01 agosto 2006

L’arte fa bene anche se kitsch

di Gillo Dorfles

Qualche tempo fa un interessante convegno - promosso dalle Università di Udine e Trieste, e organizzato dalla Biblioteca di Udine e dal suo alacre direttore Romano Vecchiet - aveva scelto come tema da dibattere Il consumo dell’arte, vertendo soprattutto sullo spinoso problema del turismo culturale. Molti dei partecipanti, tuttavia, non si erano certo resi conto dell’ambiguità insita nello stesso tema proposto. Consumo dell’arte: inteso come utilizzazione, impiego, bisogno crescente della stessa? O non piuttosto come consumarsi, esaurirsi, entropizzarsi dell’arte in generale e in particolar modo di quella contemporanea? Come si vede il termine «consumo» presenta due connotazioni molto diverse che nel caso dell’arte meritano entrambe d’essere indagate; non solo, ma che entrano in gioco anche in tutto l’ambito della cultura e della società. Mi ero interessato a questo problema già a partire da un mio antico testo degli anni Sessanta, Simbolo comunicazione consumo, nel quale consideravo per l’appunto questi tre termini come una sorta di trinità socioculturale del nostro tempo. Ora ho visto con piacere riemergere alcuni di questi quesiti in un agile e denso volumetto di Mauro Ferraresi, La società del consumo. Lessico della postmodernità (Carocci), che lega i problemi del consumo soprattutto a quelli del postmoderno. Ovvia la parentela tra i due settori: giacché è proprio il rapido avvicendarsi dei periodi di modernità che ci insegna come - con la fine del secondo millennio - il consumo, in ogni campo (scientifico come estetico e prima di tutto tecnico e tecnologico) sia più rapido e incessante. Basterebbe sfogliare una rivista di moda, ma anche di architettura o di medicina, ma addirittura analizzare i termini impiegati nel linguaggio corrente per rendersene conto. Se, peraltro, questo tipo di consumo, in quanto obsolescenza linguistica, è tipico del momento che attraversiamo e forse persino preoccupante, quello che mi sembra meno negativo è il consumo in quanto «bisogno» di arte. Non credo, infatti, che esistano altre epoche storiche in cui si sia verificata una analoga «fame di arte». Magari di arte deteriore (quella tanto celebrata sotto l’etichetta di kitsch); eppure è indubbio che il processo di estetizzazione generalizzata: dalla pubblicità all’arredo urbano, dallo spot televisivo, allo sport è indiscutibilmente aumentato e aumenta di giorno in giorno; come accade del resto per l’uso della musica a tutti i livelli della sua «somministrazione» pubblica e privata, dal walkman alla radio, dalla canzonetta alla discoteca. Naturalmente la mediocrità di queste espressioni artistiche costituisce spesso l’altro lato della medaglia ed è proprio qui che s’annida il germe - o il virus - del postmoderno; fenomeno che ebbe già la sua istituzionalizzazione, per quanto si riferisce all’architettura, nel celebre testo di Charles Jencks (The Language of Post-Modern Architecture). Anche per Frederic Jameson - citato da Ferraresi - una delle caratteristiche della cultura del consumo che giustifica il sorgere del postmoderno è «il fatto che la realtà sembra trasformarsi in immagini» in maniera che non si riesce più a porre distinzioni nette tra realtà e finzione. «Le immagini producono una sorta di overlap sulla realtà» il che la riavvicina al concetto di simulacro avanzato già da Baudrillard. Ne deriva un trionfo anche in arte del simulacro e del pastiche, nonché una «protesizzazione del tempo» dovuta alla meccanizzazione e elettronizzazione di molte creazioni artistiche. Non ho citato che alcune delle analisi riassunte dall’autore e tralascio altresì di citare alcune delle ipotesi alquanto apocalittiche di Slavoj Zizek; mi piace, comunque, di ricordare almeno la posizione molto rigorosa di Giampaolo Fabris, che constata il sorgere di nuove categorie di consumatori che «sostituiscono al vecchio binomio reddito-prezzo i concetti di linguaggio e di comunicazione», non solo, ma che sottolinea la «continua promiscuità tra virtuale e reale sia nel tempo che nello spazio». Il che ha un’ovvia influenza sull’evoluzione o l’involuzione di molte forme artistiche recenti. Sicché, in definitiva dobbiamo certamente fare i conti col consumo che ci tiene strettamente avvinghiati e che molto spesso deforma anche ogni nostra volontà di reagire; ma dobbiamo, per contro, evitare di retrocedere verso antichi miti cercando invece di raggiungere una modernità - e non una postmodernità - che dia nuovo potere all’immaginazione e, perché no, alla «immaginazione al potere».
«Corriere della sera» del 27 luglio 2006

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