07 luglio 2006

A che serve insegnare

di Guido Ceronetti

Mi ha, non molti giorni fa, colpito un breve articolo apparso su «Le Monde»: l’autore, Michael Smadja, è un giovane insegnante di filosofia in qualche istituto che non viene precisato.
Potrebbero essere tutti. Tutti i luoghi dove sussistono cattedre di filosofia. L’insegnante afferma con perfetta chiarezza, con una serena, dignitosa disperazione, l’impossibilità di insegnare, oggi, a dei ragazzi, la stravagante Cosa che Ellade e uno spessore di secoli hanno chiamato così, proprio, frutto del pensiero ragionante e per buona parte anche sognante: FILOSOFIA.
Gli insegnanti di filosofia, l’autore dice, «hanno la sensazione di dover affrontare un intero universo di ignoranza, di approssimazione e di non-senso, che si appoggia a un’ideologia generale della soggettività». E ancora: «Ciascuno di noi, a suo modo, compie uno sforzo pesantissimo per mantenere un livello elevato di esigenza, il cui continente di cultura di riferimento non può essere, dai nostri allievi, compreso. Dobbiamo, oltre che professare filosofia, anche difendere la cultura in generale, i libri, la storia, il senso stesso delle cose. Difendere tutto questo in opposizione a come va il mondo, all’ideologia individualista e materialista, alla seduzione irresistibile dei prodotti di divertimento, a tutti insomma i mezzi di comunicare, alla velocità della luce, il Nulla».
Opporsi al nulla, alla demenza che irrompe dove arretra o è assente il pensare, è il peccato capitale della filosofia, per le congreghe del Nulla. I sistemi scolastici più progrediti, i meglio come i peggio funzionanti, sono già in varia misura in loro potere. L’insegnante non contaminato trova il terreno occupato da qualcosa di soverchiante. Tutte le scuole organizzate in istituti si vanno a poco a poco configurando, adunata di arresi, come scuole, apparentemente libere, di suicidio mentale, vedo le loro pacifiche mani arrivare a toccare di nascosto i ramificati artigli delle scuole di terrorismo sacrificale. Quando sento parlare della funzione universitaria, di mera preparazione dei giovani in vista dei posti aziendali e professionali, mi pare incombente anche lì la nera sagoma di chi insegna a far scattare sul proprio corpo il dispositivo della strage suicida. Non sarai fatto a pezzi materialmente: lo sarai mentalmente, spiritualmente, e il tuo premio di paradiso sarà una rendita adeguata, l’illusione di muoverti senza manette sprofondato in un’oppressura disgregante, da cui non potrai più uscire. Il Nulla non è nei videogames e nelle discoteche: nel 1830 Georg Büchner scrisse, nella tragedia sulla morte di Danton: das Nichts, il Nulla «è il Dio che sta per nascere»... Quasi duecento anni dopo si può considerarlo universalmente cresciuto...
Com’è bravo e lucido, nel suo smarrimento, il giovane prof. Smadja! Ascoltiamolo: «Dal banco del professore di filosofia si osserva con angoscia una catastrofe lenta. Ogni senso sta scomparendo dal nostro mondo e noi, professori di filosofia, dobbiamo con tutte le nostre forze remare controcorrente. Ci tocca improvvisare uno spettacolo permanente per attrarre i nostri allievi e guidarli verso ciò che attraente non è. Niente di naturale è più nello stupore forzato che provochiamo: noi ci sforziamo di mostrare le contraddizioni di questo mondo a menti a tal punto impregnate di nichilismo che niente, di ciò che diciamo per contraddire, glielo può più scalfire».
È vero, ma se l’insegnante è innanzitutto filosofo per se stesso non troverà inesplicabile quanto gli succede e che lo impressiona dolorosamente: vedrà l’impero del Nichts, il Dio Tecnica heideggeriano nella sua onnipotenza, vedrà i confini del Nulla estendersi fino ai confini del mondo, e con la parola di un profeta, il lontano Isaia: «un Resto tornerà» si fabbricherà un’isola di rifugio.
La filosofia, sempre i suoi maestri l’hanno saputo, non è ugualitaria. In una classe di trenta allievi ce ne può essere uno segnato per accoglierla, o neppure quell’unico. I pochi esistono: certo non è facile scoprirli, radunarli. Dai molti, dai più, ricavi scherni. Neppure compunzione ipocrita, rispetto finto: rivolte, scherni, ostilità aperta... E di questo Michael Smadja è consapevole: accenna all’inevitabilità di riservare la filosofia ad una élite «come nel Medioevo», ai rari meritevoli di apprendere l’Inutile, di comprenderne la bellezza.
«La Stampa» del 29 giugno 2006

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