolavori, né alle opere liberamente ispirate a un modello, a quell’«imitazione» che è un canone della letteratura, a partire da Virgilio che guarda ai poemi di Omero. Parlo di una diversa intenzione letteraria: creare un’opera che abbia pretese artistiche intrinseche non limitandosi a ridurre o a riassumere a scopi divulgativi un capolavoro, ma riscrivendolo, in altra forma, abbreviata. Un’opera nuova da un modello insuperabile, ma un’opera che sia essa stessa autonoma, respirante e emanante poesia e luce.
Il tentativo di Vernant va in questa direzione, e manifesta una volta in più l’immortalità dei classici: le opere di Omero, Dante, Shakespeare e pochi, non pochissimi altri, sono concluse e non concluse nello stesso tempo, accettano filiazioni necessariamente minori ma non di servizio. Celebre in tal senso una trilogia, Esopo Fedro La Fontaine: molte fiabe sono le stesse, gli autori di epoche diverse riscrivono le stesse trame, e ognuno dei tre libri è impeccabile. Ma un altro caso illustre è costituito dalle fiabe teatrali di Carlo Gozzi (ricordiamo almeno le meravigliose Tre melarance, e La donna serpente), che attingevano esplicitamente al capolavoro della fiaba italiana, il sontuoso, vorticante, barocco Cunto de li cunti, detto anche Pentamerone, del secentesco napoletano Giovanbattista Basile.
Ma l’operazione più rischiosa, al limite della follia, in tal senso, si svolse in pieno romanticismo, per mano di un sodale del grande poeta S.T. Coleridge, il padre e il maestro della poesia romantica. Charles Lamb, e la sorella Mary, decisero di riscrivere le commedie e le tragedie di Shakespeare in forma di favole. Folle impresa, come si è detto, ma coronata dal successo che spesso arride alle sfide apparentemente impossibili. I fratelli Lamb innanzitutto esclusero tutte le tragedie storiche, romane o inglesi, privilegiando quindi esplicitamente le opere di pura immaginazione. Straordinariamente riuscirono a tramutare in fiaba Amleto e altre tragedie terribili, come Otello, mentre solo apparentemente più facile fu il compito con le commedie, già di per sé fiabesche, di Shakespeare.
Certo le fiabe dei fratelli Lamb perdevano la geniale conoscenza rivelante di Shakespeare, la sua vertiginosa adesione ai segreti della vita, ma ne salvavano il fascino della storia, lo stupore degli accadimenti, pur con i necessari abbassamenti delle favole per fanciulli: Amleto cercava di indurre la madre al ravvedimento, Desdemona era una donna un po’ irragionevole che aveva scelto di sposare un uomo di colore... Ma il risultato fu che letteratura popolare ebbe un eccellente libro di favole che avvicinava il mondo a Shakespeare in un secolo in cui il teatro era riservato alla borghesia, e non popolare, felicemente di massa come era stato ai tempi fastosi dell’età elisabettiana.
L’opera dei fratelli Lamb risale all’inizio dell’Ottocento, mentre nel secolo appena trascorso, negli anni Settanta, un’iniziativa editoriale di Einaudi tentava un’altra strada di riscrittura, questa volta parziale, dei classici: tenendo conto della situazione italiana (distanza secolare tra lingua scritta e lingua parlata, tanto per citare uno dei problemi), lo Struzzo propose alcuni capolavori che un scrittore tagliava, alternando alle pagine e ai versi originali (ricordiamo l’eccellente Orlando furioso di Italo Calvino), non un commento critico ma un racconto delle parti tagliate, che fungesse di raccordo e insieme creasse una nuova realtà narrativa.
Ma esistono altri casi in cui la riscrittura del modello lo supera: La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, col prodigioso incanto di una morte mutata in sonno da un bacio, con l’immobilità del castello e del mondo ridestata a una resurrezione dall’amore, supera di gran lunga il rozzo quanto lezioso modello di Perrault. Ma è un caso raro, e possibile poiché lo scrittore francese non è un Ariosto o uno Shakespeare o, per tornare all’origine di queste considerazioni, un Omero.
Partendo da loro però altre opere possono nascere, autonome, sicuramente inferiori ma non necessariamente superflue. È una prova della doppia vita dei classici: da un lato splendono, conclusi e perfetti come astri paghi dell’irradiante luce propria, dall’altro vivono sottoterra, seminano, suggeriscono nuove filiazioni.
«Il Giornale» del 20 luglio 2006

Che tristezza il «Deserto del tartaro»

di Giuseppe Iannaccone
La recente pubblicità su carta stampata di un dentifricio propone una vignetta in cui un dente comodamente seduto in poltrona, con tanto di pantofole e occhiali presumibilmente per presbiti, legge, alla luce di una lampada e visibilmente concentrato, un libro: «Il deserto del tartaro». In cima campeggia un titolo che ribadisce il gioco di parole, nel caso in cui il distratto lettore di riviste non avesse afferrato: «una lettura mor-dente».
Niente di nuovo si dirà chi ha imparato a tollerare le campagne pubblicitarie di quella famosa catena della grande distribuzione alimentare che ha già altrettanto «simpaticamente» antropomorfizzato e fornito di pensiero e parola ogni prodotto commestibile, dai cavoli alle merende. E d’altronde la maggior parte dei seguaci del Grande Fratello (il reality) non sa che il copyright di quest’invenzione metaforica ancor prima che linguistica non è dell’Aran Endemol (la casa di produzione del reality medesimo), ma di George Orwell, e che è «depositata» nel suo libro più famoso, 1984.
Se per interpretare questo fenomeno tutto postmoderno della citazione che cancella l’originale si proponesse la categoria, sarcastica più che ironica, dell'«umiliazione linguistica», si rischierebbe certamente di essere accusati di integralismo filologico o moralismo linguistico o, nella migliore delle ipotesi, di prendere tutto troppo sul serio. Ma è davvero così poco grave l’avvento di questa «pubblicità regresso» in cui titoli di romanzi e nomi di personaggi letterari volteggiano come arance in mano a un giocoliere, perdendo, giro dopo giro, il senso originario?
Eugenio Montale scrisse, moltissimi anni fa: «Chi ha fatto il nome di Kafka, a proposito del Deserto dei Tartari, merita di essere perdonato se non conosceva il precedente romanzo Barnabo delle montagne che svolge press’a poco lo stesso tema (la grandezza e la degnità della vita in solitudine) e che presenta il primo personaggio veramente originale di Buzzati: una cornacchia». Chissà se Eugenio Montale avrebbe perdonato oggi chi non fa il nome di Dino Buzzati incappando in pubblicità così mor-denti, o di George Orwell, guardando l’ennesima edizione del Grande Fratello, perché non li sa. Quei nomi.
«Il Giornale» del 19 luglio 2006

Italiani, popolo di scrittori. Ma non di lettori

I risultati di un’indagine sul mercato del libro: 5 italiani su 100 leggono solo una volta al mese
Di Antonio Giuliano
Chi trova un buon libro trova un tesoro. Perché un testo in fondo è come un amico. La sua compagnia può essere così preziosa, che non si può quantificarla. Un buon libro non ha prezzo, si è spesso detto e non senza ragione. Però chi mai avrebbe pensato che leggere ha anche un valore materiale calcolabile in Pil (Prodotto interno lordo)?
Ne sono del tutto convinti Antonello Scorcu, professore di Politica economica presso l’università di Bologna e Edoardo Gaffeo professore di Economia politica all’università di Trento, al termine di una ricerca per conto dell’Associazione italiana editori (Aie).
Il loro lavoro è stato anticipato ieri a Milano nell’ambito della presentazione degli "Stati generali dell’editoria 2006" in programma a Roma il 21 e 22 settembre. Quelle romane saranno giornate di confronto tra gli editori e quanti si occupano della politica culturale del Paese, ispirate proprio dagli esiti di questo studio. Gli economisti Scorcu e Gaffeo hanno fatto ricorso a rigorosi modelli scientifici per smentire i pregiudizi di una ricerca commissionata ad hoc dagli editori. L’analisi ha tenuto conto della produttività delle regioni italiane nell’arco di vent’anni (1980-2003). L’esito è stato questo: nelle regioni in cui si legge di più, a parità di condizioni, tra cui il livello d’istruzione, la crescita economica è migliore. A tal punto che «se la Calabria avesse avuto negli anni Settanta il tasso di lettura della Liguria, oggi avrebbe una produttività del lavoro di cinquanta punti maggiore». L’indagine dei due studiosi si è spinta nel dimostrare che lavoratori abituati alla lettura apportano benefici economici superiori rispetto all’investimento sui macchinari.
La ricerca s’inserisce in un mercato italiano del libro non catastrofico almeno dal punto di vista dell’offerta: ogni anno vengono pubblicati 53mila nuovi titoli, in linea con la media europea. Le statistiche dolenti provengono dalla domanda: nel 2005 in Italia il 57 per cento della popolazione non ha letto alcun libro (esclusi quelli di uso scolastico/ universitario e professionale). Il paragone è impietoso con alcuni stati europei: se nel nostro Paese il 42,3 per cento della popolazione dichiara di aver letto almeno un libro nell’anno precedente, in Francia siamo al 61 per cento, in Germania al 66, nel Regno Unito oltre il 73.
Senza contare che solo 5 italiani su 100 leggono un libro al mese e il divario tra lettori nel Nord (più numerosi) e nel Sud si allarga.
Una situazione intollerabile per gli editori che puntano il dito contro la politica. Sotto accusa una superficiale protezione del diritto d’autore e soprattutto la mancanza di investimenti in infrastrutture: le biblioteche attuali sono carenti, poche e mal distribuite sul territorio nazionale; quasi assenti quelle scolastiche. Non è molto diversa la condizione delle librerie, quasi il 51 per cento delle quali si trova al Nord. Solo il 5 per cento dei comuni del Sud e delle Isole ne possiede una.
«C’è davvero una scarsa attenzione della politica ai libri e alla cultura in generale - ha tuonato ieri Federico Motta, presidente dell’Associazione italiana editori -. A Roma presenteremo ai politici un "Manifesto" con le nostre proposte per incentivare la crescita culturale. La promozione della lettura non spetta solo a noi».
Forti delle analisi di Scorcu e Gaffeo, gli editori sono pronti a dimostrare che le spese per la cultura sono un investimento più che un consumo. «Ogni qual volta una famiglia spende per la cultura - ha aggiunto Motta - fa un investimento per la crescita dell’Italia».
Potrà sembrare una visione materialista del valore della lettura, ma è comunque meritevole di riflessione: per il benessere del Paese, leggere vale un tesoro. Conti alla mano, con molti zeri.
«Avvenire» del 19 luglio 2006

Chi ha paura dei capolavori?

Scuola e università nel mirino del critico letterario Alfonso Berardinelli: «I grandi autori del passato? Vengono utilizzati male,o in modo terroristico Guai all’insegnante che li rende noiosi»
di Luigi Vaccari
«Oggi tutti leggono per obbligo scolastico. La letteratura vive se è davvero un oggetto d’uso. Se la tramutiamo in un oggetto di studio la uccidiamo»
I classici sono sempre d'attualità. E sempre inafferrabili. Dice Alfonso Berardinelli, critico letterario e saggista: «Un classico, come è stato già detto da qualcuno, è un libro che vorremmo aver letto e non abbiamo letto. Questo significa che il nostro rapporto con i classici è ambivalente: vorremmo farli nostri e nello stesso tempo ci fanno paura perché li sentiamo lontani da noi. Comunque sono di almeno due tipi: quelli canonici, sui quali non si può obiettare, e quelli relativi a un certo periodo, a una certa tendenza, a un certo gusto. In un momento in cui si torna a parlare, anche per ragioni politiche, di identità culturali, sono quei testi sui quali noi fondiamo la nostra idea della vita, del vivere comune, e perfino dell'aldilà».

Come superare la paura e conquistarli?
«Credo che anche noi adulti soffriamo di un complesso scolastico nei confronti dei classici. A scuola si usano male, in modo terroristico e noioso. Si crea una inibizione a leggerli che per molte persone, anche abbastanza colte, dura tutta la vita. Penso che si dovrebbe cominciare così: considerarli libri qualunque; leggerli, capendo quello che si riesce a capire, senza troppa erudizione. Ma ricordando sempre che leggere un grande classico dà al lettore una straordinaria sicurezza».

Italo Calvino ha scritto: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»…
«Ha scritto anche, con una semplicità ancora più provocatoria, che bisogna leggere i classici perché comunque leggerli è meglio che non leggerli. Questo lo trovo di un praticismo sublime. Calvino era un uomo pratico, arguto e astuto. Capiva bene che ci sono cose che è meglio fare che non fare. Anch'io credo che la lettura dei classici abbia anzitutto una funzione pratica elementare: chi non li legge avrà sempre quel rimorso, si sentirà per sempre ignorante, non riuscirà mai a liberarsi di un complesso di inferiorità culturale. Solo chi ha letto almeno 10 classici fo ndamentali è libero da queste fisime…».

Quanto i classici più remoti influenzano la letteratura contemporanea?
«È difficile dirlo. Chiunque scriva ha sempre in mente alcuni autori che considera come i suoi classici. Si può dunque scegliere. Ci sono i classici canonici, che dovrebbero essere tali per tutti. E i classici personali, di cui ogni lettore o scrittore sente un assoluto bisogno. E ci sono classici minori: per esempio Edgard Poe o Stevenson o Goncarov potrebbero essere considerati minori, rispetto a Dante e Shakespeare. Ma è anche l'unicità, la singolarità, l'incomparabile bizzarria che rende classici autori come loro. Ne esistono che rappresentano e sintetizzano le caratteristiche di un genere letterario: Sofocle e Shakespeare il teatro; Omero, Cervantes e Tolstoj la narrazione epica; Saffo e Leopardi la poesie lirica; Plutarco, Seneca, Montaigne e Voltaire la saggistica…».

Lei si è occupato a lungo di poesia. E recentemente ha scritto un libro intitolato: «Che noia la poesia»…
«Il titolo si riferisce alla scuola, che si dimostra così efficiente nell'annoiare gli studenti con opere e autori che noiosi non sono affatto. Abbiamo scritto questo libro per combattere un diffuso pregiudizio negativo che tuttora esiste contro la poesia. Sembra che nessuno osi leggerla di propria iniziativa: la si legge soltanto per obbligo scolastico. E, in aggiunta, si è costretti a produrre, sui testi appena letti, delle complicate e spesso inutili interpretazioni. La letteratura vive se è davvero un oggetto d'uso: cioè, se è letta. Se la trasformiamo in oggetto di studio e basta la uccidiamo. Il discorso riguarda tutti i classici».

Ampiamente diffusi in collane anche economiche. Ma quale ascolto hanno presso i lettori non specialistici?
«È un mistero. Non basta vendere tutti i classici a prezzi popolari per essere certi che verranno letti e capiti. L'incontro fra passato e presente è sempre un problema. Bisogna anche dire che un classico è capito e agisce davvero soltanto se viene letto come se fosse stato scritto ieri. Sarà una deformazione cancellare la distanza, ma forse è necessaria perché un libro scritto secoli fa venga letto oggi come qualcosa di vivo e interessante oggi. Qui gli studiosi sono utili, indispensabili a volte, perché sono gli unici capaci di spiegarci il senso di un linguaggio remoto rispetto al nostro linguaggio attuale. Ma è bene che gli studiosi non credano di essere i soli destinatari dei classici: debbono essere al servizio dei lettore comune, altrimenti l'alta cultura diventa patrimonio esclusivo di una casta di specialisti».

Lo sono, al servizio di tutti? O invece ignorano i lettori comuni perché non li considerano conquistabili?
«La scuola e l'insegnamento dovrebbero avere il compito di fare incontrare il meglio di ciò che la critica ha scritto con quei lettori ingenui, sprovveduti e spesso svogliati che sono gli studenti. È il grande compito di chi insegna. Ed è un momento cruciale nella trasmissione del sapere. Ma bisogna anche divertirsi. Guai all'insegnante che rende noiosa la lettura dei più grandi capolavori prodotti dall'umanità. È lo stesso caso del sacerdote che rende noiosa e poco interessante una sacra scrittura».

Non è quello che spesso accade?
«Sì: ne sto parlando proprio perché, ahimé, accade. La nostra società non ha ancora capito i crimini culturali, quasi sempre inconsapevoli, che vengono commessi nell'insegnamento scolastico e universitario. I classici vengono somministrati e usati per superare esami e dare voti. Nel corso dell'apprendimento non vengono presi in considerazione quei metodi elementari che dovrebbero realizzare un vero contatto tra le grandi opere e i giovani che oggi le leggono. È vero che la libera lettura individuale, senza prescrizioni e imposizioni, non è sostituibile da alcun insegnamento istituzionale. Ma non c'è vero insegnamento, neppure istituzionale, che possa credere di raggiung ere gli studenti senza essere riuscito a coinvolgerli. Insegnare è un'arte e richiede una vocazione e un talento specifici come tutte le altre arti».

In questa situazione quale futuro intravede per i classici?
«Sono la fonte dei nostri rimorsi culturali e l'utopia della vita di ogni lettore, ciò che ci rende insoddisfatti del presente e che ci fa sentire debitori del passato. Debitori anche nei confronti delle nostre più o meno dimenticate e migliori aspirazioni. Chissà che futuro avremo. Ma una cosa è certa: un futuro delle nostre società che fosse fondato sulla cancellazione della memoria e del passato sarebbe mostruoso: come oggi si comincia a dire, post umano…».
(1 - continua)
«Avvenire» del 19 luglio 2006

Togliatti, la via italiana allo stalinismo

«Invocò la repressione in Ungheria e favorì la caduta di Kruscev»
Lo storico Federigo Argentieri accusa gli studiosi vicini ai Ds di aver ignorato importanti documenti
Di Antonio Carioti
L'affondo è pesante, di quelli che lasciano il segno. Secondo Federigo Argentieri, alcuni documenti fondamentali sull' opera di Palmiro Togliatti nel periodo successivo alla morte di Stalin, emersi nel corso degli anni Novanta, «sono stati tutti minimizzati o caparbiamente ignorati dagli studi post 1991 provenienti dall' area politico-culturale vicina ai Ds». E gli autori di matrice postcomunista, continua, hanno agito così «di proposito, semplicemente allo scopo di evitare di mettere in discussione le proprie posizioni, consistenti soprattutto nel reiterato tentativo di accreditare Togliatti come il vero capofila del riformismo italiano». Una denuncia che l'autore ha inserito nella nuova e più polemica edizione del suo libro Ungheria '56. La rivoluzione calunniata (pagine 192, 10), appena uscita da Marsilio nella collana «I libri di Reset», con prefazione di Giancarlo Bosetti. Togliatti, afferma Argentieri, non solo approvò in pieno l' intervento sovietico a Budapest, ma lo invocò in sede riservata presso il Cremlino e agì sistematicamente per frenare le conseguenze della destalinizzazione: lungi dal mettersi alla testa del rinnovamento nel mondo comunista, fu il più astuto e autorevole tessitore della restaurazione, infine sfociata nella caduta di Nikita Kruscev, l'uomo che aveva denunciato i crimini di Stalin, e nell' ascesa di Leonid Breznev. Molti gli episodi citati a suffragio di questa tesi. La lettera spedita ai vertici del Cremlino il 30 ottobre 1956, in cui Togliatti auspicava l' invasione dell' Ungheria («Razza di incapaci, vi volete decidere o no?» è la frase con cui Argentieri ne riassume il contenuto). L' assenso del «Migliore» alla condanna a morte di Imre Nagy, il primo ministro comunista riformista che era stato riportato al potere dall' insurrezione di Budapest. La sua denuncia circa la presunta «attività sobillatrice» svolta dal filosofo ungherese György Lukács. L'invito alla prudenza da lui rivolto ai compagni cecoslovacchi nel 1963, quando a Praga si parlava di riabilitare le vittime dei processi staliniani. Infine l'accusa più grave di Argentieri: nel 1964 Togliatti era in sintonia con coloro che tramavano contro Kruscev e per questo si recò in Unione Sovietica, dove morì improvvisamente nell'agosto di quell'anno. Il famoso Memoriale di Yalta, destinato a rimanere riservato ma reso pubblico dopo la scomparsa dell'autore, non era affatto (come in seguito venne affermato) un documento volto a rimarcare l'autonomia del Pci da Mosca. In realtà le critiche mosse da Togliatti all'Urss in quel testo, con le relative «preoccupazioni per l'unità del movimento comunista internazionale», facevano parte di un gioco di sponda per mettere in difficoltà Kruscev e favorirne il siluramento. A tal proposito Argentieri richiama e ripubblica in appendice al suo libro un intervento dello studioso russo Enrico Smirnov, testimone diretto dei fatti, secondo il quale Breznev si rallegrò per la pubblicazione del Memoriale in Italia, in quanto «poteva essere utilizzato contro Kruscev». Non a caso poi l'ultimo scritto di Togliatti uscì anche sulla Pravda, organo del Pcus, alla vigilia del ribaltone al Cremlino che, nel successivo autunno, avrebbe portato all' ascesa di Breznev. Insomma, Argentieri sostiene che Togliatti non fu il padre di una genuina via italiana al socialismo, perché non poteva in alcun modo rinnegare il suo passato stalinista. A suo avviso nel Pci un autentico revisionismo «sarebbe nato veramente solo nel 1964 con Luigi Longo», che per primo avrebbe preso apertamente le distanze dall' Urss, deplorando l' invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e aprendo la strada alle successive mosse di distacco da Mosca attuate da Enrico Berlinguer. Di qui il giudizio fortemente critico espresso da Argentieri sugli autori ancora propensi a difendere la figura di Togliatti. È tutta una corrente storiografica, legata soprattutto alla Fondazione Istituto Gramsci, che viene direttamente chiamata in causa: dai più accesi sostenitori del «Migliore», Aldo Agosti e Giuseppe Vacca, ai più tiepidi Adriano Guerra e Silvio Pons. C' è poi un bersaglio ancora più autorevole, arcinoto a livello internazionale. Si tratta dello storico marxista inglese Eric Hobsbawm, del cui itinerario intellettuale Argentieri rivela un particolare piuttosto imbarazzante. Nella sua autobiografia Anni interessanti (Rizzoli), il celebre studioso ricorda di aver sottoscritto all'epoca della rivolta di Budapest, con altri intellettuali di sinistra, una lettera molto critica verso l'invasione sovietica. Non fa cenno però a un suo precedente intervento, che uscì il 9 novembre 1956 sul Daily Worker, quotidiano del Partito comunista britannico. In quel testo Hobsbawm paventava il pericolo di un'Ungheria dominata da forze conservatrici di destra, che sarebbe diventata un focolaio della controrivoluzione nell' Est europeo. E, pur auspicando un ritiro dell' Armata rossa che avvenisse al più presto possibile, affermava: «Se fossimo stati nella posizione del governo sovietico, saremmo intervenuti; se fossimo stati nella posizione del governo ungherese, avremmo approvato l'intervento». Argentieri riprende la citazione da un libro di Peter Fryer, all' epoca corrispondente del Daily Worker da Budapest, che ruppe con il partito dopo la rivoluzione ungherese. Un uomo che del suo comportamento in quei giorni tragici, a differenza di Hobsbawm, oggi non ha nulla da nascondere né da rimuovere.
«Corriere della sera» del 18 luglio 2006

Cade l'ultimo tabù

Ok al partito pedofilo
di Marina Corradi
«La libertà di espressione, di riunirsi, inclusa la libertà di organizzarsi in un partito politico, sono le basi di una società democratica». Con questa motivazione il tribunale dell'Aja ha respinto il ricorso di alcune associazioni le quali chiedevano che il neonato Npdv, il partito dei pedofili, fosse bandito dalla società olandese. Il giudice Hofhuis, presidente della Corte, ha stabilito che il partito «non ha commesso un crimine, ma chiede solo una riforma costituzionale».
In particolare l'Npdv («Partito per l'amore del prossimo, della libertà e della diversità»), chiede la legalizzazione della prostituzione infantile e della pedopornografia. Ha mille sostenitori, che difficilmente gli consentiranno di raggiungere i 60mila voti necessari per accedere al Parlamento olandese. Ma l'importante, in certe battaglie d'opinione, è cominciare. Avere una legittimità, comparire nei talk show: in quel meccanismo mediatico per cui ciò che ripetutamente viene rappresentato, acquisisce in virtù di questo la dignità di interlocuzione possibile.Via libera dunque al Partito per l'amore del prossimo, con la benedizione del giudice Hofhuis. Con la sua sentenza cade l'ultimo dei tabù ancora condivisi in quello che forse è il più liberale dei Paesi del Nord Europa: l'inviolabilità dell'infanzia. E cade nell'ultima deriva del concetto di "tolleranza", tanto amato nelle culture liberal. Tolleranza di ogni diversità, nel nome apparentemente dei diritti democratici, in realtà di un radicato individualismo: ciascuno faccia della sua vita ciò che vuole, indipendentemente dalla ricaduta di queste scelte sulla collettività. La conseguenza pratica di un relativismo totale, per cui non c'è alcun valore assoluto e fondante alla radice della convivenza civile, ma tutto è soggettivo, e dunque nel nome della libertà dei singoli ogni scelta è ammissibile. Ma la sentenza di ieri fa ancora un passo avanti in questo senso. Perché fino ad ora i matrimoni omosessuali, o l'eutana sia, diritti di cui l'Olanda è stata un'antesignana, riguardavano prima di tutto la vita di chi faceva queste scelte - anche se con un'evidente ricaduta sul sentire comune. Il tribunale dell'Aja invece afferma la legittimità di un partito che propugna pornografia infantile e prostituzione dei bambini legalizzate, proponendole come modelli di comportamento possibili, innocue "diversità" soggettive al pari di tante altre. L'ultimo principio rimasto alla cultura più permissiva, quello secondo il quale l'unico limite al proprio diritto sono i diritti degli altri, viene così a cadere. I bambini, nelle righe della sentenza, non sono soggetti di alcun diritto. Ridotti a puro oggetto, e non nella pratica brutale dei pornografi o dei trafficanti di minorenni, ma nelle pulite, presentabili pagine di un pronunciamento di una rispettabile Corte.
«La libertà di riunirsi in partito è la base di una democrazia», chiosa impassibile il giudice Hofhuis, ultrà di una "tolleranza" deragliata. Viene da domandarsi se altrettanto tollerante sarebbe stato, se il partito contestato avesse avuto come programma la discriminazione dei gay. Sospettiamo di no: nessuna Corte avrebbe, giustamente, tollerato un simile progetto politico. Invece, sostenere la pedofilia è accettabile: perché l'individualismo assoluto e militante difende, in realtà, solo chi ha voce abbastanza forte per parlare ed esaltare i propri gusti. I bambini non hanno questa voce. Non l'hanno quando stanno per venire al mondo, e infatti il diritto d'aborto è stato fra i primi affermati dalla cultura radical; e ne hanno poca anche dopo, non a sufficienza per entrare a pieno titolo nella categoria dei titolari di diritti inviolabili - se attorno nulla più ha valore assoluto, e il culto della "diversità", anche di quella perversa e violenta, si fa strada.
« Avvenire » del 17 luglio 2006

Quando sotto il fascio brillava la stella di David

«Il podestà ebreo»: il dramma di uno fra i tanti israeliti che avevano creduto nel regime
di Eugenio Di Rienzo
Con Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali (Laterza, pagg. VIII-297, euro 18) Ilaria Pavan ci narra la storia dell’unico figlio di Davide (amico fraterno di Italo Balbo) che nell’Italia fascista fu chiamato a ricoprire un ufficio pubblico così rilevante e ad amministrare la città di Ferrara dal 1926 al 1934, fino a quando l’incipiente campagna antiebraica lo costrinse ad abbandonare quell’incarico per entrare, di lì a pochi anni, nel tunnel angoscioso della persecuzione razziale.
È uno studio che presenta nuovi interrogativi su quelli che furono i reali rapporti tra il Fascio littorio e la Stella di Davide, ponendosi sulla linea di continuità del grande libro di Renzo De Felice del 1961 dedicato appunto alla storia degli ebrei italiani durante il fascismo, che non poche polemiche suscitò al suo apparire. Se Franco Venturi ne aveva lodato «l’ampiezza e la profondità dell’indagine», caldeggiandone la pubblicazione presso Einaudi, Leo Valiani ne stigmatizzava la tesi del «consenso» che anche la comunità israelitica italiana aveva tributato al regime almeno fino all’inizio degli anni Trenta. De Felice sosteneva che molti ebrei avevano fatto parte della cerchia più intima di Mussolini, avevano partecipato alla fondazione dei Fasci di combattimento, figuravano nel martirologio ufficiale della «rivoluzione fascista» e, se nella prima metà degli anni Venti l’avanzata, anche in Italia, del sionismo era stata percepita come un’opposizione latente al fascismo, a partire dal 1926 i rapporti avevano registrato continui miglioramenti e si erano attestati sul bello stabile all’inizio del nuovo decennio. Secondo Valiani, invece, «la maggioranza degli ebrei era politicamente a sinistra», mentre gli antisemiti si ritrovavano «salvo pochissime eccezioni all’estrema destra, e ne formavano anzi la sola forza popolare permanente».
Si trattava di una falsificazione che De Felice avrebbe sepolto sotto il peso di nuove testimonianze. Nei primi anni Ottanta, lo storico intratteneva un nutrito carteggio con il fisico ebreo Emilio Segrè, dove veniva tratteggiato l’atteggiamento di sostanziale favore, e tutt’al più di indifferenza, che il mondo borghese e intellettuale ebraico aveva riservato al regime di Mussolini fino alla guerra di Spagna. Nella lunga lettera, fino ad ora inedita, che l’ormai invecchiato «ragazzo di via Panisperna» inviava a De Felice nel gennaio 1983, era delineata la fisionomia della sua famiglia d’origine equamente divisa tra fascisti, afascisti e antifascisti, nella quale albergava perfino la poca considerazione, mista a disprezzo, per la vecchia classe politica liberale e le nuove leve dell’opposizione al regime. La storia degli ebrei italiani nei loro rapporti con il regime e con l’opinione pubblica nazionale era stata, infatti, storia composita e articolata, ricca di luci e di ombre, che male si prestava ad un’interpretazione rigida e strumentale. E fu grande merito di De Felice l’aver rivelato la complessità di questa materia.
Merito che oggi gli viene contestato, forse troppo sbrigativamente, come accade proprio nel volume della Pavan e nella postfazione di Alberto Cavaglion, dove si criticano le considerazioni limitative sull’antisemitismo fascista, sulla sua natura «tollerante», sulla sua consistenza, sul suo tardivo e incompleto affermarsi. Sono confutazioni tali da non indebolire l’analisi di De Felice nel suo complesso, sebbene non è detto che anche le tesi dello storico, «revisionista» per antonomasia, non possano essere sottoposte a revisione, almeno in qualche dettaglio.
De Felice ricordava, tra i pochi casi di manifesta opposizione alle leggi razziali, quello di Marinetti, che sulla rivista da lui diretta, Artecrazia, faceva pubblicare nel 1938 un fondo anonimo che stigmatizzava l’idiozia dell’antisemitismo e dei suoi proseliti e dove si domandava se, con l’espressione di «internazionale giudaica antifascista» si intendesse veramente parlare delle poche decine di migliaia di ebrei italiani che Mussolini aveva ripetutamente affermato non «costituire e non aver mai costituito un pericolo per noi». Dopo l’inizio del conflitto, però, Marinetti mutava radicalmente le sue idee. Nel 1942 il periodico Mediterraneo Futurista, di cui il letterato risultava essere «animatore e primo collaboratore», pubblicava ampi stralci del famoso libello antisemita I Protocolli degli anziani di Sion, lodava le imprese di Tito che aveva distrutto il tempio di Gerusalemme, dimostrando l’inconciliabilità tra ebraismo e «romanità», e invitava perentoriamente a sottomettere tutti i cittadini di razza ebraica al lavoro coatto.
Nel mese di agosto, la rivista salutava con grande enfasi la partenza di Marinetti, come volontario, per il fronte russo, dove il poeta si recava per partecipare personalmente al «trionfo delle forze futuriste delle giovani nazioni sul passatismo cieco e reazionario dei popoli morfinizzati dall’ebraismo». Contro Ardengo Soffici, che aveva sottolineato il «carattere ebraizzante» del futurismo e il suo collegamento oggettivo col «bolscevismo», veniva rivendicato il temperamento squisitamente «ariano, italico e latino» di quella manifestazione artistica e la sua antica identificazione con il fascismo, «per essersi da sempre posto agli ordini di Mussolini e per non aver mai defezionato dal suo posto di battaglia».
La discesa in campo del profeta del futurismo contro le nuove incarnazioni della «perfidia ebraica» si aggiungeva, era del tutto coerente, quindi, con l’ispirazione di un movimento intellettuale che se in altri Paesi era stato strumentalizzato dalle «oscure forze giudaiche», in Italia aveva mantenuto integra la sua fisionomia e ora era chiamato a debellare, nel giudaismo, la «peste dell’umanità», contro la quale «finalmente combattono sul fronte russo i popoli di razza ariana, affraternati dalla gigantesca lotta purificatrice».
«Il Giornale» del 17 luglio 2006

Film e musica: pirati del Web all’attacco

TECNOLOGIA - La loro missione quotidiana è quella di intercettare e rendere disponibili a tutti gratuitamente i prodotti sfornati dalla grande industria dell’intrattenimento. Inafferrabili, sparsi per il pianeta, capaci di violare ogni manufatto digitale, sono loro a incentivare una migliore blindatura della rete
Di Stefano Gulmanelli

Sono clandestini in quello stesso underground cibernetico in cui si muovono anonimi e furtivi al riparo della curiosità dei navigatori, anche i più esperti. Nel gergo della Rete sono conosciuti come «The Scene» (la Scena) e sono i membri della ristretta comunità di hacker la cui attività precipua - quasi una missione - è intercettare e rendere disponibili on line a tutti e gratuitamente software, film e musica appena sfornati dalla grande industria dell'infotainment, il grande calderone in cui converge in modo ormai massiccio la produzione di informazione e intrattenimento.
Divisa in gruppetti (dalla natura dell'oggetto da predare o dal caso di una militanza in Rete che li ha così riuniti), la Scena è in pratica il terzo livello di quel gigantesco movimento di diffusione illegale di materiale coperto da copyright - quello che lo slang di Internet chiama «warez» - e che ha i suoi canali di distribuzione al dettaglio nei network di file-sharing quali i vari Kazaa, BitTorrent, LimeWire et similia. «Sono gruppi gerarchizzati, con leadership molto forti, ma i cui membri - pur frequentandosi virtualmente da anni - non conoscono le rispettive identità anagrafiche. Ne consegue una difficoltà estrema nel contrastarli», dice John Malcom, l'uomo che dà loro la caccia in nome e per conto della Motion Picture Association of America (Mpaa), che riunisce gli Studios hollywoodiani, uno dei bersagli preferiti dalla Scena.
Ma la struttura "da cani sciolti", seppur con un proprio capo-muta, è solo una delle spiegazioni del fatto che, salvo rarissimi casi, nessuno dei gruppi warez appartenenti alla Scena è mai stato individuato e assicurato alla giustizia. A renderli inafferrabili - anche concettualmente, almeno per gli uomini dei business colpiti dalla loro attività - è il fatto che nulla di quanto fanno è motivato dalla possibilità di trarne un vantaggio economico. Questo implica che una volta impossessatisi del file proibito non devono cercare di venderlo né hanno bisogno di cre are un sistema per ottenere un corrispettivo per quanto riversano in Rete. Il che nega ai segugi che li braccano la più feconda delle tracce: quella lasciata dai pagamenti o dai siti, veri o virtuali, su cui far convergere i soldi.
La molla dei protagonisti della Scena è di natura diversa da quella - ormai usuale - del profitto. Per certi aspetti The Scene è un'istantanea della pancia profonda di Internet e di un cyberspazio idealista, come quello di un tempo, prima dell'avvento del business anche sulla Rete. Con hacker-Davide impegnati a vincere sfide impossibili contro corporation-Golia. In uno scontro in cui più le seconde si ingegnano per blindare i propri manufatti digitali e più diventa intrigante per i primi cimentarsi a scardinare le protezioni di ultimissima generazione.
«Furto? No. È un gioco, un hobby. Tutt'al più un atto di terrorismo digitale ma senza spargimento di sangue» si legge in un forum contiguo all'ambiente, «ma è soprattutto il fatto di essere il primo ad avere qualcosa che gli altri non hanno ancora».
Già, perché il tempo in questa porzione di cybermondo è tutto: l'importante è arrivare prima. Magari, per gioco, prima dei membri del proprio gruppo; certamente prima dei warez concorrenti; ma soprattutto prima che l'oggetto del desiderio di turno divenga di pubblico e ordinario dominio. Per questo è importante riuscire a scaraventare in Rete il software, il film o la canzone più attesa dell'anno prima della sua release ufficiale (al riguardo ci si affida a qualche insider nella catena logistico-produttiva che per qualche soldo o per simpatia ideologica fornisce copie pre-lancio dell'opera). Il gruppo che mette a segno uno «0-day warez» o, addirittura, un «negative-day warez» - la distribuzione parallela al giorno di lancio o in data persino anteriore - vede decollare la sua reputazione. E nella Scena, in mancanza di profitto, la reputazione è tutto. È grazie ad essa che gruppi quali Razor 1911, Dod, Pirates With Attitude (Pwa) sono veri e propri miti fra i frequentatori più giovani del cyberspazio - quello underground ma non solo. Tanto che ormai si producono serie di episodi-video per la Rete incentrati sulle gesta di un gruppo warez.
Una volta che la Scena ha colpito e il file galoppa incontrollato nelle praterie digitali aperte dai network P2P, alla corporation legittima proprietaria non resta che cercare di portare in tribunale il maggior numero di utenti finali o, come fa l'industria discografica, inondare quegli stessi canali di distribuzione finale con file corrotti e falsi per complicare l'esistenza allo scaricatore di turno. Strategie poco popolari e comunque del tutto ininfluenti sulla Scena. Contro la quale l'unica possibilità sembra essere il duro controllo preventivo - tecnologico e legislativo - per dissuadere i pirati. Un'impresa però dal sapore disperato. Anche perché per ognuno di coloro che lasciano il mondo warez - perché cresciuto, stanco o, più banalmente, perché individuato dai cacciatori di pirati assoldati dalle corporation - ce ne sono decine pronti a sostituirlo. «Molti di noi sono ormai adulti con famiglia» ha rivelato in una rarissima intervista uno dei protagonisti della Scena in procinto di calare il suo sipario, «per anni i nostri figli hanno sbirciato da dietro le nostre spalle curve sullo schermo. Imparando ciò che facevamo. È inevitabile: saranno loro i futuri semi-dei del warez».
«Avvenire» del 16 luglio 2006

Vulgata: e la Bibbia arrivò in Occidente

SAN GIROLAMO NEL 406 FINIVA L’OPERA - Da 16 secoli la Scrittura latina, così come fu tradotta (talvolta frettolosamente o di malavoglia) dal santo dalmata, costituisce il Grande Codice dell’Occidente. E ha determinato la lingua stessa del nostro cristianesimo
La quaresima dell'anno 375 era a metà del suo corso. Mentre la febbre l'aveva fatto assopire, s'era acceso un sogno nella mente di Girolamo, intellettuale dalmata destinato ad approdare a Roma e allora residente ad Antiochia di Siria. Egli si era trovato ritto davanti al Giudice divino: «Interrogato circa la mia condizione, risposi di essere cristiano. Ma Colui che presiedeva quell'assise, mi investì: "Tu mentisci! Tu sei ciceroniano, non cristiano!". "Signore - replicai - se ancora avrò in mano libri mondani, se li leggerò, sarà come se ti avessi rinnegato!"». Così san Girolamo raccontava, in una lettera indirizzata alla fedele discepola Eustochio, la grande svolta della sua vita. «Divenni, allora - narrerà in un altro scritto epistolare - discepolo di un fratello ebreo convertito per imparare, dopo le sottigliezze di Quintiliano, i fiumi di eloquenza di Cicerone, la gravità di Frontone e la piacevolezza di Plinio, un nuovo alfabeto e per esercitarmi a pronunziare suoni striduli e aspirati. Quale fatica sia stata per me, quali difficoltà vi abbia incontrato, quante volte abbia smesso e poi, per il desiderio di imparare, abbia di nuovo ripreso, lo può testimoniare solo la mia coscienza, che ha sopportato tutto ciò, ma anche quella di coloro che mi erano compagni di vita». Iniziava, così, la grande avventura divenuta celebre col nome di Vulgata, ossia l'elaborazione di una traduzione «popolare» latina della Bibbia.
L'avvio avvenne a Roma, ove Girolamo si era domiciliato a partire dal 382; inizialmente si trattò di una semplice revisione della versione latina del Nuovo Testamento allora già in uso, la cosiddetta Vetus latina, operazione condotta su incarico di papa Damaso. Alla morte di quest'ultimo, il focoso Girolamo si era scontrato col successore, il papa Siricio, e aveva deciso di imprimere un'altra svolta alla sua esistenza. Lasciata la capitale, si era trasferito in Terrasanta, a Betlemme, ove sarà poi seguito da quel gruppo di donne aristocratiche romane con le quali aveva inaugurato nella capitale un circolo di studi biblici e spirituali. Siamo nel 385-86. Nei pressi della grotta della Natività di Cristo e della relativa basilica eretta da Elena, la madre di Costantino, Girolamo, oltre a costituire due monasteri, l'uno maschile e l'altro femminile, si consacra all'impresa della traduzione latina delle Scritture.
Nel 389-390 affronta il Salterio ma sulla base non dell'originale ebraico bensì dell'antica versione greca della Bibbia detta «dei Settanta» (solo più tardi ne eseguirà un'altra sull'ebraico, ma questa traduzione non entrerà nella Vulgata). Passerà, poi, agli altri libri anticotestamentari, procedendo in modo diseguale, anche secondo il suo temperamento mutevole, i suoi gusti e le circostanze. Così, ad esempio, tradusse il libro di Giuditta di malavoglia in una sola notte, Tobia in un solo giorno, usando un testo aramaico a noi non pervenuto. Rigettò gli altri libri deuterocanonici (Siracide, Sapienza, Baruc, Maccabei) perché non scritti in ebraico e quindi non accolti dal Canone giudaico. In soli tre giorni affrontò il Cantico dei cantici, Qohelet e i Proverbi.
Nell'anno 406, quindi 1600 anni fa, Girolamo giungeva alla fine della sua impresa e dal quel momento egli si sarebbe dedicato - fino alla morte avvenuta il 30 settembre 420 - soprattutto all'attività di esegeta (attività per altro già prima praticata), di teologo e di instancabile polemista. Con tutte le riserve e le critiche, spesso comprensibili considerati i tempi di lavoro e la nostra diversa sensibilità filologica, la Vulgata del santo dalmata costituì non solo un monumento letterario del tardo latino ma plasmò la lingua teologica dell'Occidente cristiano. In verità il successo arrise all'opera solo un paio di secoli dopo, quando essa ebbe l'avallo pratico di san Gregorio Magno, papa dal 590 al 605. Da quel momento la Vulgata fu copiata in migliaia di codici, non di rado trascinando con sé detriti di ogni genere (errori degli scribi, mutame nti intenzionali, variazioni, contaminazioni con altre versioni e così via). Per tutto il Medio Evo la traduzione gerominiana brillò, anche se mai in un'unica forma definita. Il mattino dell'8 aprile 1546, nella quarta sessione del concilio di Trento si ebbe finalmente la "canonizzazione" dell'impresa di Girolamo (si noti, comunque, che forse per l'intero Nuovo Testamento - certamente per i Vangeli - il santo non eseguì mai una nuova versione ma revisionò solo l'antica traduzione latina preesistente). La dichiarazione conciliare era "pesante" nel suo tenore: i Padri sinodali, infatti, ammonivano che «se qualcuno non avesse accolto come sacri e canonici gli stessi libri sacri integri con tutte le loro parti, così come nella Chiesa cattolica si è soliti leggere e si trovano nell'antica Vulgata latina, e avesse coscientemente e coerentemente disprezzato la suddetta traduzione, sarebbe stato anatema». Naturalmente di mezzo c'era la polemica con la Riforma, ma fu lo stesso Concilio, nel pomeriggio del medesimo giorno, a precisare che l'«autenticità» della Vulgata riguardava «le lezioni pubbliche, le dispute, la predicazione e la spiegazione». Non si trattava, quindi, di un'autenticità critico-letteraria e strettamente dogmatica in ogni sua parte, bensì di una norma di ordine giuridico, disciplinare e pastorale. Ci vollero, comunque, un secolo e mezzo di studi e di tentativi per approdare nel 1592 all'edizione definitiva del testo ufficiale ecclesiale della Vulgata, quella che sarà chiamata poi la «Bibbia sisto-clementina» dal nome dei due papi che dettero il sigillo finale di approvazione. L'edizione critica in senso moderno verrà, invece, allestita attraverso diversi esperimenti nel secolo scorso. In quel periodo - con Paolo VI e col Concilio Vaticano II - si promosse anche una Nova Vulgata, ossia una revisione del testo gerominiano tenendo conto delle esigenze della moderna critica testuale e dell'esegesi, revisione approvata da Giovanni Paolo II nel 1979, destinata p erò a una scarsa incidenza ecclesiale. Infatti, da tempo erano entrate in vigore le nuove versioni nelle varie lingue secondo i criteri attuali esegetici: si pensi che, stando a una rilevazione del 2005, la Bibbia (o parti di essa) è disponibile in 2403 lingue diverse!
Ma l'esperimento di san Girolamo da 16 secoli esercita ancor oggi non solo un indubbio fascino letterario ma condiziona in qualche modo il pensiero e il vocabolario teologico. Georges Mounin ironizzava definendo ogni buona traduzione come una belle infidèle, sulla scia del grande Cervantes, convinto che ogni versione fosse come il triste rovescio di un bell'arazzo. I problemi sollevati dal tradurre un testo non sono, infatti, solo linguistico-letterari ma ermeneutici, soprattutto quando di mezzo c'è una Scrittura "sacra". Girolamo rimane, ancor oggi, proprio in questo senso, un emblema di merito e di metodo, col suo rigore e la sua libertà, con la sua conoscenza e la sua creatività.
«Avvenire» del 16 luglio 2006

15 luglio 2006

Droga, dei nostri figli si tratta

Calma, ministro Ferrero
di Giuseppe Anzani
Dire che la droga è una piaga sociale si fa presto, dire che occorre la prevenzione costa meno di niente. Ma neppure serve a niente, senza il “fare”, quando tra il dire e il fare ci sono di mezzo 600 morti all’anno, due funerali al giorno. E che “il fare” sia fallimentare lo dicono le cifre della "Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia" presentata ieri dal ministro Paolo Ferrero. Fra il 2001 e il 2005 il numero di consumatori di cannabis è raddoppiato passando da 2 a 3,8 milioni; raddoppiati anche i drogati di cocaina (da 350 a 700 mila); triplicato l’uso di allucinogeni e di pasticche euforizzanti.
È come prendere una frustata, nella sonnolenta disattenzione di fronte a un problema non più strisciante ma galoppante. Persi dietro le sole stupide diatribe su proibizionismo e antiproibizionismo, remissivi invece che combattivi, non ci siamo più accorti che una generazione di giovani è minacciata dal rischio di rovinarsi la vita; è dei nostri figli che si tratta, dei figli che ci spetterebbe di educare e di accompagnare alla vita adulta. L’insidia della droga comincia da più lontano che dall’incontro con lo spacciatore di spinelli, di coca, d’eroina e di pasticche; comincia dalla cultura dello sballo, accarezzata come avventura “libertaria” che conduce “fuori” dalla grigia realtà, alterando i circuiti della psiche insieme al biochimismo del cervello.
È in quel contesto che si incomincia a fidanzarsi con la morte; perché, se non subito nel corpo, qualcosa “dentro” già fugge la vita. Emozioni deformate, saturazioni artificiali della sensitività, viaggio dentro un tempo destrutturato, ridotto senza più scansioni all’ora “infinita” di un quadrante senza lancette; sogno o incubo, eclisse temporanea del contatto con la vita. Per molti non c’è ritorno, la dipendenza dalle sostanze diviene catena, e spesso occasione di delitto e di rovina: il numero dei detenuti per reati connessi alla tossicodipendenza (furti, scippi, rapine ecc.) sf iora il 30% dell’intera popolazione carceraria.
Dice bene il ministro Paolo Ferrero quando parla di «centralità della prevenzione e dell’informazione sulla pericolosità delle sostanze e degli abusi». Ma dice male, malissimo, quando inserisce nella ricetta la «depenalizzazione dei consumi». Ministro, il consumo personale è depenalizzato dal 1975; le sanzioni amministrative sono blande; vuol forse togliere anche quella minima dissuasione? O magari plaude al raddoppio, insieme al ministro Turco, della quantità di cannabis consumabile senza paure? Un po’ di aritmetica, signori, raddoppiare il consumo vuol dire anche raddoppiare lo spaccio sul mercato. Non c’è mercato senza domanda, tutto ciò che toglie remora alla domanda asseconda il mercato. Se chiamiamo turpe quel mercato, allora siamo seri.
Educare significa anche dire dei “no”, mettere limiti. La parola “scoglio” vuol dire ostacolo, ma anche appiglio di salvataggio cui aggrapparsi quando le rapide ti portano via. Il limite, per la psicologia moderna, è essenziale per lo sviluppo della volontà: insegna l’approdo alla libertà non come destrutturato smarrimento in un deserto senza piste, ma come sentiero finalizzato a un traguardo di vita. Dal sentiero di vita dei nostri figli la droga va espulsa, non addomesticata.
«Avvenire» del 14 luglio 2006

Allarme cocaina e cannabis: raddoppiati i consumatori

Relazione al Parlamento - Nel 2005 sono state 603 le morti per overdose, le stesse dell’anno precedente. Aumentano i decessi tra gli over 35. Le regioni più a rischio Umbria e Lazio
di Pino Ciociola
Aumento record rispetto al 2001 Triplicati anche gli assuntori di allucinogeni e stimolanti
La droga è «un «fenomeno sociale dalle dimensioni di massa» e del quale «si è ridotta la percezione del grado di pericolosità». Così esordisce il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, presentando la "Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia 2005". Punto numero uno: «Aumenta l’uso di droghe illegali nella popolazione – si legge subito – nonostante l’uso di eroina e cocaina sia disapprovato e considerato rischioso».
Via con alcool e tabacco. I numeri confermano: «Si stima che oltre 2 milioni di italiani hanno fatto uso associato di più sostanze illegali nel 2005». E «ogni anno 29mila persone iniziano ad abusare di eroina e 9mila di cocaina». Tabacco e alcol sono le sostanze di "iniziazione" per la maggioranza dei consumatori di droghe. L’85% di chi fa uso di cocaina e il 74% di chi consuma eroina dichiara di aver cominciato con la cannabis, mentre il 75% dei consumatori di hascish e marijuana restano "fedeli" alla sostanza.
Complessivamente, raddoppiano i consumatori di cocaina e cannabis, diminuiscono gli utilizzatori di eroina e triplicano (dal 2001) coloro che fanno uso e di allucinogeni e stimolanti.
603 morti per overdose. Sono stati 603 i morti per overdose di nel 2005. Un numero che non si scosta da quello del 2004 (600 morti). E dal 1996 all’anno scorso non sono mai stati registrati decessi per overdose in ragazzi sotto i 15 anni (sebbene i 15/19enni rappresentano il 2-3% dei decessi per overdose). Aumentano le overdose mortali fra i consumatori over 35 (passando dal 22% circa al 53% del totale). La causa del decesso è stata attribuita in 254 casi all’eroina, in 43 alla cocaina, in 4 al metadone ed in un caso alle amfetamine, mentre nella metà dei casi la sostanza non è stata indicata. «Si muore per overdose prevalentemente nella propria abitazione». E le regioni dove si registra il più alto numero di morti per overdose «sono Umbria e Lazio», mentre risultano «Perugia e Roma le province «più a rischio».
S ervizi pubblici. Altra stima: «3 milioni e 800mila italiani hanno fatto uso di cannabis (erano stati 2 milioni nel 2001) e tra loro mezzo milione ha fra 19 e 21 anni». I soggetti che finiscono per avere bisogno di un intervento terapeutico «sono circa 200mila per gli oppiacei e 150mila per la cocaina». A proposito, «i consumatori di eroina – sottolinea la Relazione – arrivano ai Sert entro 5/6 anni da quando hanno attivato il consumo problematico, i consumatori di cocaina dopo 6/7 anni». Nel 2005 circa 300mila persone necessitavano di trattamento per abuso di droghe» E «più della metà lo hanno avuto presso i servizi».
Più metadone a mantenimento. Poco più di un terzo dei trattamenti erogati dai servizi pubblici per le tossicodipendenze «è esclusivamente psicosociale», il 29% è di tipo «farmacologico» e il restante è «un’integrazione fra i due». Il metadone si conferma «il trattamento farmacologico di elezione» e aumenta dal 2001 «il numero di trattamenti a mantenimento».
I "costi". Secondo la Relazione governativa, «pur mancando informazioni precise sulla tipologia degli interventi effettuati dalle strutture del privato sociale e un’articolazione dettagliata dei costi sostenuti dalle amministrazioni regionali, si stima che nel 2005 siano stati impegnati sulla rete dei servizi pubblici e privati circa 790 milioni di euro».
«Avvenire» del 14 luglio 2006

Datemi un'alba ancora. Il dottor Morte vuol vivere

Contraddizione che conferma l'istinto del cuore umano
di Marina Corradi
È ridotto a 50 chili di peso, può a stento stare in piedi e non ha più la forza di leggere o di scrivere, nella cella di prigione in cui è chiuso. Jack Kevorkian, l'uomo che i giornali di tutto il mondo chiamavano il "dottor Morte" per avere aiutato a morire 130 malati, a 78 anni e' ormai, dice il suo avvocato, "un cadavere che cammina". Eppure il medico, in un'intervista a un quotidiano di Detroit, dichiara che non chiederebbe, per se stesso, l'eutanasia. "Non sono mai stato un teorico del suicidio assistito, ho sempre affermato semplicemente il diritto di morire per chi, in condizioni di irrimediabile e insopportabile malattia terminale, lo domandi".
E tuttavia Kevorkian, che ora appare molto vicino a quelle condizioni che giudicava meritevoli di questa scelta, non vuole morire. Non vuole, benché inchiodato a un destino che i sostenitori dell'eutanasia riterrebbero intollerabile, perdere un solo giorno di vita - della sua vita penosa, chiuso da sette anni in una cella di un carcere nel Michigan e con una condanna ancora lunga da scontare per avere praticato l'eutanasia a un malato, la cui "dolce morte" fu trasmessa dalla Cbs in tutti gli States. Il dottor Morte, a quella sua vita ormai martoriata e prigioniera, non ha voglia di rinunciare. Il dottor Morte non si arrende: quattro volte ha chiesto, a causa delle sue condizioni, di essere rimesso in libertà, quattro volte quella libertà gli è stata negata dagli inflessibili tribunali americani. Una nuova occasione potrebbe presentarsi nel luglio del 2007 - ma non è detto che fra un anno il condannato sia vivo. E tuttavia quest'uomo ischeletrito, che impressiona chi lo incontra per la morte che sembra avere alle calcagna, questa volta non ha fretta: non crede, non gli sembra che la sua fatica a stare in piedi, a ingoiare un boccone, che il suo trascinarsi stentato siano così disperati da meritare una fine rapida, e un giorno di meno.
Oltre alla pietà per la sorte di chi ha frequentato per tutta la vita la morte - in una intimità che contraddice l'inimicizia istintiva fra gli uomini e la loro ultima ora - e che adesso, alle soglie degli ottant'anni, le si trova come incatenato, nessuno dei due disposto a cedere di un passo, viene davanti a questa storia da pensare a ciò che testimoniano i medici dei reparti dei malati terminali. E cioè che, contrariamente alla vulgata mediatica corrente, i pazienti più gravi, quando siano liberati dal dolore più aspro, non chiedono di morire, ma di vivere. Che, proprio sul limite estremo della morte, è l'istinto di vita che insorge, e domanda: ancora un mese, un giorno. Ancora la faccia di tuo figlio, vicina. Un'alba, ancora.
Misterioso destino di un uomo che ha preferito per gli altri, nel nome di ciò che chiamava pietà, e pur essendo un medico, dare la morte all'accompagnare a morire. Scoprire, a 78 anni e ridotto alle ossa, e al pensiero, che di vivere pure in questo modo, e solo, e in una cella - ciò che i suoi 130 pazienti non avrebbero forse sopportato - vale ancora la pena. Un uomo forte, deciso, capace per le sue idee di sfidare la legge e affrontare il carcere, piegato da cosa? Forse dalla esperienza nella propria carne, quella ineludibile che si prova davvero quando la vita in gioco, e il respiro, e la luce che non rivedrai, è la tua. Dopo una vita passata a corteggiare la morte, a darla, a condursela accanto, solo alla fine il dottore ha riconosciuto il volto vero della sua compagna. E ha detto no. Che non venga prima, che mi sia dato, in questa cella angusta, un po' di tempo. Per vivere. Per un'alba, ancora.
«Avvenire» del 15 luglio 2006

14 luglio 2006

Ecco come Gadda stroncava i grandi della letteratura

«Leopardi è superficiale, Carducci un incauto Solo Manzoni è originale, come Dostoevskij»
di Paolo Di Stefano
Difficile trovare qualcuno, nella letteratura italiana, tanto insoddisfatto della propria professione quanto l’ingegner Carlo Emilio Gadda. Appena laureatosi, nel ‘20, in ingegneria elettrotecnica al Politecnico, decide di iscriversi al terzo anno di Filosofia presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano. L’ictus philosophandi, già vivo dal tempo del liceo, diventa inarrestabile nel febbraio ‘24, quando Gadda torna dall’Argentina: è in questi mesi che comincia a seguire i corsi e a dare i primi esami. Con ottimi risultati. Si fa un’ossessione da quando si è aggiunto in lui l’«oscuro pensiero» che una laurea umanistica possa garantirgli un posto di bibliotecario, magari a Firenze. L’impresa arriverà vicinissima al compimento, ma alla fine è destinata a fallire. Nell’estate del ‘25 lo scrittore torna all’ingegneria, assunto all’Ammonia Casale di Roma. Sarà, questo, un periodo di intenso lavoro che lo costringerà ad abbandonare, almeno per il momento, i sogni di gloria universitari. Sogni testimoniati da 14 fogli autografi rimasti inediti e conservati nel Fondo Gadda della Biblioteca Trivulziana di Milano. Per fortuna, Gadda gode oggi del privilegio straordinario di una rivista, I quaderni dell’Ingegnere, completamente dedicata allo studio della sua opera, grazie alle cure di Dante Isella. Una rivista capace di centellinare ogni anno documenti preziosi come la tesi di laurea gaddiana (sull’amato Leibniz), che esce in questo quarto numero accompagnata, tra l’altro, dai 14 fogli di cui si diceva, datati maggio 1925, in cui Gadda stila una serie di Abbozzi di temi per tesi di laurea (a cura di Riccardo Stracuzzi). La prima parte è un resoconto autobiografico sulla genesi degli interessi letterari e al «fattore estetico» che ha dominato l’età giovanile avanzata, tra i 26 e i 27, manifestandosi in «componimenti e abbozzi di varia natura, in prosa o in versi, ma nessuna di queste prodezze è stata letta da altri che da me». Con preferenze di lettore «rivolte a quegli scrittori che si rivelano i più organici analisti, i più comprensivi espressori del mondo rappresentabile»: su tutti, il Manzoni, «rappresentatore organico (totale) di un ambiente, squisito indagatore dei fatti sociali nelle loro complesse mutazioni, affermatore di una volontà morale che deve guidarci nella vita». Poi: Dostoevskij, Corneille, l’Orlando furioso («Era il mio romanzo preferito quando avevo 15 anni. Che strano libro!»). È la curiosità a orientare le scelte di Gadda per la tesi, «salvo a mancarmi poi le forze necessarie per compiere il cammino e perfezionare una conclusione plausibile». Dunque, ecco una serie di «temi metodologici riguardanti la conoscenza del mondo, un po’metafisici nel senso vecchio»: a. tema dell’analisi quantitativa dei fenomeni; b. tema del lavoro minimo; c. tema della dialetticità necessaria del mondo; d. sulla teoria della relatività. Ed ecco i «temi quasi letterari». Sostanzialmente tre: I promessi sposi, il pensiero di Shakespeare con particolare attenzione all’Amleto, il Simbolismo. La passione di Gadda per Manzoni è testimoniata dal saggio Apologia manzoniana, che riflette sul rapporto tra etica e estetica in una sorta di identificazione con gli obiettivi perseguiti nei Promessi sposi. Ma in questi Abbozzi il punto molto interessante è anche un altro: che il pro Manzoni si traduce in una sorta di contra Carducci e di contra Leopardi. Più che raccontare in positivo le ragioni che lo spingono verso l’opera manzoniana, del resto già note, Gadda si concentra in negativo sull’autore delle Operette morali e sul poeta delle Odi barbare. «Il Carducci - scrive - afferma di aver letto i P. Sposi cinque volte, per aggiungere che la conclusione e il senso fondamentale del libro sono espressi nelle ultime parole di Renzo: che non bisogna uscir di casa, se non si vuol prendere il raffreddore. Oh, quanta maggior cautela sarebbe stata desiderabile da un uomo come il Carducci!». Un’opinione già formulata un anno prima, in un capitolo del Cahier d’études. Le obiezioni di Carducci a Manzoni, precisa ora Stracuzzi, avevano come obiettivi più o meno celati i due manzonisti Ferrari e Rovani.
È in questo contesto che entra in gioco Leopardi. Scriveva Carducci: «Il signor Rovani c’insegna che (...) Leopardi è un uomo che non si lamenta che per lamentarsi». Il parallelo gaddiano tra Manzoni e Leopardi, dunque, viene suggerito proprio, e contrario, dal Carducci, che Carlo Emilio lesse con passione nell’adolescenza ma da cui in età matura avrebbe preso le distanze («l’ideazione talora gli farfuglia»). Lo stesso parallelo che un anno prima era stato elaborato così nel Cahier: «Egli (il Manzoni n.d.r.) volle parlare da uomo agli uomini, ai miserabili uomini: ed ebbe a compagno nella fatica un altro grandissimo disgraziato conte suo coetaneo, molto macilento della persona. Anche costui rifiutò alfine la spazzatura della tronfia magniloquenza e la sua parola ha una nitidezza lunare: dolce e chiara è la notte». Negli Abbozzi i toni sul poeta recanatese cambiano (anche se Gadda ribadisce la sua stima per quel «meraviglioso e tragico espressore di stati d’animo dal punto di vista lirico-umano»). Leopardi «filosoficamente è un superficiale», la sua «personalità filosofica (se così può chiamarsi), quale appare dai 111 Pensieri (ufficiali) e dalle Operette morali, non è invero gran cosa». E prosegue l’Ingegnere: «Mi sembra che il Leopardi non superi mai, nelle sue opere ufficiali, un materialismo grossolanamente antropomorfico». Rincarando: «Egli vede l’uomo staccato dall’universo, nucleo isolato nelle mani del caso (Anànche, Giove, Dio, Destino, Numi, Nulla), che si balocca con lui come con un bamberòttolo. Talora non sembra credere a questo caso che letterariamente: tal’altra imbastisce contro questo goffo Dio o Nulla degli atti d’accusa che lasciano il tempo che trovano». Il «cosiddetto nichilismo» di Leopardi, nasconde, secondo Gadda, «incertezza e impotenza all’analisi» riducendosi a «mera tautologia». Come se non bastasse, il Bruto è «vuoto di contenuto filosofico». Conclusione affidata a un interrogativo retorico: «Come poteva questo Leopardi accostarsi al Manzoni dei P. Sposi, della quale opera è centro un pensiero caldamente sociale, una fede sociale? Lasciamo il fatto che il Manzoni sia cattolico, piuttosto che luterano o greco. Ma la sua opera dice qualche cosa». Sottinteso: quella di Leopardi no. Gli Abbozzi di temi per tesi di laurea, come si vede, sono di grande interesse. Nel maggio del ‘29 Gadda darà inizio alla stesura della sua dissertazione filosofica. Titolo: La teoria della conoscenza nei «Nuovi saggi» di G. W. Leibniz. I quaderni dell’Ingegnere la pubblicano ora sempre a cura di Riccardo Stracuzzi. Ma resterà incompiuta.
«Corriere della sera» dell’11 luglio 2006

Montale: l’amore senza coraggio

Non riuscì mai a spezzare il legame con Drusilla «la Mosca» per raggiungere Irma Brandeis a New York
di Silvio Ramat
Leggendo Montale per me o tentando di «spiegarlo» ad altri, avevo sempre pensato e proclamato le manchevolezze dei suoi umani amori: come se ogni volta la loro funzione fosse legata a un esito di poesia e perciò il valore di un sentimento si misurasse da quello dei versi che aveva saputo ispirare. Ma oggi, di fronte alle Lettere a Clizia, curate da Rosanna Bettarini (autrice anche dello splendido saggio introduttivo), Gloria Manghetti e Franco Zabagli (Mondadori, pagg. XLV-376, euro 25), non potrei confermarmi in quell’opinione, anzi la giudico superficiale e presuntuosa, visto il carico di ansioso dolore che grava su questo percorso a ostacoli, lungo il quale a un dato momento si registra la sconfitta: se non d’una passione, del disegno che l’ha tenuta in vita per anni.
Quale disegno, quali anni? Nell’estate del 1933 Montale, a Firenze, dirige il Gabinetto Vieusseux (goliardicamente ribattezzato «WC» nell’epistolario), e qui gli fa visita una graziosa borsista americana, Irma Brandeis, ammiratrice degli Ossi di seppia. Per entrambi è il colpo di fulmine, e poche settimane passate insieme bastano a far sì che, quando lei si reimbarca per gli Stati Uniti, all’inizio di settembre, il progetto di ricongiungersi appena possibile e for ever, di là o di qua dall’Oceano, sembra concreto. È l’argomento che pervade e giustifica, da allora e per oltre un quinquennio, lo scambio epistolare fra il poeta e colei che più tardi, ormai irrecuperabilmente remota, riceverà da Montale il mitologico, solare nome di Clizia. È doveroso che la raccolta di queste 155 lettere (del 1933-39, integrate da un postremo biglietto del giugno 1981: Montale morì poi in settembre) s’intitoli, appunto, A Clizia, giacché la sua persona si fa sùbito, virtualmente e di fatto - cioè nei versi -, anche personaggio. Sono per lei o meglio le appartengono quasi l’intero corpo dei Mottetti, nucleo del futuro (1939) libro de Le occasioni, e altre liriche: a cominciare da Costa San Giorgio (1933) non facile da sceverare nei suoi oggetti simbolici ma, secondo Montale - che, attingendo al proprio individuale patrimonio di poeta, nei primi tempi si firma «Arsenio» -, talmente connessa all’ardente avvio della loro storia da non poter risultare enigmatica all’intelligenza di Irma.
Come è quasi regola per i carteggi che lo coinvolgono, ci mancano le lettere a Montale. È fama ch’egli usasse distruggerle, o le smarrisse: di tutto incolpando traslochi, alluvioni e accidenti varî. Così, di Irma-Clizia ci rimane, acclusa all’odierno volume, un’unica lettera - del 21 febbraio 1935 - perché mai spedita: documento della sempre più drammatica temperatura di una relazione svoltasi quasi interamente per iscritto, dato che furono appena tre, e brevi, i soggiorni italiani di lei: nelle estati del 1933, del ’34 e del ’38.
Fin dal 1983 la Brandeis (1905-1990) aveva affidato ad Alessandro Bonsanti, per decenni direttore del Vieusseux, queste lettere: da conservare nell’Archivio fiorentino che oggi a Bonsanti s’intitola, col patto che venissero dissigillate e rese pubbliche dopo almeno venti anni. E adesso, a carte scoperte, il capitolo montaliano che ci si dischiude è complicato solo se badiamo alla proliferante aneddotica di cui, per divertire l’amata, Montale è prodigo, magari aiutandosi con qualche disegnino spiritoso. Sono episodî e raccontini (Irma, che ne scrive di suoi per il New Yorker, potrebbe all’occorrenza trarne spunto), con personaggi buffi e improbabili, in anticipo sul gusto che nel dopoguerra caratterizzerà le prose della Farfalla di Dinard; eventi per lo più banali a specchio della cerchia, letteraria e non, di una Firenze che Montale vive e rappresenta in un periodo di fascismo consolidato quanto grottesco e fatuo nelle sue manifestazioni.
Complicato, sì dunque, ma solo per la varietà delle comparse, l’organico delle lettere a Clizia; semplice, invece, e addirittura elementare nella sostanza, che si riduce a un dilemma: trovare o no il coraggio, per questo amore nuovo e meraviglioso, di dire addio all’altra donna, più anziana di lui, che da anni ha accolto il poeta nella propria casa. Del ruolo e della stessa esistenza di lei (Drusilla Tanzi, ossia «la Mosca», evocata post mortem negli Xenia, ma qui nel carteggio designata con una reticente, intimorita X) Montale tace con Irma fino all’estate del 1934. Dopo, non c’è più facoltà di allentare la stretta di quel nodo, e si capisce, poiché il gioco si svolge sopra un terreno infido, reso più infido dalle scenate ricattatorie: la Mosca minaccia di suicidarsi se lui andrà a vivere con Irma. Questo lo terrorizza e gl’impedisce di veder chiaro nel proprio domani, che in auspicio comporta un impiego a New York: idea accarezzata a più riprese ma con un fervore piuttosto pigro, inadeguato alla bisogna. Lui promette, fissa e di continuo rimanda le scadenze; cerca di farsi, se non compatire, giustificare da Irma per la lentezza - in verità è una stasi fatale - del processo liberatorio. Del vincolo che lo angustia dà anche un’interpretazione freudiana, dichiarandosi (marzo 1936) prigioniero di un complesso di Edipo che lo rende «vile e contraddittorio»; e nell’ottobre del ’38, ribadito che è sicuro di spezzare il laccio, sostiene di non odiare X, bensì di averla collocata al posto della propria madre. Ora, siccome le madri spesso divorano i figli, lui non vuol farsi ingoiare da lei!
Pressappoco una metà di queste lettere sono vergate in inglese. Un inglese «pessimo», che Montale tuttavia adopra perché «traduce meglio» i suoi «sentimenti», laddove - confessa - «quando ti scrivo in italiano mi trovo improvvisamente speechless. Mi pare di essere un altro e che tu pure sia un’altra». Quali sentimenti? Nessun vocabolo ha in queste lettere una frequenza pari a quella di «orrore» (e dei connessi «orribile», «orrendo»...), indice di un peggioramento irreversibile della condizione di Montale. Domandarsi se egli sapesse o no, in cuor suo e fin da principio, che la storia si sarebbe conclusa così malamente non ha gran senso; il lettore comincia a intuirlo abbastanza presto, ma solo verso l’epilogo - durante il 1938 - nelle reiterate dilazioni dell’ora zero dell’affrancamento avverte un segno più remissivo, come di chi, avendo calcolato il rapporto di forze tra sé e l’avversario, più non dubiti della propria inferiorità.
E malgrado vada in porto la non agevole pratica di staccarsi dal Vieusseux - si perde lo stipendio ma anche si rimuove uno dei due ingombri al volo felice tra le braccia di Clizia -, stanchezza e fatica man mano prevalgono, e quell’«orrore» che Montale sente in sé e di sé, della (e nella) propria esistenza è fomite a una disperazione che nessuna conferma alleggerisce, non, per esempio, questa (26 novembre 1938): «... tutto procede normalmente e ogni giorno che passa è un giorno di meno del tempo negativo della nostra separazione». All’altro capo del filo, anche se non ne possediamo i documenti espliciti, Clizia avrà capito da un pezzo l’antifona. Diminuisce, a questo punto, la voglia di descrivere le imprese dei fiorentini, stanziali o di passaggio, e poco spazio si riserva ai taglienti pareri su protagonisti e comprimarî di un mondo che gli occhi di Clizia avevano afferrato di scorcio.
Nel carteggio scorrono le trattorie, gli osti, le botteghe capaci di suscitare il ricordo... In anni di generalizzato ossequio al Duce («il Cardinale» nel cifrario del carteggio), v’è chi approva e s’adegua, come Ungaretti, e chi si sceglie una strada più defilata. In proposito, la tipologia è vasta, e d’altronde a Clizia piace che le si parli di Loria «monster of Lochness», o di Saba «con la sua testa pelata e la sua ossessione psicoanalitica»; di Moravia (bravo ma supponente e negato a intender la poesia), o di curiose coppie come i Praz e i Piovene; di Vittorini, di Bonsanti, dei simpatici Gadda e Palazzeschi... Irrompono fra gli altri due giovani fenomeni: il filologo poliglotta Contini e l’onnivoro Bazlen, mentre nell’area parentale spicca la figura della sorella Marianna, uccisa dal cancro nel 1938.
La lirica montaliana avrebbe dischiuso parecchi dei suoi segreti solo sul tardi, specie negli Altri versi, stampati davvero in extremis. Lì, accanto a Clizia, riemergono dalla memoria le amiche di lei e quella Pensione Annalena, in via Romana a Firenze, che le ospitò nel fatidico luglio del 1933. Avessimo anche le sue lettere, vorremmo ripercorrere questa relazione d’amore dalla parte di lei, di Clizia, sulla cui vita e opera di scrittrice e studiosa esistono pur testimonianze e ricerche molteplici. Tra di esse, due recenti monografie di Paolo De Caro, Journey to Irma e Irma politica, riferimenti obbligati nelle più che ottanta pagine di note che corredano il volume. Del modo in cui Montale seppe e riuscì ad amarla, queste lettere dicono sinceramente lo slancio e i limiti. «Ti scriverò sempre, se permetti. E ti abbraccio, ma con un orrore e una vergogna infinite. Non posso scrivere a mano perché le mani ballano il fandango», è il congedo che il «tutto tuo E.» pone alla penultima lettera (23 giugno ’39); poi nell'ultima, dell’11 dicembre ’39: «Io ti voglio più bene dei miei occhi e non so perché insisto a restar vivo: forse perché l’ho promesso a te? Tutto è troppo orribile». Più d’una di queste parole, cupe e sfiduciate, si trasferirà nelle liriche degli anni che s’approssimano, quelli 1940-43 di Finisterre: ma chi attraverso le lettere di Montale a Clizia segua il percorso di una passione autentica e sfortunata, non avrà certo come suo primo impulso quello di verificare la portata degli eventuali travasi dal registro epistolare al registro della poesia.
«Il Giornale» del 12 luglio 2006