15 luglio 2006

Datemi un'alba ancora. Il dottor Morte vuol vivere

Contraddizione che conferma l'istinto del cuore umano
di Marina Corradi
È ridotto a 50 chili di peso, può a stento stare in piedi e non ha più la forza di leggere o di scrivere, nella cella di prigione in cui è chiuso. Jack Kevorkian, l'uomo che i giornali di tutto il mondo chiamavano il "dottor Morte" per avere aiutato a morire 130 malati, a 78 anni e' ormai, dice il suo avvocato, "un cadavere che cammina". Eppure il medico, in un'intervista a un quotidiano di Detroit, dichiara che non chiederebbe, per se stesso, l'eutanasia. "Non sono mai stato un teorico del suicidio assistito, ho sempre affermato semplicemente il diritto di morire per chi, in condizioni di irrimediabile e insopportabile malattia terminale, lo domandi".
E tuttavia Kevorkian, che ora appare molto vicino a quelle condizioni che giudicava meritevoli di questa scelta, non vuole morire. Non vuole, benché inchiodato a un destino che i sostenitori dell'eutanasia riterrebbero intollerabile, perdere un solo giorno di vita - della sua vita penosa, chiuso da sette anni in una cella di un carcere nel Michigan e con una condanna ancora lunga da scontare per avere praticato l'eutanasia a un malato, la cui "dolce morte" fu trasmessa dalla Cbs in tutti gli States. Il dottor Morte, a quella sua vita ormai martoriata e prigioniera, non ha voglia di rinunciare. Il dottor Morte non si arrende: quattro volte ha chiesto, a causa delle sue condizioni, di essere rimesso in libertà, quattro volte quella libertà gli è stata negata dagli inflessibili tribunali americani. Una nuova occasione potrebbe presentarsi nel luglio del 2007 - ma non è detto che fra un anno il condannato sia vivo. E tuttavia quest'uomo ischeletrito, che impressiona chi lo incontra per la morte che sembra avere alle calcagna, questa volta non ha fretta: non crede, non gli sembra che la sua fatica a stare in piedi, a ingoiare un boccone, che il suo trascinarsi stentato siano così disperati da meritare una fine rapida, e un giorno di meno.
Oltre alla pietà per la sorte di chi ha frequentato per tutta la vita la morte - in una intimità che contraddice l'inimicizia istintiva fra gli uomini e la loro ultima ora - e che adesso, alle soglie degli ottant'anni, le si trova come incatenato, nessuno dei due disposto a cedere di un passo, viene davanti a questa storia da pensare a ciò che testimoniano i medici dei reparti dei malati terminali. E cioè che, contrariamente alla vulgata mediatica corrente, i pazienti più gravi, quando siano liberati dal dolore più aspro, non chiedono di morire, ma di vivere. Che, proprio sul limite estremo della morte, è l'istinto di vita che insorge, e domanda: ancora un mese, un giorno. Ancora la faccia di tuo figlio, vicina. Un'alba, ancora.
Misterioso destino di un uomo che ha preferito per gli altri, nel nome di ciò che chiamava pietà, e pur essendo un medico, dare la morte all'accompagnare a morire. Scoprire, a 78 anni e ridotto alle ossa, e al pensiero, che di vivere pure in questo modo, e solo, e in una cella - ciò che i suoi 130 pazienti non avrebbero forse sopportato - vale ancora la pena. Un uomo forte, deciso, capace per le sue idee di sfidare la legge e affrontare il carcere, piegato da cosa? Forse dalla esperienza nella propria carne, quella ineludibile che si prova davvero quando la vita in gioco, e il respiro, e la luce che non rivedrai, è la tua. Dopo una vita passata a corteggiare la morte, a darla, a condursela accanto, solo alla fine il dottore ha riconosciuto il volto vero della sua compagna. E ha detto no. Che non venga prima, che mi sia dato, in questa cella angusta, un po' di tempo. Per vivere. Per un'alba, ancora.
«Avvenire» del 15 luglio 2006

Nessun commento: