07 luglio 2006

L'etica dei salvatori

Lo storico Tzvetan Todorov indaga la radice del bene fatto dai «giusti». E scopre che la virtù non è altro che un gesto naturale
di Tzvetan Todorov
«Ogni virtuoso che salvò ebrei dai nazisti ripete: "Non sono un eroe,hanno bussato alla mia porta e io ho aperto"»
La morale ha a che fare col bene e col male. Ma che cos'è la morale? Piuttosto che da definizioni, vorrei partire da alcuni ricordi che, me ne accorgo, alimentano le mie reazioni. L'istanza più pura del male è, per me come per tanti altri, la sofferenza dei bambini. Conosciamo le parole appassionate di Ivan Karamazov su questo argomento che servono da introduzione al suo "poema" sul Grande Inquisitore. Ivan sceglie di parlare dei bambini per dimostrare che esiste una sofferenza che nulla può giustificare. Racconta tre aneddoti che riguardano il suo Paese, la Russia. Un uomo «istruito e di un ambiente sociale illuminato» frusta la figlia di sette anni per godere, così sembra, del piacere di torturarla; la bambina grida: «Babbo, babbo, babbino!». Un uomo e sua moglie picchiano e maltrattano la loro bambina di cinque anni, la notte la rinchiudono nel bagno, le spalmano sulla faccia i suoi escrementi e la costringono a mangiarli. Un generale che vive in campagna si infuria contro un ragazzetto di otto anni che ha ferito uno dei suoi cani; lancia la sua muta contro di lui; i cani lo fanno a pezzi sotto gli occhi della madre. A prescindere dal piacere sadico dei torturatori, una cosa conta più di ogni altra agli occhi di Ivan: questa sofferenza allo stato puro di esseri umani che non hanno ancora peccato non può essere controbilanciata da alcun riscatto possibile, sia esso «tutto l'universo della conoscenza», oppure «la suprema armonia», o ancora la felicità del genere umano. Fatti del genere servono a Ivan Karamazov, e ad altri dopo di lui, per contestare se non l'esistenza di Dio almeno la Sua giustizia. Ma ci offrono anche la misura pratica del male: è "male" tutto ciò che assomiglia a quelle sofferenze. Esse sono estreme, è vero, e questo eccesso, questa somma di orrori può anche risultare di cattivo gusto; ma Ivan le vuole così: ai fini della sua dimostrazione, egli sceglie espressamente il fatto più eclatante, il più inconfutabile. Qui l'estremo racconta un 'ordinaria verità, rende evidente ciò che altrove poteva rimanere discutibile. E bisogna dargli atto che, oltre una certa soglia, i dettagli della sofferenza non contano più. Ma, nella nostra vita privata, anche tali gesti sono diventati rari; possiamo servirci ancora della stessa misura? Ogni genitore fa soffrire talvolta i propri bambini, d'accordo, ma non li tortura. Probabilmente, qui è necessario fare ricorso a un'altra distinzione. Certe sofferenze che vengono inflitte ai bambini, anche prescindendo da differenze significative di grado, si ritengono necessarie per il loro bene; altrimenti non imparerebbero a mangiare, a vestirsi o a starsene tranquilli. Questa giustificazione svanisce, però, quando si infligge al bambino una sofferenza non per il suo bene ma per il proprio. Ed è esattamente questo il senso degli esempi riportati da Dostoevskij. Facendo soffrire gli altri si afferma la propria sovranità assoluta; e questo diventa motivo di un profondo godimento. Sotto il profilo morale, non è la stessa cosa far soffrire qualcuno per risparmiargli una sofferenza più grande, oppure farlo per assicurare a se stessi un maggiore benessere interiore. La mia idea di bene è legata, mi imbarazza ammetterlo, all'immagine di mia madre che, non ho dubbi, ha determinato la mia idea di bene. Mia madre ha trascorso la sua vita a occuparsi degli altri. Non praticava la carità, questo no; ma, dopo che una malattia l'aveva costretta a lasciare il suo lavoro, si era interamente dedicata al suo prossimo: ai figli, al marito, a una sorella nubile e abbastanza anticonformista, ad alcuni amici (evidentemente, questo è un esempio che non si applica alle donne di oggi, ma non è l'aspetto sociologico che qui mi interessa). Non l'ho mai vista fare un'azione che fosse minimamente egoistica. Ma questo suo impegno costante non si accompagnava con ciò che, tanto spesso, ne avvelena i frutti: non dava l'impressione di una persona che si sacrifica e che si aspetta che qualcuno se ne accorga p er raccogliere più tardi i frutti del suo operato. Il suo piacere sembrava dipendere da quello degli altri, mentre non ne provava alcuno a occuparsi di se stessa; era felice solo quando riusciva a contribuire alla felicità degli altri. Non portava mai se stessa come esempio, e non l'ho mai sentita fare agli altri un'osservazione "morale" o una "considerazione"; non faceva prediche. Ma è possibile che il suo comportamento non avesse, a sua volta, niente di morale? L'atto morale non è forse quello che si compie vincendo le proprie inclinazioni per conformarsi al dovere, e non per trovarvi un piacere? «Il dovere - dice Kant - è una costrizione in vista di un fine che non è voluto di buon grado». Penso che se a mia madre fosse stato chiesto se si considerava un essere morale o virtuoso ("una santa") lei avrebbe risposto di no. È la stessa reazione che abitualmente hanno i "salvatori", quegli esseri virtuosi che, durante la Seconda guerra mondiale, si sono consacrati alla salvezza dei perseguitati, in particolare degli ebrei, escludendo ogni altra forma di resistenza. Quando, molto tempo dopo, storici e sociologi colmi di ammirazione hanno chiesto loro perché avessero agito così, rischiando la loro vita e quella dei propri cari per salvare degli sconosciuti, hanno risposto invariabilmente: non potevo fare altrimenti, tutto è venuto da sé, del resto non ho fatto niente di straordinario, non ho alcun merito, è la cosa più naturale del mondo, hanno bussato alla mia porta e io l'ho aperta. Detestano essere considerati eroi o santi. Dato che quelle azioni erano per loro "naturali", dato che le facevano senza sforzi sovrumani, dato che procuravano loro gioia, bisogna allora concludere che essi mancavano di virtù? Un tale uso della parola "virtù" sarebbe molto strano. I salvatori compivano atti di volontà senza tuttavia andare contro la loro natura: agivano "di buon grado".
«Avvenire» del 30 giugno 2006

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