24 settembre 2006

Diari volgari a scuola, la rivolta delle mamme

Un mercato milionario, dominato dalle mode e dalla ricerca di citazioni a effetto
Per i più offensivi si è arrivati alla richiesta di ritirare la pubblicazione
Di Cristina Nadotti
Parolacce e frasi choc, fioccano le denunce

Il diario più alla moda è quello che già nella copertina incita: «Inganna il tempo e truffa il prof». Quello che, oltre alle interviste alle star e fumetti di cartoonist di tutto rispetto (Altan, Bill Watterson e Bud Grace tra gli altri) alle ragazze che vogliono conquistare il compagno di banco suggerisce: «Per farlo ingelosire siediti, in sua presenza, sulle ginocchia del bidello più anziano» e a chi vuole insultare il proprio nemico offre una selezione di 20 frasi, tra le quali «Ti strappo la carotide e ti ci frusto». I genitori soccombono di fronte alle insistenze dei figli e comprano diari come questo, ma si lamentano: ne denunciano la volgarità, si rivolgono alla Procura della Repubblica e scrivono ai giornali (lo ha fatto una mamma la cui lettera è stata pubblicata ieri su Repubblica) per raccontare la loro resa di fronte ai figli, che senza quel diario si sentirebbero "diversi".
Più che scandalizzarsi per i contenuti volgari, nello sfogliare i diari in commercio si riflette sull´apoteosi del cattivo gusto e sul trionfo del conformismo. Quando i diari erano firmati dai fumettisti c´erano le strisce a fondo pagina e i contenuti li mettevano gli studenti. Si ricopiavano testi di canzoni e frasi preferite e si stava attenti che il diario non finisse nelle mani del compagno grafomane, che imbrattava le pagine spaziando dalle biografie dei calciatori alle poesie dialettali. Il diario era uno spazio creativo, mentre ora tutto è già scritto, preconfezionato, ci sono pubblicità e parole scelte da altri. Il linguaggio è quello della televisione e non a caso il più venduto, "Comix", cita a piene mani dai comici più noti.
"De puta madre 69" è il diario della griffe colombiana: all´interno nessun insulto (in fin dei conti la traduzione è «Sto alla grande») solo il marchio di successo ripetuto più volte. Inquieta di più ciò che si trova dentro "Baci e abbracci" (moda italiana), dove si inneggia all´happy hour e si stigmatizza: «Se durante l´happy hour bevi solo acqua vuol dire che hai sbagliato ingresso». Però poi sono frasi da film e da soap opera, del tipo «Ragione e passione sono timone e vela delle anime vaganti». "Pickwick", "Lonsdale", "Puerco Espin", ripetono il cliché del più venduto, con le frasi prese qui e là, poi ci sono i diari che lasciano la parola agli studenti, come "La pecora nera", dove si ripete la frase «Ama con tutto il corpo, testa compresa».
Gli autori di "Piccolatomopaco", diario edito da Panini Scuola, danno una chiave di lettura autoironica per il loro lavoro: «È un´opera concepita e sviluppata da tre cretini in una stanza, con la mente rivolta con leggerezza alla vita e alla scuola».
«La Repubblica» del 20 settembre 2006

22 settembre 2006

Un italiano su due non vuol saperne di leggere

di Caterina Soffici
«Sempre in questi bellissimi convegni a dirsi sempre le stesse cose». Ironizza Luca Cordero di Montezemolo, presidente degli industriali italiani, invitato a dire la sua in un convito dal nome altisonante, gli Stati generali dell’Editoria, luogo dove si dibatte di come un Paese che vende più libri è più competitivo di uno che non ne vende. I dati, sebbene abbastanza scontati, vanno oltre ogni più grigia previsione. Se la Calabria avesse avuto negli Anni Settanta il tasso di lettura della Liguria, oggi avrebbe una produttività del lavoro di 50 punti maggiore. Perché, cifre alla mano, gli editori dimostrano che «la cultura vale oro» (secondo una ricerca sul ritorno economico della lettura a firma di Antonello Scorci e Edoardo Gaffeo).
Si parla di come incentivare la lettura in Italia e anche qui c’è un leitmotiv, di anno in anno e di convegno in convegno: l’Italia è il fanalino di coda in Europa. Si scopre per esempio che il 57,7 per cento degli italiani non ha letto neppure un libro nel 2005 e che soltanto il 45,8 per cento dei dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dichiara di averne letto almeno uno (siamo a oltre 35-40 punti percentuali da Francia e Germania). Oppure che solo l’11,9 per cento dei giovani in cerca di prima occupazione legge libri per migliorare la propria preparazione professionale e quindi le chance di trovare un posto. E se facciamo un confronto sulle spese degli italiani il concetto è ancora più chiaro: un italiano spende 64,95 euro l’anno per acquistare libri di ogni genere e in ogni canale (inclusi quelli scolastici), cifra che equivale a una cena in trattoria per due, contro i 208,75 euro l’anno di un norvegese.
Quindi? Quindi gli editori si ritrovano ogni tanto e si lamentano e si interrogano sul che fare per aumentare gli indici di lettura in Italia. Gian Arturo Ferrari, vicepresidente dell’Aie, legge altri dati: l’Italia è il sesto mercato del libro al mondo, ma è tra i Paesi dove la lettura è più debole. Il problema non è solo vendere i libri, ma anche farli leggere a chi li compra. Tra le cifre più interessanti quelle relative alla lettura dei bambini e dei ragazzi (non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare che saranno i lettori del futuro): il mercato italiano di questo settore è un quarto di quello francese. Il che vuol dire che i ragazzini italiani non leggono. E questo forse è uno dei dati peggiori fra i tanti snocciolati in una giornata di interventi che ha visto alternarsi editori, politici ed esperti di economia. Alla fine della fiera, gli editori chiedono al governo un impegno concreto. Ferrari lancia una «Campagna nazionale per la lettura», sul modello della britannica National Reading Compaign, un trust finanziato in parte con fondi statali, in parte attraverso fund raising. Gli editori, insieme ai librai, si impegnano a cacciare i soldi a patto che anche lo Stato metta mano al portafoglio. In Italia la spesa pubblica per incentivare la lettura è pari a zero, contro i 20 milioni di euro dell’Inghilterra, gli 8 della Spagna e i 12 della Francia. «Sugli obiettivi non si trova mai nessuno che non sia d’accordo», dice il presidente dell’Aie, Federico Motta.
I rappresentanti del governo presenti rispondono ovviamente che faranno di tutto e di più (prima per bocca del ministro Fabio Mussi, poi del sottosegretario con delega all’editoria Ricardo Franco Levi: già 10 milioni di euro sono pronti). Vedremo. Intanto, nel nostro piccolo, suggeriamo una campagna televisiva con testimonial d’eccezione: Valentino Rossi, Mara Carfagna, Elisabetta Gregoraci e Silvio Muccino. Se l’ha fatto Rino Gattuso per Panorama, perché non provare con loro?
«Il Giornale» del 22 settembre 2006

Buzzati: «La Terza pagina va cancellata. Meno politica e più foto sexy»

di Giangiacomo Schiavi
C’è un giornale segreto di Dino Buzzati, un Corriere mai nato sepolto da imbarazzi e silenzi. Spunta tra le carte di un vecchio collega, è bello, moderno, un «popolare» di classe. Ha le sue regole, i suoi codici da rispettare: sintesi come legge sovrana, grandi foto in prima pagina, una sola tecnica di scrittura, il nudo implacabile racconto dei fatti. Si ispira al Corriere d’Informazione, l’edizione del pomeriggio del Corriere della Sera, ma Buzzati annuncia una sfida: «L’Informazione sarà fatta come se il Corriere del mattino non esistesse. In più gli farà concorrenza». È un botto, nel Corriere in tight degli anni Cinquanta che Mario Missiroli, il direttore, guida con un occhio alla politica e l’altro alla gerenza, cercando di non scontentare nessuno. Buzzati è una firma nobile, Il deserto dei tartari è alle spalle, in via Solferino passa con disinvoltura da un elzeviro a un titolo a un menabò. Crede nel genere popolare, quello applicato dall’amico Gaetano Afeltra, proprio all’Informazione. Nel ‘54 gli chiedono suggerimenti, qualche idea nuova per fronteggiare la concorrenza della Notte di Nino Nutrizio, scatenata con i suoi scoop e le pagelle ai cinema di Milano. Invece di un’idea, Buzzati butta giù un progetto, un piano editoriale, le linee guida per «un giornale come non si è mai visto né in Italia né all’estero», i criteri per l’autonomia redazionale, l’organigramma con Vittorio Gorresio o Enrico Mattei al politico di Roma. In quindici cartelle, con molte sottolineature e poche correzioni, elenca le cose da fare. Primo: niente più «pastone» politico da Roma, il frullato di chiacchiere sulla giornata parlamentare «con tortuosi e retorici legamenti» che nessuno legge. Secondo: stop ai luoghi comuni, alle frasi fatte, alle ambigue citazioni fatte per sottintesi, «scrivere un giornale dell’estrema sinistra per non dire l’Unità è ridicolo». Terzo: foto e disegni saranno adottati su larghissima scala come mezzo d’informazione, «quando ci sono importanti fotografie d’attualità pubblicarle anche a nove colonne». Quarto: «La Terza pagina quale si fa adesso cesserà di esistere», perché bisogna combattere i settimanali illustrati con le loro stesse armi. Quinto: il giornale si chiamerà Pomeriggio, vecchia testata in uso al Corriere fino alla fine della Seconda guerra mondiale. «Basta con la vecchia orribile testata Corriere d’Informazione, nome stupido di per se stesso che non è mai riuscito a diventare popolare o simpatico». Anticipa il giornalismo moderno, Buzzati, quello dei settimanali che guardano Life e Paris Match. Vuole un giornale di facile leggibilità, un po’come la televisione: dove non arriva la parola c’è l’immagine e viceversa. Somiglia all’inglese Daily Express, tanta cronaca, poca politica, qualche ragazza appena appena sexy, fatti e fattacci di nera, eroi buoni in prima pagina. Ma non abbandona lo stile Corriere: «Si potrà avere qualche spregiudicatezza, senza però cadere nel genere frivolo o leggero». Nella stagione di Lascia o raddoppia?, del frigorifero a rate e della Seicento Fiat, c’è un’Italia che cambia. Buzzati la vede; il Corriere aspetta. Il suo rapporto è bocciato. Sparisce in qualche cassetto della direzione. Viene dimenticato. Quando, parecchi anni dopo, il collega Luigi Ferdinando Chiarelli diventato caporedattore dell’Informazione gliene chiede una copia, Buzzati si sorprende. È il 1961. Sono passati sette anni. Molte delle cose scritte si sono realizzate. È arrivato anche il Giorno, nel 1956, ad aprire la finestra dalla quale Buzzati aveva gettato il vecchiume e gli orpelli di un giornalismo old style, superato. Lo stesso Corriere sta voltando pagina. Così, Buzzati lascia un appunto sincero: «Caro Chiarelli, eccoti il mio vecchio memorandum. Rileggendolo oggi mi sembra così poco rivoluzionario che mi domando perché mai allora spaventò tutti quanti». Perché venne bocciato, che cosa spaventò di più l’establishment del Corriere? La fine del pastone o quello della Terza? Entrambi, forse. E la paura di scontrarsi con politici e collaboratori. Rompere un delicato equilibrio interno, anche solo per il quotidiano del pomeriggio, era una curva troppo stretta per Missiroli. Perché se al posto del vecchio insaccato di dichiarazioni politiche Buzzati chiedeva «un servizio di cronaca vivo, ricco di aneddoti, episodi, annotazioni umane», per la Terza, che conosceva meglio, era ancor più drastico: «Niente più pezzi di colore, di varietà turistica, di viaggi fine a se stessi. Bisogna far sparire il morto mosaico di pezzi generici, coloristici, letterari, che oggi nessuno legge con servizi ampiamente illustrati su fatti di attualità, anche di cronaca; rievocazioni; pezzi scientifici; pezzi sportivi. Qualche racconto se veramente bello. Cronache teatrali ampiamente e intelligentemente illustrate». Con un’avvertenza finale: «Come principio base, in Terza pagina bisognerebbe pubblicare soltanto pezzi ordinati. E non rimettersi all’iniziativa del collaboratore, raramente positiva». La storia darà ragione a Buzzati. Il suo era un buon servizio per il Corriere. Ma il Pomeriggio resta un appuntamento con l’impossibile. Cinquant’anni dopo esce dall’oblio, ma nessuno lo farà più.

BIOGRAFIA Dino Buzzati nasce a Belluno nel 1906 e muore a Milano nel 1972. Giornalista al Corriere della Sera, è autore di drammi, romanzi, racconti e libri che lui stesso illustrava, come Poema a fumetti. Tra le sue opere: Barnabò delle montagne, Il segreto del Bosco vecchio, Il deserto dei tartari, Paura alla Scala, Sessanta racconti (con cui vince il Premio Strega nel ‘58) e Un amore .
La lettera
Non ho l’età per un rotocalco, ora scrivo libri
Di Lorenzo Viganò

I fogli sono tre, scritti a mano, con la sua grafia ordinata, «da putei». Tre fogli pieni di cancellature, aggiunte, spostamenti di frase, come sono in genere le minute delle lettere sofferte, lavorate a lungo prima di arrivare alla forma definitiva. È il 20 maggio 1957 quando Dino Buzzati scrive una di queste lettere ad Andrea Rizzoli, allora alla guida della casa editrice milanese insieme con il padre Angelo. È una lettera difficile, delicata, nella quale l’autore del Deserto dei Tartari deve declinare l’invito ad assumere la direzione di un nuovo settimanale che l’editore ha intenzione di varare sull’onda del grande successo registrato in quel periodo dai rotocalchi nazionali. Nonostante abbia già al suo attivo L’Europeo e Oggi, Rizzoli vuole infatti dar vita a un periodico popolare in grado di fare concorrenza a Tempo, a Epoca, all’Espresso, nato due anni prima e, soprattutto, alla Domenica del Corriere, che dopo un periodo di crisi stava tornando agli antichi splendori. La lettera, riemersa dopo quasi cinquant’anni dalle carte personali dello scrittore, oltre a svelare un episodio poco noto, accende una luce sull’uomo-Buzzati, in una sorta di autoritratto privato. Dino Buzzati ci ha pensato «lungamente su» e dopo, «con la sincerità che è mia abitudine», articola la risposta in quattro punti in odine crescente di importanza, cominciando dalla componente di rischio che un tale progetto comporterebbe. «Impostare, varare e pilotare sui combattuti oceani del rotocalco un settimanale nuovo è non solo un lavoraccio ma un impegno di responsabilità assorbente e preoccupante». La sua convinzione nasce da un’esperienza diretta. Nel 1957 Dino Buzzati, ormai firma illustre del quotidiano di via Solferino, si occupa infatti anche della Domenica del Corriere, che sette anni prima la famiglia Crespi, su consiglio di Gaetano Afeltra, gli aveva affidato perché ne frenasse la caduta libera (tremila copie perse a settimana). Buzzati ha la qualifica di vicedirettore (qualifica ufficiosa, il suo nome non compare nel colophon), ma in realtà è lui a confezionare il giornale, perché il direttore designato, Eligio Possenti, non se ne occupa. Dunque, sa bene quale impegno richieda la gestione di un settimanale, a maggior ragione se da creare ex novo. I risultati ottenuti nei sette anni trascorsi, durante i quali Buzzati ha trasformato la Domenica svecchiandone la grafica, inventando nuove rubriche, formando una squadra di collaboratori eccellenti tra cui Orio Vergani e Indro Montanelli (che su quelle pagine inaugura la sua carriera di storico), riportandola a settimanale più letto, sono stati il frutto di un lavoro che lo ha impegnato a fondo. Ricominciare da zero, quindi, è una prospettiva che lo spaventa e per la seconda volta (l’anno prima gli era stata offerta la direzione dell’Europeo) rimane dov’è. Anche perché andare significherebbe staccarsi da via Solferino e la cosa gli «costerebbe moltissimo». «Io sono entrato al Corriere nel lontano 1928, posso quindi dire di aver passato qui tutta la mia vita. Sono cose che contano». C’è in queste poche righe tutta la storia del rapporto di Dino Buzzati con il quotidiano milanese. Un rapporto professionale, ma soprattutto «sentimentale», che lo porterà a restargli fedele fino alla morte. Se in quel legame, così viscerale, profondo, quasi di dipendenza, l’orgoglio di appartenere a una casta conta, non è però l’unica ragione. Buzzati era un uomo da Corriere ancora prima di entrarci: per l’educazione ricevuta, per il suo stile di stampo ottocentesco, persino per il modo di vestire, di parlare - sempre sottovoce -. E tradire quella che ha sempre sentito come la propria casa significherebbe tradire se stesso. Senza contare il fatto che accettare la proposta di Andrea Rizzoli, influirebbe sulla sua attività di scrittore. «Io ho già 50 anni suonati e tempo buono per scrivere non me ne rimane molto. Solo che io dedichi 4-5 interi anni come minimo al nostro nuovo settimanale accantonando necessariamente i vari progetti di capolavori; dopo, non sarà troppo tardi?». Nonostante Buzzati ironizzi su se stesso e i suoi «capolavori», è innegabile che sia ormai uno scrittore affermato (nel ‘58 vincerà lo Strega), con molti progetti avviati e in cantiere. Da lì in avanti usciranno Un amore, Poema a fumetti, I miracoli di Val Morel, che forse, conoscendo Buzzati, avrebbero comunque visto la luce. Quel che lo preoccupa non è tanto la mole di lavoro, quanto i problemi e le ansie che un nuovo progetto si porterebbe appresso, togliendogli la serenità che gli permette, tornato a casa dal giornale, di mettersi a scrivere. «Adesso, per la verità», confessa nella lettera, «il lavoro al Corriere, mi lascia dormire notti tranquille». È però la quarta ragione a sgombrare definitivamente il campo da qualsiasi dubbio, mostrando l’aspetto più buzzatiano di Buzzati. «Lasciare la Domenica del Corriere per andare a fondare un settimanale che le farebbe diretta concorrenza non mi sembrerebbe elegante (se non addirittura scorretto). Come se durante una battaglia navale, direttore del tiro di una corazzata, passassi per incanto a comandare la corazzata nemica che sta per aprirle contro il fuoco». Accanto alla amata metafora militare, così ricorrente nei sui scritti, emerge da queste ultime parole la fedeltà, il profondo senso etico che sta dietro ogni sua scelta. Nonostante sia innegabile che si debba a lui il ritrovato successo della Domenica, Buzzati continua a lavorare nell’ombra. Chi potrebbe muovere obiezioni se se ne andasse? Invece no, Buzzati rimane, nonostante sappia che in casa Rizzoli troverebbe «moralmente e materialmente, le condizioni più desiderabili».
«Corriere della sera» del 19 settembre 2006

Usa, manager-docenti all'università. Le aziende decidono corsi e indirizzi

L'Ibm promuove Scienza dei servizi, al debutto in una ventina di campus La Bmw dietro a un centro di ricerca. I critici: così si svendono gli atenei
di Massimo Gaggi

NEW YORK — In America, nell'anno accademico appena iniziato, debutta una nuova disciplina: la Scienza dei servizi. Una ventina di università — tra esse Stanford, Georgia Tech, Arizona State e la University of California di Berkeley — hanno introdotto nei curricula corsi e programmi di ricerca nella cosiddetta Ssme, sigla che sta per Scienza dei servizi, management e ingegneria. Un'innovazione fortemente voluta dalle grandi imprese delle tecnologie avanzate e, soprattutto, dalla Ibm, che ha sensibilizzato per anni l'ambiente accademico e ha studiato questo approccio scientifico nei suoi laboratori. Una novità che — sempre per effetto di una «scintilla» Ibm — sta arrivando anche in Italia: la prossima settimana l'Università di Pavia inaugurerà il primo corso in Scienza dei servizi, sarà una delle nuove lauree specialistiche della sua facoltà di Ingegneria. Negli Usa anche altre aziende tecnologiche — come Hewlett Packard, Oracle e Accenture o, in campo finanziario, Credit Suisse — sono attivissime nel promuovere nuovi indirizzi accademici nel campo dell'informatica e dei servizi. E in South Carolina, dove ha i suoi stabilimenti americani, il gruppo automobilistico tedesco Bmw è impegnato con la Clemson University allo sviluppo — e anche alla gestione — di un modernissimo Centro ricerche automobilistiche: l'unico polo universitario di eccellenza in questo campo negli Stati del «Mezzogiorno» americano. Lo stretto legame tra industria e università negli Stati Uniti non è certo una novità. Insieme a Stato e Chiesa, sono stati gli imprenditori, nell'Ottocento, a promuovere i grandi atenei: Stanford è stata fondata dall'omonimo magnate delle ferrovie, l'Università di Chicago si è imposta grazie ai fondi del petroliere John Rockefeller, mentre l'industriale delle comunicazioni Ezra Cornell ha creato il primo nucleo dei centri accademici che portano tuttora il suo nome. La collaborazione tra accademie e industrie è stata di nuovo molto intensa nel Dopoguerra; in genere, però, ha riguardato soprattutto la gestione comune di singoli programmi di ricerca applicata, oltre alla «sponsorizzazione», da parte delle imprese, di cattedre già esistenti. Ma ora nelle accademie americane si assiste a qualcosa di nuovo: la nascita di corsi che sono non solo sostenuti, ma anche promossi — e in parte disegnati — dalle imprese.
A Clemson la Bmw partecipa alla definizione del programma accademico mentre la scelta dei docenti del Centro ricerche viene fatta dall'ateneo, ma è sottoposta alla valutazione della Casa automobilistica. E il Wall Street Journal ha raccontato che qualche giorno fa, a Raleigh, la lezione inaugurale del corso di Services Management dell'università del North Carolina è stata tenuta non da un docente ma da un manager della Ibm, un gruppo un tempo specializzato nella produzione «manifatturiera» dei computer che ormai trae più della metà dei suoi ricavi (48 miliardi di dollari su un fatturato complessivo che nel 2005 è stato di 91 miliardi) dai nuovi servizi alle imprese: dai sistemi di archiviazione, alla riorganizzazione degli uffici, alle attività di consulenza. Buona parte del mondo accademico considera coinvolgimenti come questi una inaccettabile «invasione di campo», ma le imprese giurano di non voler snaturare l'università: cercano solo di aiutarla ad adeguare la formazione dei nuovi professionisti alla realtà di un mondo che sta cambiando molto più rapidamente di quanto non venga avvertito negli atenei. La computer science, nata qualche decennio fa sull'onda del «boom» dell'informatica, faticò ad imporsi come disciplina universitaria. E molti docenti tendono tuttora a considerare le materie insegnate nelle business scho ols delle loro stesse università un «fritto misto» di aneddoti e di storie di successi aziendali, privo di un vero valore scientifico. Non c'è quindi da stupirsi che anche oggi siano in molti a dubitare che le nuove specializzazioni nel campo dei servizi meritino di essere considerate una scienza a sé. Dubbi leciti, ma è anche vero che negli ultimi anni le economie avanzate si sono spostate sempre più verso l'area dei servizi, nel sostanziale disinteresse dell'accademia (oltre che della politica). Gli Usa — dove già oggi il 75% dell'economia e l'83% dei nuovi posti di lavoro vengono dai servizi — fanno, come al solito, da battistrada.
Nel 2012, cioè domani, in America solo un nuovo posto di lavoro su 10 verrà dall'industria o dall'agricoltura. Le imprese che producono servizi si sono convinte che questa è un'area di studio troppo a lungo trascurata: se nei servizi venissero introdotte metodologie analoghe a quelle che hanno fatto aumentare a tappe forzate la produttività dell'industria, interi settori — a partire dalla sanità — potrebbero offrire prestazioni più tempestive e a costi più bassi. È una convinzione che non appartiene solo alle imprese: «È tempo di promuovere una rivoluzione nei servizi», dice Mattew Realff, direttore del nuovo programma della National Science Foundation, un organismo federale che cerca di aprire un varco su questo fronte. E quello di rafforzare i legami tra le università e le imprese — chiamate ad assumere i laureati sfornati da questi istituti — è uno degli obiettivi prioritari che si è data la Commissione sul futuro dell'istruzione superiore nominata da Margaret Spellings, il ministro di Bush responsabile per la scuola. Jennifer Washburn, analista del centro studi progressista New America Foundation, e autrice di University Inc., libro-denuncia nel quale accusa gli atenei di aver venduto la loro indipendenza alle «corporation», è convinta che i nuovi programmi elaborati col contributo delle imprese siano un altro passo verso il baratro. Anno dopo anno, la Washburn ha portato in superficie una serie di casi nei quali la libertà data alle università di sfruttare i risultati delle ricerche sul piano commerciale ha portato ad abusi: docenti che si sono impadroniti dei risultati del lavoro scientifico di studenti assai brillanti o interventi «censori» di imprese che hanno chiesto alle università di non pubblicare i risultati di ricerche condotte col loro aiuto per non offrire un vantaggio «gratuito» ai loro concorrenti. I casi più delicati si sono verificati in campo farmaceutico: le industrie spesso hanno finanziato le ricerche, salvo poi cercare di influenzare le conclusioni redatte da accademici autorevoli, chiamati a giudicare l'efficacia e il livello di tossicità di questo o quel medicinale.
Il più incendiario tra gli oppositori di questo trend è il vecchio Ralph Nader: l'ultracontestatore, paladino dei consumatori e degli ambientalisti, che ha tentato per ben tre volte la corsa alla Casa Bianca. Per lui le corporation sono il male assoluto, una fonte di corruzione della società da bloccare ad ogni costo. L'ultima campagna l'ha condotta qualche mese fa contro l'alleanza stretta dalla Northwestern University con Boeing e Ford. Posizioni così radicali restano una minoranza. La forza e la rapidità dello sviluppo economico spingono inevitabilmente le università verso le imprese: sta avvenendo quasi ovunque nel mondo, dalle università cinesi a quella di Tel Aviv. Portare la logica del mercato nell'insegnamento accademico espone al rischio di abusi, ma rende anche gli atenei molto più dinamici e concreti nei loro progetti. Per molti il fatto che quasi tutti i campus americani abbiano uffici che si occupano dello sfruttamento dei brevetti derivati da ricerche interne e che l'impegno prevalente di presidi e presidenti delle accademie sia ormai di tipo finanziario, più che didattico, è fonte inesauribile di «mal di pancia ». Ma non si può certo parlare di università colonizzata. Chi teme lo strapotere delle multinazionali dovrebbe ricordare che due ragazzini, geni della matematica, sono riusciti a costruire in pochi anni il gigante Google proprio grazie alla legge che consente ad atenei, docenti e studenti di sfruttare il risultato delle loro ricerche. Page e Brin non solo hanno creato la macchina anti Microsoft, ma l'hanno anche realizzata grazie, almeno in parte, alla stessa azienda fondata da Bill Gates: il suo nucleo è stato, infatti, costruito in un edifico donato a Stanford proprio dalla Microsoft.
«Corriere della sera» del 20 settembre 2006

L’introvabile islam moderato

Fondamentalismo e libertà d’opinione
di Angelo Panebianco
Se alcuni, nel mondo islamico, si dichiarano soddisfatti delle precisazioni del Papa sul suo discorso di Ratisbona, altri pretendono scuse, e molti altri continuano a mostrare i muscoli con manifestazioni di violenza e minacce di morte. Commentando la vicenda, Vittorio Messori, sul Corriere di ieri, ha scritto cose condivisibili ma ha anche peccato di ottimismo. Messori ha ragione quando dice che la frase estrapolata dal discorso del Papa è stata solo un pretesto per incendiare le piazze islamiche. Come furono un pretesto le vignette su Maometto. In entrambi i casi l’estremismo islamico si è mobilitato per provare la propria capacità di egemonia sul mondo musulmano, mostrare quanto esso sia forte e, per converso, quanto debole e spaventato sia l’Occidente. All’epoca delle vignette l’Europa ha subito la più clamorosa aggressione alla libertà d’espressione dal tempo dei totalitarismi trionfanti e, in sostanza, la vicenda si è conclusa con la vittoria dell’aggressore. L’Europa ha tacitamente accettato che la libertà di satira, d’ora in poi, valga per tutto tranne che per l’islam, di fronte al quale, pare, l’autocensura è doverosa. Ora ci riprovano con un obiettivo più ambizioso: colpire il cuore religioso dell’Occidente, costringerci ad accettare che neppure il Papa sia più libero di riflettere ad alta voce sulla specificità del cristianesimo o su ciò che lo differenzia dall’islam. Dove Messori pecca forse di ottimismo è nel credere che non si ripeterà fra gli europei, credenti compresi, quanto accadde a suo tempo col marxismo. Se l’Europa flirtò con quel giudeo-cristianesimo secolarizzato che era il marxismo, non potrà farlo, pensa Messori, col fondamentalismo islamico. Per la sua incompatibilità con il pensiero «politicamente corretto» da noi egemone. Temo si sbagli. Non solo perché ci sono diversi europei che già flirtano con l’estremismo islamico, consapevoli di condividere con esso i nemici principali, Stati Uniti e Israele. Niente predispone alla solidarietà più della condivisione del nemico. Ma soprattutto perché l’Europa ha paura, è spaventata a morte, e la paura spinge più di qualunque altro sentimento a blandire il prepotente, a dargli ragione per tenerlo buono. Oriana Fallaci parlava di Eurabia. Basta guardare a tante reazioni occidentali al discorso del Papa per capire che Eurabia, forse, è già tra noi. Non parlo tanto dei teologi improvvisati che hanno spiegato a Ratzinger cosa sia davvero il cristianesimo (anche nelle situazioni più tragiche l’uomo è in grado di dare vita a siparietti di irresistibile comicità). Parlo dei tantissimi che hanno accusato il Papa di non essersi censurato. Guardandosi intorno, sembra condivisibile il pessimismo di Bernard Lewis che prevede un’Europa sconfitta e sottomessa. C’è un rapporto fra la paura europea e la capacità di egemonia che l’islam politico, l’islam che usa la religione per fini politici, sa esercitare, nei momenti di crisi, sul mondo musulmano. Una egemonia così forte da rendere flebili, quasi inesistenti, le voci musulmane ragionevoli. Le implicazioni politiche sono tante e gli statisti sono tenuti a saperlo. Il premier italiano Romano Prodi, per esempio, ha annunciato che incontrerà a New York il presidente iraniano Ahmadinejad, in ragione del ruolo che l’Iran svolge in Medio Oriente. È lecito invitarlo alla prudenza nei rapporti con un regime che vuole distruggere Israele e che è in prima linea (con Al Qaeda) nell’aizzare le masse islamiche contro il Papa?
«Corriere della sera» del 19 settembre 2006

19 settembre 2006

Montale: la quinta stagione

A venticinque anni dalla morte escono cinquanta nuove poesie: un ritratto diverso del Premio Nobel
di Dario Fertilio
Pessimista e nemico di ogni certezza: così il poeta si congedò dall’esistenza
La quinta stagione di Eugenio Montale, l’ultima e inedita, ritorna a noi dopo un quarto di secolo. Rivive attraverso poesie amare, pessimistiche, tentate addirittura dal nichilismo; eppure, al tempo stesso, animate dal sentimento giocoso dell’autoironia, quasi dal desiderio di concedersi un ultimo sorriso prima di congedarsi dalle debolezze del mondo. È un libro curato da Renzo Cremante, direttore del Centro manoscritti dell’università di Pavia, a restituirci questi scritti dimenticati, scartati o perduti del Premio Nobel per la letteratura del 1975. Ne emerge, come in un videoclip di cui si fosse ignorata l’esistenza, l’immagine del poeta senex, il letterato che ha già ottenuto tutto dalla vita (anche gli onori della politica con il titolo di senatore a vita, nel ‘67) e che però, giunto agli ottant’anni, guarda senza più entusiasmi né certezze allo scorrere degli eventi. Ma tutto questo avviene giorno per giorno, con partecipazione attenta, per lo più attraverso la lettura del Corriere, commentando le scoperte scientifiche e gli scandali, le novità artistiche e le risibili pretese ideologiche delle varie "chiese" (cattolica, marxista, freudiana eccetera). Il libro, che uscirà in ottobre per Mondadori e che porta anche la firma di Gianfranca Lavezzi, deve il titolo La casa di Olgiate alla più lunga poesia della raccolta, l’unica che risalga al ‘63, scritta dunque quando la vecchiaia era ancora lontana, e notevole soprattutto perché vi compare una misteriosa donna, evocata dal "tu", che farà certamente discutere i critici montaliani per l’indeterminatezza della sua identità. Ma il senso complessivo del nuovo materiale poetico, giunto a Pavia per volontà di Gina Tiossi (la donna che gli rimase più vicina negli ultimi anni) è quello di delineare, come sottolinea Renzo Cremante, la «quinta stagione» del poeta. «Dopo il primo tempo degli Ossi di seppia, i due seguenti delle Occasioni e della Bufera, dopo l’intervallo di silenzio che precedette il quarto, cioè la stagione diaristica e "comica" di Satura, qui ci addentriamo - sottolinea Cremante - in un terreno parzialmente diverso. Da queste pagine ci viene incontro un poeta vecchio, concentrato su testi brevi, epigrammatici; un uomo che segue la cronaca e le vicende contemporanee e su queste innesta le grandi domande supreme, le interrogazioni perpetue, una specie di suo dialogo personale con la fine del mondo». Come si può vedere anche dalle tre poesie che pubblichiamo in questa pagina, l’ultima stagione di Montale si svolge sotto il segno della «incompiutezza». «Nel senso che non si preoccupava della loro perfezione formale - spiega Cremante - spesso offrendo spunti e temi capaci di avere sviluppi diversi, ma che qui finiscono con il conseguire una loro autonomia, fino a trasformarsi in qualcosa di più che semplici varianti. La stringatezza esteriore non toglieva nulla alla serietà dei temi: lo scetticismo di fronte alle grandi scoperte scientifiche, un pessimismo radicale sull’avvenire, la coscienza della sua solitudine personale di fronte al mondo». Non che Montale, in questi suoi ultimi anni, facesse vita di eremita: la casa di via Bigli era frequentata da letterati e amici, e ogni tanto c’erano i brevi soggiorni in Versilia a Forte dei Marmi (proprio a una di queste circostanze, richiamata dalla «camera d’affitto» e dalla lettura del Corriere, si riferisce una delle poesie presenti in questa pagina). Certo però il suo scetticismo individualistico lo teneva lontano dai grandi miti collettivi: «In questi versi si conferma un liberale agnostico, senza concessioni e senza certezze», commenta Renzo Cremante. È questo dunque il filo che collega la divertita raffigurazione dell’universo come «un sigaro avana/ che si fuma da sè/ ma sul piattino resta la cenere»; l’idea del nostro mondo simile a uno dei tanti buchi neri disseminati nello spazio (anche se aggiunge: «io credo che il più nero/ sia abitato da noi»); l’ironia sull’arte d’avanguardia a buon mercato («Si può essere celebri/ bruciacchiando un asciugamano/ con un accendisigari o altro»); lo sberleffo alla scienza, accomunata alla teologia, all’astrologia «e altre balle». Il pessimismo, dunque, radicale e applicato per primo a se stesso. «Eppure proprio la libertà dagli scrupoli formali - commenta Cremante - consente al Montale di quest’ultima stagione il ritorno ai suoi privati fantasmi del passato: Mosca, la moglie scomparsa, e anche Clizia». Il «nuovo Montale», dunque, è antico e più che mai fedele a se stesso: anche dove la debolezza rende incerta, e a tratti incomprensibile, la sua scrittura. «A contatto con la cronaca sembrano scorrere lentissime, interminabili, le giornate del poeta - conclude Cremante - eppure ogni particolare qui trova il suo posto». Come se, sottraendo il superfluo, questi versi estremi ci restituissero i temi più autentici, la trama profonda della sua anima.
«Corriere della sera» dell’8 settembre 2006

Scuola «egiziana» a Milano? Ecco perché sono contro

di Samir Khalil Samir
Recentemente si è parlato del progetto di aprire a Milano una «Scuola Egiziana». Vorrei, in quanto egiziano-italiano, riflettere su tre punti relativi a questo fatto.
Primo, scuola egiziana. Né araba né coranica. Questo perché il programma previsto seguirebbe l'ordinamento didattico egiziano, che non è identico a quello dei 22 Paesi arabi: la scuola saudita di Roma per esempio ha un programma che nessun arabo che si rispetta vorrebbe per i suoi figli, mentre il programma delle scuole libanesi è molto più esigente di quelle egiziane, sia per la lingua e la cultura araba sia per le altre materie. Quanto alle cosiddette «materie nazionali» (storia e geografia), ogni Paese arabo dà un insegnamento diverso e più particolareggiato. Non esiste infatti «un» Paese arabo, come non esiste un Paese europeo; esistono dei Paesi arabi, come esistono dei Paesi europei. L'aggettivo «arabo» esprime una cultura, non una realtà politica o religiosa.
Il fatto che «l'ordinamento scolastico egiziano sia riconosciuto da tutti i Paesi arabi» (come ho letto su un quotidiano italiano) certamente non indica nulla sulla sua qualità, come il fatto che l'ordinamento scolastico italiano sia riconosciuto da tutti i Paesi europei non indica né che sia buono né che sia cattivo. Purtroppo, il nostro sistema educativo egiziano e i nostri programmi scolastici sono tra i meno buoni del mondo arabo. E questo anche per motivi sociologici.
Posso dire la mia esperienza personale: negli anni Settanta sono stato incaricato dal Partito Socialista Arabo, responsabile allora dell'alfabetizzazione in Egitto, di organizzare i corsi d'alfabetizzazione per la regione est del Cairo, creando una decina di scuole serali: la mia sorpresa è stata di scoprire che più del 50% degli iscritti per imparare a leggere e scrivere erano... alunni delle scuole regolari, che avevano già compiuto da 3 a 5 anni di scuola. Da allora, la situazione è peggiorata: si stima che l'analfabetismo reale in Egitto, oggi, supera il 50% della popolazione (le cifre ufficiali danno il 34%).
Secondo, scuola d'ispirazione islamica. Si afferma che questa scuola non sarà «neppure una scuola di ispirazione religiosa come una scuola cattolica o ebraica».In realtà, chi ha praticato la scuola egiziana sa che tutto il sistema è più che ispirato dall'islam, tende a formare dei musulmani tradizionalisti e assai chiusi. Quanto a dire che «è previsto anche l'insegnamento di altre religioni, se richiesto da studenti non musulmani», la cosa fa sorridere. Da una parte, quanti saranno gli studenti non musulmani a seguire tale scuola egiziana? E sarebbe irragionevole insegnare l'ebraismo o l'induismo per un numero tanto esiguo di alunni! Ma più ancora, perché non si dice «se richiesto da studenti musulmani»? Come se si escludesse il diritto fondamentale di ogni studente di scegliere l'insegnamento religioso che vuole.
A me sembrerebbe più utile dare a questi studenti la possibilità di conoscere un po' seriamente, oltre all'islam, la religione che è alla base della cultura occidentale, cioè il cristianesimo, soprattutto se dovessero vivere domani in Egitto (non dico «tornare» perché la maggioranza di loro è probabilmente nata in Italia). Sarà l'unica chance per loro di capire un po' questa civiltà che invade il mondo (e l'Egitto), non per condannarla, ma per giudicarla.
Infine, scuola per stranieri? Si tratterebbe dunque di una scuola egiziana, come esistono delle scuole americane, francesi, eccetera. C'è però una differenza sociologica importante. Se non sbaglio, la maggioranza di chi frequenta queste scuole «occidentali» sono ragazzi di passaggio in Italia, che torneranno nei Paesi rispettivi quando i genitori avranno finito il loro incarico all'estero. Invece, la maggioranza di chi frequenterebbe la scuola egiziana sono ragazzi che rimarranno in Italia. Ed è questo il punto. Il rischio - ed è reale - è la ghettizzazione dei figli da parte dei genitori. È ragionevole correre questo rischio? E se si corre, sarà ancora possibile chiudere questa scuola come si è dovuto fare per quella di via Quaranta, una volta «sperimentata» per chissà quanti anni? Non si griderà poi al fanatismo o al razzismo?
A me, in quanto egiziano-italiano, sembra più utile per i nostri ragazzi egiziani-italiani - che in maggioranza rimarranno in Italia anche se andranno ogni anno in vacanza in Egitto - aiutarli a essere culturalmente il più integrati possibile, se vogliamo la loro felicità. E nello stesso tempo aiutare i loro genitori a capire la motivazione pratica di questa scelta, lontani da tutte le ragioni ideologiche.
«Avvenire» del 12 settembre 2006

Gulag: gli schiavi dell’economia cinese

di Pier Mario Fasanotti

In un libro la denuncia di un ex deportato: in Cina ci sono ancora mille «Lagoai», lager di lavoro forzato con sei milioni di prigionieri, tra dissidenti o semplici criminali

Dietro quella muraglia c’è un grande Paese che stupisce e che, dice chi sa, è destinato a contare sempre di più nel mondo. Però, dietro quella muraglia c'è anche il più deplorevole degli inganni: l’umiliazione dell'uomo ridotto a schiavo, lo schiaffo bruciante e quotidiano al diritto di pensare liberamente. È in base a questi inganni che la Cina sta per compiere, per dirla con Mao Zedong, «il grande balzo in avanti», stavolta sulla scena mondiale. La sua economia fa così paura che attrae frotte di diplomatici dell'economia, seguaci della tattica secondo cui al nemico conviene offrire contratti, relazioni proficuamente amichevoli.

Ma dietro quella muraglia ci sono milioni di schiavi-prigionieri che, per dissenso politico o semplice «mugugno», per criminalità ma spesso per altro, vengono rinchiusi nei Laogai. Termine che è l'equivalente di gulag sovietico o campo di concentramento nazista. Certe cose si sanno poco o si intuiscono soltanto. La Cina si avvale di veri e propri black-out dell'informazione, anche telematici. La muraglia è fatta di pietre del silenzio, sulle fondamenta della segretezza burocratica. Una piccola casa editrice di Napoli, «L'ancora del mediterraneo», sta per fare uscire un libro che rivela, nei minimi e macabri particolari, l'esistenza di questo esercito di non-persone. S'intitola appunto Laogai (146 pagine, 15 euro). L’autore è Hongda Harry Wu, un cinese che ha vissuto ben diciannove anni in un laogai e ne conosce i perversi meccanismi. Risiede ora in America, dopo essere riuscito a tornare nel paese natale e ad aggiungere informazioni di prima mano a quelle dolorosamente e personalmente raccolte.

Non tanto una smentita quanto un’educata (la memoria archivistica è sempre storicamente educata) e liberissima risata rivolta a coloro che ancora oggi, senza nemmeno un imbarazzo sornione, dicono che tutto sommato Mao Zedong è stato una brava persona, addirittura un condottiero della storia che ha affrancato un enorme paese dalla schiavitù. Rossana Rossanda sul Manifesto ha scritto: «Ha fatto per il 70 per cento le cose giuste e per il 30 le cose sbagliate», riprendendo un vecchio adagio cinese. Schiavitù, si diceva. Ci vuole un bella impudenza ad accennare all'affrancamento e a dimenticare i morti per carestia o per tortura (con 10mila esecuzioni l'anno, la Cina detiene un lugubre primato). Il signor Wu scrive d'essere certo di una cosa: attualmente in Cina esistono almeno mille campi di lavoro e che sono estremamente attivi nel sostenere l'economia nazionale. Se in Germania i campi avevano come finalità l'eliminazione fisica dei nemici (ebrei, zingari e dissidenti politici), se nell'Unione Sovietica (a partire dal 1917, grazie a Lenin) i gulag servivano a rinchiudere i nemici della rivoluzione, i laogai cinesi assommano queste due finalità (la morte è conseguenza, diciamo così, indiretta) a un’altra, quella di produrre beni a costi che in certi casi sono del 70 per cento inferiori a quelli, già bassi, della manodopera locale.

La condanna del cinese criminale o che solo «mugugna» non ha un riscontro giuridico. Innanzitutto per chi viene reso schiavo non ci può essere un appello. Lo scopo è quello della rieducazione, che però non finisce mai in quanto il lavoratore-schiavo fa troppo comodo al sistema. Parlare di leggi sarebbe oltretutto ridicolo, visto che la Repubblica Popolare Cinese, ricorda Wu, «è ancora priva delle più elementari basi del diritto». I campi cinesi sono strutturati secondo tre distinzioni: laogai, cioè il lavoro correzionale penitenziario, il laojiao ovvero la rieducazione attraverso il lavoro, e il jiuye ossia la destinazione professionale obbligatoria. Le linee guida di Mao e di Deng sono la naturale appendice di quanto dichiarava Lenin: «La dittatura si basa sulla forza e non ammette restrizioni di legge».

Ci sono processi, sia pure farseschi? Assolutamente no. E i reclusi hanno avuto buon gioco ad aumentare inquantoché la delazione era ed è sempre premiata, non importa se non abbia un riscontro oggettivo. Chi denuncia è un eroe e basta. Alla ferocia diffusa della dittatura maoista è succeduta «la riforma» di Deng. L'accettazione del sistema para-capitalistico (in realtà sfruttamento) ha in un certo senso modernizzato i laogai, rendendoli barbaricamente più efficienti. Deng ha decretato che ogni distaccamento diventasse responsabile delle perdite e dei profitti. Una devolution del terrore. È la polizia che organizza lo smistamento. Poi ogni laogai si nasconde dietro il paravento di una scritta qualsiasi: di azienda, di miniera e così via. Mimetismo perfetto.

La domanda è: quanti? Hongda Harry Wu scrive che «la stima più prudente comprende trenta, quaranta milioni di persone arrestate e condannate in 40 anni». E oggi? Il numero totale dovrebbe aggirarsi tra i quattro e i sei milioni. Tutti sono definiti criminali in base al dogma marxista secondo cui il crimine è frutto dell'individualismo. E questo va represso nelle forme anche più brutali. Chi delinque è capitalista. Detenuti come forza-lavoro. Le varie disposizioni economico-politiche del Politburo cinese prevedeva in bilancio le entrate che provenivano dal lavoro coatto. Molti prodotti esportati in Occidente escono dai campi. Wu cita il vino Dynasty, frutto della joint venture franco-cinese a Tianjin, messo in vendita dalla ditta Nan Yang di Palo Alto. Oppure il tè nero Yingten, prodotto dal campo di riforma provinciale numero 7 di Xinsheng, venduto in California. La ditta francese Remy Martin fece autocritica nel 1990: sì, sapeva dell'esistenza del lavoro forzato nelle vigne, e aggiunse che i cinesi nell'86 fecero un passo indietro forse perché avevano trovato «una miglior fonte di lavoro».

«Il Giornale» del 12 settembre 2006

Basta Lady Diana, la storia è degli sconosciuti

Jon McGregor: i destini della gente qualsiasi sono il vero romanzo
Di Ranieri Polese

Si può veramente ricostruire il passato, scoprire come sono andate davvero le cose? Il quesito non riguarda solo gli storici di professione, oggi impegnati a discutere fra le diverse opzioni di macro-storia e micro-storia (detto brutalmente: i grandi avvenimenti o il vissuto quotidiano di persone comuni, i documenti o la tradizione orale), ma anche gli scrittori. Che si confrontano con la faticosa raccolta di tracce, segni, prove in grado di spiegare la vita dei loro personaggi, reali o immaginari. William Safran Foer, in Ogni cosa è illuminata, aveva raccontato, romanzandola, la ricerca delle radici della sua famiglia, spingendosi da New York fino in Ucraina. Ora, Vikram Seth, in Due vite, compie uno sforzo analogo per descrivere le esistenze straordinarie dei suoi zii, il dentista Shanti e la moglie Henny, indiano laureato nella Berlino anni Trenta lui, ebrea tedesca riparata a Londra nel ' 39 lei. Lettere, fotografie, note e appunti aiutano molto, ma a volte bastano anche oggetti qualsiasi, biglietti di treno, scatole di sigarette, bottoni, cartoline sbiadite. Il protagonista di Safran Foer, del resto, collezionava e catalogava tutto quello che gli capitava, esponendolo in buste di plastica appese a una grande parete vuota. Qualcosa del genere fa anche David Carter, il personaggio principale di Diversi modi per ricominciare, secondo romanzo di Jon McGregor uscito a luglio in Inghilterra e in questi giorni in Italia (da Neri Pozza). Ossessionato dai resti del passato, Carter fin da bambino aspira a costruire un museo proprio. Vivendo a Coventry, la città rasa al suolo dalle bombe tedesche, diventerà curatore del museo locale, interessato a sentire «la presenza fisica della storia», sia quella maggiore che quella di gente senza importanza. Quando, adulto, scopre di essere stato adottato e non generato dai suoi genitori, Carter decide di rintracciare le sue origini: così si mette sulle tracce di una ragazza irlandese che dopo il parto l' aveva lasciato in un ospedale di Londra dove sua madre faceva l' infermiera. Alla fine la troverà, ma Storia maggiore e storie minori. Già il primo romanzo di Jon McGregor, Se nessuno parla di cose meravigliose (sempre Neri Pozza), proponeva questo dilemma. Raccontava la vita di gente qualunque in una strada di periferia di una qualsiasi città inglese (forse Nottingham, dove McGregor vive) il 31 agosto del 1997: era il giorno della morte di Lady Diana, notizia che riempì giornali e tv di tutto il mondo. Ma lo stesso giorno, un ragazzo viene ucciso in quella strada, e nessuno se ne occupa. «In una prima stesura parlavo espressamente della morte di Lady Diana - ci dice McGregor - poi ho tolto ogni riferimento esplicito, lasciando solo la data». Però c' era già la riflessione su macro e microstoria. «In un certo senso sì: conoscevo il dibattito in corso fra gli storici, ma avevo anche voglia di scrivere un romanzo. E ormai i romanzi non si fanno più su personaggi famosi, celebri, ma su persone qualunque, le cui vite solo raramente vengono sfiorate dagli avvenimenti della storia cosiddetta maggiore». I critici che avevano accolto con grandi elogi il primo romanzo di McGregor (nel 2002 fu selezionato per il Booker Prize) citarono Virginia Woolf che in Mrs Dalloway voleva narrare «la vita dei lunedì, o dei martedì». Insomma, McGregor come nipotino della Musa del modernismo inglese, della scrittrice che, insieme con Joyce, aveva messo al bando la grande tradizione del romanzo storico inglese, quello degli Scott, dei Thackeray. Eppure, in questo Diversi modi per ricominciare, c' è molta storia inglese sullo sfondo: l' immigrazione irlandese dei primi del Novecento, la prima e la seconda Guerra mondiale, Londra sotto le bombe, la ricostruzione di Coventry. Su su fino agli anni della Thatcher, quando per i tagli alla spesa pubblica anche David Carter perde il posto. «Sì, ma serve appunto da fondale lungo il quale si muovono le vite di questi miei personaggi nel tempo. I fatti storici possono certo influenzare le loro vite, ma quello che mi interessa di più sono i fattori individuali. Voglio descrivere le relazioni che si stabiliscono fra di loro, fra David e la moglie Eleanor, tra lui e la madre che non gli ha detto la verità, tra Eleanor e la sua famiglia. Ciascuno dei personaggi ha un rapporto speciale con la memoria: David ossessivamente vuole ricordare tutto, Eleanor rimuove, la zia Julia, colpita da Alzheimer, la perde del tutto. Il mio romanzo vuole raccontare i destini di queste persone, i sogni non realizzati, come cercano di venire a patti con la vita. Io penso che non ci sono persone qualunque, ciascuno ha nella sua vita qualcosa d' importante». Per la struttura dei suoi due romanzi (un mosaico di frammenti ciascuno appartenente a uno dei molti personaggi; nel secondo invece diversi capitoli, ognuno dei quali introdotto da uno dei tanti oggetti collezionati dal protagonista) si è parlato di montaggio cinematografico. Il cinema ha avuto davvero tanta influenza, e quale regista è stato più importante? «Da ragazzo guardavo molti film, in sala e soprattutto in tv. Credo sia stata un' esperienza fondamentale. Il regista, o i film che più mi hanno impressionato? Senz' altro Kieslowski e il suo Decalogo». Anni fa, in un' intervista, Jon McGregor aveva detto che si era messo a fare lo scrittore perché aveva letto su Marie Claire che era uno fra i dieci mestieri più attraenti. «Era una battuta», dice. Già a scuola scriveva, sue cose apparivano in riviste scolastiche o pubblicazioni locali. Dopo le scuole e molti lavori temporanei (lavapiatti in un ristorante vegetariano, per esempio), la rivista Granta gli pubblica un racconto. Lui si cerca un agente e si rivolge all' agenzia più tosta, quella di Andrew Wylie. Il manoscritto del romanzo piace, diventerà un libro, sarà selezionato per il Booker Prize eccetera. Oggi a 30 anni, una moglie e una figlia di 18 mesi, vive del lavoro di scrittore. A Nottingham.
«Corriere della sera» del 18 settembre 2006

16 settembre 2006

A Cambridge c’è un’altra Terri Schiavo, e i medici scoprono che è cosciente

Il suo cervello “si accende” in risposta agli stimoli dei dottori, che dicono: “Non si può bloccare l’alimentazione liquida”
senza indicazione d'autore
Londra. Una risonanza magnetica funzionale ha permesso a un gruppo di neurologi di Cambridge di studiare il coma di una paziente. Science ha rivelato quel che si è scoperto con l’utilizzo di questa nuova apparecchiatura: le reazioni cerebrali sono simili a quelle di soggetti sani in risposta a comandi di vario tipo, il che lascia supporre uno stato di consapevolezza cosciente. Lo studio ha aggiunto un tassello al dibattito che divide i medici – e le coscienze tutte – su un aspetto in particolare del trattamento dei pazienti in coma: quando si scoprono segni inequivocabili di coscienza, si può staccare la spina? Il ricordo del volto disidratato di Terri Schiavo dopo la decisione unilaterale di suo marito di toglierle il tubo di alimentazione è sempre vivo. A dividere i ricercatori questa volta è la storia di una ragazza di 23 anni ricoverata all’unità di neurologia del Medical research council (Mrc) dell’Università di Cambridge dopo un incidente stradale nel luglio del 2005. E’ stata in coma per cinque mesi. Poi, a dicembre dell’anno scorso, dopo essere stata dichiarata in stato vegetativo, si è “risvegliata”, aprendo gli occhi, respirando normalmente, ma senza dare alcuna prova di riconoscere l’ambiente circostante. A questo punto, il gruppo diretto dal neurologo britannico Adrian Owen ha deciso di verificare gli effetti di queste reazioni utilizzando un nuovo macchinario noto come f-Mri (Functional magnetic resonance imaging) che rientra nella cosiddetta diagnostica per immagini.
La differenza tra la vita e la morte
Inizialmente i medici hanno provato con frasi semplici: la parte del cervello che “si accende” (sul f-Mri) di una persona cosciente prende forma anche sullo schermo. Poi l’hanno invitata a immaginare una serie di processi fisici a lei familiari. Quando le hanno chiesto di immaginare di essere protagonista di una partita di tennis, i neuroni della “corteccia premotoria” (una regione del cervello che si attiva quando si cerca di immaginare un movimento fisico) hanno cominciato a rispondere agli stimoli. Quando invece l’ordine era di “passare da una stanza di casa a un’altra”, la parte del cervello che genera le “mappe spaziali” si è illuminata esattamente come in una persona sana. Malgrado la cautela professionale, Adrian Owen è rimasto impressionato da ciò che ha visto. “Non sapevamo se lei fosse in grado di capire le nostre istruzioni, ma dall’attività neurologica registrata abbiamo visto che aveva compreso ciò che le abbiamo detto”. Owen ha segnalato le sue ricerche in America e in Inghilterra mantenendo una certa cautela, anche perché, come aveva preannunciato qualche collega, la reazione dei neurologi rimane sempre istituzionalmente scettica. “Le nostre scoperte non costituiscono una prova inequivocabile del fatto che questa donna sia ‘consciously aware’ (in termini medici ‘coscientemente cosciente’, ndr). Ma sappiamo da precedenti ricerche che risposte di questo genere richiedono l’azione intenzionale del participante”, ha spiegato Owen. Il collega e coautore dello studio, Steven Laureys, dell’Università di Liegi, in Belgio, si è spinto più avanti: “Sarà che altri sessanta pazienti ricoverati in stato vegetativo non hanno dimostrato segni di attività neurologica, ma lei è differente. La sua attività neurologica dimostra un chiaro atto di intenzionalità. L’attività nelle sue zone cognitive superiori dimostra che è ‘coscientemente cosciente’ di se stessa e dell’ambiente che la circonda”.
Per Lionel Naccache dell’Istituto nazionale della Sanità e della Ricerca medica di Orsay, in Francia, le risposte agli stimoli mentali del giocare a tennis e del passeggiare per la casa sono “spettacolari” ed “evidenziano una vita interiore e un’intensa presenza mentale”. Se per l’establishment medico si tratta ancora di un caso “interessante” fra migliaia di esempi studiati, alcuni studiosi inglesi vorrebbero ridiscutere subito le regole che hanno governato vicende come quelle di Terri Schiavo. Secondo alcuni telegiornali, ciò sarebbe stato impensabile senza la diffusione delle tecniche concretizzate da Owens e Laureys con l’apparecchio f-Mri. “Stiamo parlando della differenza fra la vita e la morte – insiste Laureys – In altri casi ci siamo scontrati con la delicatezza di tali decisioni, ma questa scoperta dimostra che quando si notano segni inequivocabili di coscienza, non si può bloccare l’alimentazione liquida”.
«Il Foglio» del 9 settembre 2006

15 settembre 2006

Raboni: l’ultimo dei classici

di Franco Cordelli
Dopo il garzantiano Elefante intitolato Tutte le poesie, ecco il Meridiano di Mondadori, intitolato L’opera poetica, a cura di Rodolfo Zucco, con uno scritto di Andrea Zanzotto: l’uno e l’altro volume pongono un primo sigillo alla percezione che di Giovanni Raboni si aveva da molti anni, che fosse un classico. Forse sto dicendo una cosa ovvia, ovvia in ogni caso se si hanno in mente simili opere o collane, Elefanti e Meridiani: chi vi finisce dentro se non i classici? E perché qualche volta ci siamo sorpresi che a uno scrittore in attività fosse stata concessa una simile gloria? Vuol dire che il segnale trasmesso da Elefanti e Meridiani è proprio quello che dico, confermato dal senso di stupore di fronte a (pochi) titoli. Per Raboni, questo stupore non si dà. Lo ripeto: era da anni che così si percepiva la sua presenza, come quella di un classico. La faccenda diventa più interessante se, invece che alle collane e alla loro ricezione, si pensa all’anno di nascita di Raboni, il 1932. È ormai chiaro, credo, che la spina dorsale della letteratura italiana è costituita dai nati negli anni Venti, da Calvino e Primo Levi, da Pasolini e Sciascia, da Volponi e Ottieni, da Zanzotto e Pagliarani. Questo dato di fatto ha complicato le cose, e non poco, per i nati nel decennio successivo. Per i nati dopo il 1930 l’angoscia dell’influenza di cui parlò Harold Bloom deve essere stata particolarmente attiva, e poco benefica. Non su un solo nome saremmo pronti a scommettere un Meridiano, o qualunque altra cosa. Per non dire che, in chi viene dopo, si comincia a perdere la nozione stessa di classicità. È fin dall’inizio, è già nella predisposizione (di apprendimento e di sviluppo) che ci si nega a ciò che chiamiamo classico. Opposto il caso di Raboni, come documenta la stessa cronologia stilata, con una ricca base documentaria, da Rodolfo Zucco. Raboni è entrato in letteratura come ai vecchi tempi, come si entra in un sacerdozio, prendendo i voti. Un solo, minimo esempio di questo fatto è nel titolo di un libro che non c’è nel Meridiano - Meridiano da Zucco preparato con l’aiuto dello stesso Raboni. Il libro è I bei tempi dei brutti libri. Il discrimine tra un’idea attiva di classicità e un sentimento che tende a metterla in ombra, è proprio questo, che non vi sia più possibilità alcuna di pensare a libri belli e libri brutti, cioè non vi sia la possibilità di distinguere. Raboni non era tipo da nostalgie, futuro e passato si consumavano per lui nel presente della poesia. Ma quel titolo, o meglio quel libro, escluso a causa del suo carattere di non organicità, vale non già come eccezione, ma come sintomo o, al limite, come presa di posizione etica - per altro una costante nell’opera di Raboni. In questo senso, ha ragione Zucco. Piuttosto che il generico titolo Opere, la specificazione, l’uso del termine «poetica», indica l’inoltrarsi in un dato di fatto: una qualità, una tonalità, che dalla poesia vera e propria, dall’opera in versi, si estende all’opera in prosa, di cui nel Meridiano testimoniano tre raccolte di diverso genere, Poesia degli anni sessanta, La fossa di Cherubino e Devozioni perverse. L’accento di Raboni, perfino del Raboni più seccamente critico (come nel primo di questi tre libri) e del Raboni moralista (come nel terzo) sfuma sempre nell’indecidibilità della poesia: le sue convinzioni sono pronte a subire i mutamenti che il tempo rende necessari od opportuni, senza contare, di Raboni, la natura profonda che abbiamo visto con crescente chiarezza manifestarsi negli ultimi libri: una natura liquida, sgusciante, fatta come un anello di Moebius, perfino nel gesto ruggente dell’invettiva. Zanzotto, da par suo, nello scritto a Raboni dedicato dice un mucchio di belle cose. Parla di Raboni come poeta civile, nel senso dell’«impossibilità di agire nella solitudine». Parla del suo impegno ma anche del suo disimpegno (il calcio come «musichetta di fondo»); dell’«asciuttezza tagliente e risentita» di una poesia che inclina alla prosa (come nei suoi maestri Vittorio Sereni e, con più ritrosia, Montale); della riconquista del sonetto come ipernovità, ovvero come «simbolo strutturale mandalico»; delle sue delusioni politiche, in stile Ortis, sempre risarcite dalla luce, dalla gioia, da quella poetica «navetta che genera la trama fonico-ritmica». Parla anche di un aspetto assai caratteristico: della sua «grandiosa impresa di operatore culturale». Questo aspetto della presenza di Raboni, che fu discusso e gli generò qualche risentimento (il Re censore), mi sembra peculiare. Non penso al suo carattere lombardo, alla sua alacrità di uomo con le maniche sempre rimboccate; e non penso neppure a quanto di cruciale, in senso psichico e spirituale, vi è in questo tratto, secondo il riconoscimento fattone da Zucco (su altro piano, di poetica): l’idea della pietas, ereditata da Manzoni, e l’idea della salvezza, non personale, ereditata da Clemente Rebora. Penso in termini per così dire sociologici. Che cosa è stato il poeta del Novecento? Che tipo di personaggio era? Che cosa egli faceva, oltre a comporre poesie? È stato tre tipi umani o, appunto, sociali: il poeta-poeta, mai toccato dai commerci mondani (Penna, Zeichen); il poeta-professore, colui che scioglie la sapienza in musica (Ungaretti, Luzi); il poeta-militante, colui che scende in campo per combattere la battaglia politica e sociale (Montale e Pasolini, che non si amavano poiché ignoravano quanto fossero simili; Sereni, il maestro, e Raboni, l’allievo). A proposito di Sereni e Raboni occorre aggiungere che in questo particolare settore della militanza, sono gli ultimi due poeti che si sono spesi in un campo delicato come quello editoriale, dove si è direttamente responsabili non più di se stessi, ma degli altri, anzi delle generazioni a venire. Rodolfo Zucco ricorda una lettera di dimissioni di Raboni del 1985: «La scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa, mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili».
«Corriere della sera» del 10 settembre 2006

Axum Che fine ha fatto l’obelisco

Oggi respira sicuramente meglio rispetto a quando fungeva da spartitraffico, nero di fumi, in mezzo a piazza di Porta Capena a Roma. Ma ancora a pezzettini e impacchettato, l’epico obelisco restituito dall’Italia all’Etiopia nel 2005 aspetta ancora di trovare il suo «ubi consistam»
di Giulio Albanese
L’Italia ha indubbiamente sciolto un obbligo di carattere internazionale che gioverà alle relazioni con l’Etiopia. Ha suscitato commozione ed entusiasmo l’annuncio di un funzionario dell’Unesco, Awad Elhassan, secondo cui è ormai tutto pronto per l’installazione del monumento, che verrà collocato di fianco agli altri obelischi presenti nell’area archeologica. Se le condizioni meteorologiche lo consentiranno la delicata operazione potrebbe essere avviata nel corso di questo mese, con l’arrivo della stagione secca

Fa davvero un certo effetto vederla distesa al suolo, sezionata in tre tronconi, circondata da una palizzata col filo spinato, sotto le apposite pensiline che hanno il compito di proteggere l'imballaggio dalle piogge, in questa stagione molto abbondanti anche nell'Etiopia settentrionale. Stiamo parlando della stele restituita dall'Italia alle autorità etiopiche che per la gente del posto è diventata una sorta di ritrovo, anche se ogni tanto qualche animale, capra, cane o asino che sia, ne approfitta per soddisfare i propri bisogni, proprio a ridosso delle recinzioni del celebre monumento. A pensarci bene, quanto alle garanzie di preservazione ambientale, l'epico obelisco, oggetto di tante contese, sta sicuramente meglio così, tutto impacchettato, che quando fungeva da spartitraffico, nero di fumi, in mezzo a piazza di Porta Capena, tra miriadi di macchine che solitamente fluiscono a ondate nelle quattro direzioni dell'Urbe. Sebbene il flusso turistico sia alquanto modesto, nella città axumita è ancora viva l'euforia che si respirava nel quartiere ecclesiastico di Nefas, sulla necropoli di Mai Heggià, quando lo scorso anno si concluse con una toccante cerimonia l'arrivo dall'Italia dei tre tronconi che compongono l'obelisco. E proprio qualche settimane fa ha suscitato grande commozione in tutta l'Etiopia l'annuncio di un funzionario dell'Unesco, Awad Elhassan, secondo cui è ormai tutto pronto per la rierezione del monumento, il quale, secondo i piani elaborati da un'apposita commissione d'esperti, verrà collocato di fianco agli altri obelischi presenti nell'area archeologica. Se le condizioni meteorologiche lo consentiranno, sempre secondo la stessa fonte, la delicata operazione potrebbe essere avviata addirittura nel corso di questo mese, con l'arrivo della stagione secca. Com'è noto, il rimpatrio dell'obelisco, simbolo del patriottismo etiopico, imposto all'Italia dall'articolo 37 del Trattato di pace di Parigi, nel lontano 1947, ha posto fine ad una lunga e penos a attesa, scandita da rinvii e polemiche che rischiavano addirittura di compromettere le relazioni diplomatiche tra l'Etiopia e il nostro Paese. Sta di fatto che l'operazione tecnica, attraverso cui è avvenuta la restituzione, è stata un autentico capolavoro dell'ingegno umano, messo appunto da un personaggio del calibro di Giorgio Croci, ordinario di Tecnica delle Costruzioni presso l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma. Essendo l'Etiopia priva di sbocco al mare, l'unica soluzione fattibile è stata il trasporto aereo attraverso uno dei due soli velivoli in grado di sostenere un simile peso: il jet russo Antonov 124. Inoltre, le piste degli aeroporti di transito (Addis Abeba) e scalo finale (Axum) si trovano a quote elevate in cui l'aria è più rarefatta creando problemi in fase di atterraggio: l'Antonov, che in condizioni normali è abilitato al trasporto massimo di 120 tonnellate di carico, nel caso specifico, era stato calcolato che non potesse superare le 60, mentre i tronconi della stele pesavano 75 tonnellate ciascuno. È stato dunque necessario rimuovere le protezioni d'acciaio dell'imbracatura, sostituendole con altre in leghe più leggere, visto che il blocco più consistente pesava circa 56 tonnellate. Come se non bastasse, il rischio peggiore riguardava la sicurezza nell'arco dell'intera navigazione in quanto vi era il rischio che l'aereo potesse spezzarsi in volo a causa dei vuoti d'aria. L'equipe del professor Croci ha pertanto elaborato un monitoraggio permanente computerizzato, basato su sensori che trasmettevano le informazioni a una centralina di raccolta dati la quale, ad ogni minima corrente ascendente o discendente, attraverso un'invasatura elastica, attivava un sistema che compensava le possibile forze vettoriali in grado di danneggiare il velivolo. Purtroppo, una volta giunto a destinazione l'obelisco, i problemi tecnici non sono terminati; si è infatti aperto un dibattito tra i fautori del piano originale che prevede l'istallazione dell'o belisco accanto agli altri reperti presenti nell'area monumentale (particolarmente caldeggiata dagli etiopici) e alcuni archeologi i quali avrebbero preferito che la stele rimanesse distesa sul terreno, proprio come l'aveva rinvenuta negli anni '30 l'archeologo italiano Ugo Monneret di Villard, il quale stava conducendo degli scavi nella zona di Axum: un monolito alto 24 metri e del peso di 160 tonnellate, che giaceva a terra spezzato in tre parti. In effetti, la necropoli di Axum, collocata sotto gli obelischi, è soggetta a crolli e smottamenti del terreno che potrebbero mettere a repentaglio praticamente tutte le strutture monumentali e i reperti archeologici presenti nel sottosuolo. Per questa ragione una missione Unesco ha stabilito, d'intesa con gli esperti e le autorità etiopiche, che prima delle operazioni di riassemblaggio, da attuare con l'aiuto dei tecnici italiani, si dovrà provvedere al consolidamento del terreno con sofisticate tecniche che dovrebbero immettere nelle viscere del terreno sostanze resinose in grado di dare consistenza all'intera area archeologica. Con la restituzione e il finanziamento delle complesse operazioni di trasporto dell'obelisco di Axum, l'Italia ha indubbiamente sciolto un obbligo di carattere internazionale che gioverà alle relazioni con l'Etiopia. Resta aperto invece il problema della valorizzazione turistica e culturale del complesso monumentale, penalizzato dalla mancanza d'infrastrutture adeguate ad un patrimonio incommensurabile di civiltà.
«Avvenire» del 10 settembre 2006

Montale: il poeta e la tv

C’è un Montale poco conosciuto. Trenta anni fa, da “sociologo”, spiegava perché i mass media avrebbero ucciso la poesia
di Alfonso Berardinelli

Eugenio Montale amava la poesia? A giudicare dai fatti (vita e opere) nessuno potrebbe negarlo. Ma la cosa certa è che non amava la poesia come la si ama oggi in Italia. Il suo amore non lo cantava né lo vantava. Era un uomo cauto, inibito (sì!), prudente, reticente, poco effusivo, terrorizzato dalla retorica e da ogni tipo di discorso declamabile “ore rotundo”. Quando editori, divulgatori e insegnanti devono decidere che cosa è la poesia italiana del Novecento, scelgono Montale. Se deve essere nominato un solo autore, quello è lui: il più tipico, autorevole e studiato portavoce della poesia moderna in Italia. A distanza, alle sue spalle, un secolo prima, resta Leopardi. Nel primo e secondo Novecento, poco prima e poco dopo di lui, ci sono Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Tutti e due di una famiglia diversa: più aperti, generosi, diffusi, imperfetti perché portati a mettere in versi qualunque cosa. Poeti premoderni (Saba) o postmoderni (Pasolini), sostanzialmente in polemica con la modernità, con il simbolismo, con l’ermetismo, con l’eccesso di condensazione lirica, con ogni tipo di oscurità, di bizzarria, di formalismo. Anche la modernità di Montale era polemica. Non gli piacevano le poetiche, le intenzioni, i gruppi, le avanguardie, il ribellismo, il titanismo, la poesia pura, l’ottimismo espressivo, l’engagement ideologico e politico. A Montale ovviamente non piaceva quasi nulla. La sua forza era una forza di negazione, di stanziamento, focalizzazione assoluta del dettaglio, arte del mettere idee e pensiero dentro un’organizzazione verbale scandita e pietrificata… Non voglio mettermi a parlare di Montale! La bibliografia critica che si è accumulata sulla sua opera è mostruosa. Almeno in Italia, credo che ormai superi per quantità quella su quasi tutti i grandi classici. Forse solo su Dante e Leopardi si è scritto di più. Mi sono messo a parlare di Montale al solo scopo di notare un dettaglio: Montale (più o meno convenzionalmente) è la poesia italiana del Novecento, ma da circa trent’anni la poesia italiana esiste perché lo ignora: come idea e come comportamento, come teoria e come prassi, non ha niente a che fare con Montale. Neppure con il Montale prolifico e “chiacchierone” degli ultimi anni, da “Satura” (1971) in poi. Il dettaglio non abbastanza notato, la piccola cosa piuttosto trascurata è che quasi tutti i poeti italiani di oggi troverebbero mostruosi e criminosi lo scetticismo e le cautele che Montale ebbe ogni volta che parlò di poesia. Della propria e di quella degli altri. Mai Montale avrebbe incoraggiato la produttività poetica. Se soltanto sfogliamo i suoi scritti “Sulla poesia”, una raccolta a cura di Giorgio Zampa uscita da Mondadori nel 1970, ricordiamo subito che il tono-Montale era stato caratteristico di tutta la generazione post-crociana e post-dannunziana. Nessuna enfasi, mai. Fuga dalle giustificazioni filosofiche della poesia in generale (Croce) e fuga dalla retorica (presente anche in Ungaretti) della poesia come entusiasmo e fuoco lirico.
In ogni sua dichiarazione e valutazione sulla poesia e sui poeti, Montale fu prudente, avaro, scettico (era il suo modo di essere appassionato, un modo oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità.
Soprattutto a partire dagli anni sessanta rifletteva di continuo sulle difficoltà di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa. Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”.
Anche quando è apocalittico, Montale lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso.
L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore inalterabile nel corso del tempo, come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momento aveva pensato a un titolo più preciso: “Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”. Le comunicazioni di massa lo ossessionavano. Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”.
Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici.
C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”.
Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma.
In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”.
Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”.
Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”.
Dopo aver detto in breve quasi tuttol’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.
«Il Giornale» del 9 settembre 2006

08 settembre 2006

Manganelli: discesa nel vortice della poesia

di Daniele Abbiati
«Fuori del sigillo
della paura ininterrotta
non ho altro indizio
della mia continuità».
Disse: «In generale gli scrittori sono convinti di essere letti da Dio». E disse anche: «Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile». Era dunque inutile, la preghiera dello scrivere, per Giorgio Manganelli? Un puro esercizio di stile? Una collana di metafore fruste? Un rosario recitato nel sottofondo del brusio mentale? Oppure, al contrario, scrivere era l’eroismo di un attimo? Il passare a fil di spada le proprie miserie quotidiane? All’arduo bivio ci fermiamo, appena intrapresa la lettura. Allunghiamo lo sguardo nell’una e nell’altra direzione, tentando di indovinarne gli sviluppi. Ma non vediamo nulla: c’è troppa luce, gli occhi bruciano. Allora, non resta che abbandonare la logica orizzontale, la logica dello spazio e del tempo aperto, la logica della luce, e gettarci a capofitto giù, sottoterra, negli Inferi. Presa coscienza del nostro destino di «adediretti», troveremo ad accoglierci un Caronte miope e con il naso da talpa. Seguirlo significherà non tornare mai più indietro, in superficie. Significherà assistere fino in fondo allo spettacolo dell’ilare tragedia che egli ci propone.
Hilarotragoedia, certo, non è né inutile e piagnucolosa invocazione a divinità non ancora ulteriori, né slancio di eroico furore. È, piuttosto, l’autoterapia di un precipitante, un paracadute difettoso che accelera la rovina. Quando aprì il paracadute, all’inizio degli anni Sessanta, Manganelli era già mezzo morto. Pieno di contusioni e ferite, sanguinava come un «vipistrello» sgozzato. Che cosa gli era successo? Ce lo spiegano queste sue Poesie curate, con profondità da esegeta innamorato, da Daniele Piccini (Crocetti Editore, pagg. 356, euro 20, postfazione di Federico Francucci). Chiamarle, tutte, «poesie giovanili» non è corretto. Visto che le ultime limature all’«ilare tragedia», uscita da Feltrinelli nel ’64, arrivano alla metà del ’62, e che il testo poetico più tardo qui presentato è dell’ottobre dello stesso anno. E visto, soprattutto, che Manganelli ebbe in sorte di nascere nel ’22. Insomma, come argomenta Piccini nell’«Introduzione», tra i versi (tutti i versi) e la prima opera in prosa del Nostro autore non esiste soluzione di continuità. E, del resto, come potrebbe esistere separazione fra gli inseparabili istanti di una caduta?
La meccanica «discenditiva» nel buco nero della «morte», regina incontrastata dell’universo manganelliano, infatti, parte da molto lontano, da una riflessione, questa sì, giovanile: «fa’ che più non cerchi, o mio Signore;/ perché io so/ che alcuni si salvano vivendo;/ ma destini diversi/ si spiegano soltanto col morire». Il dado è tratto, il balzo nel vuoto, irrevocabile. Abbandonate le suggestioni del mondo classico, peraltro sottoposte, ottenendo giudizi positivi, al professor Vittorio Beonio Brocchieri, suo relatore di tesi all’Università di Pavia per la laurea in Scienze politiche, Manganelli spicca il volo, forse, inizialmente, sulle ali di un’illusione («Noi, per raggiungere i piani alti, rovesceremo il grattacielo», scriverà in Hilarotragoedia...). Dal bozzolo esce comunque una farfalla nera, un’irrequieta falena che cerca le tenebre. Si va dall’invettiva rabbiosa contro «l’affronto dei miracoli» alla culla dell’«amichevole peccato». Risuona ancora la lezione di Montale o di Quasimodo, per esempio in un lirico «misurammo/ le anche della notte». Ma, subito, ecco la stoccata: «- mi dà tregua/ la flessibile speranza/ della mia decomposizione». Non basta a lenire i tormenti dell’«onirografo» barocco e plumbeo, altisonante e mesto, «la carità notturna d’una coscia», perché le ossessioni erotiche non si placano mai, avvolte in una persistenza «lasciva».E quando l’urgenza dei fatti o della memoria spinge altrove e pare rallentare la catastrofe, è soltanto per fuggevoli intervalli. Accade a margine dell’invasione sovietica in Ungheria: «Terrore dei padroni e dei preti/ libertà libertà libertà/ i tuoi figli hanno fatto carriera/ presto avranno telefoni bianchi/ non si fornica si fanno figli della rivoluzione/ si pianifica si santifica il verbo/ del segretario federale \ Sentite: dal fondo Hegeliano della storia,/ dalla dialettica inconcludibile/ si fa luce, severa, astratta, una pernacchia». Accade ripensando alla guerra: «E ne morirono a migliaia,/ e, tra quelli, dei migliori:/ per una vecchia puttana,/ per una civiltà in ciabatte,/ l’incanto che sorride sulla buona bocca,/ gli occhi svelti sotto il coperchio della terra \». Sempre «la carne è atea» e soggiace al «vizio di esistere». Sempre, persino quando l’amore s’intrufola furtivo nell’«abituro» del solitario poeta al quale, stremato, non resta che il rifiuto, la minaccia: «Io non ti amo, amore».
L’ilare tragedia discenditiva destinata di lì a poco a dipanarsi nella prosa, qui è ancora ferrea, incrollabile, «inamabile». E l’uomo che precipita s’aggrappa all’unica sua convinzione, all’«inutile» scrivere: «Usa il tuo inferno totale:/ scalda i moncherini del tuo nulla;/ gela i tuoi ardori genitali;/ con l’unghia scrivi sul tuo nulla: a capo». A capo, cioè: più in basso.
«Il Giornale» dell’8 settembre 2006

Iliade: in mostra a Roma l’ira funesta di Achille

di Roberto Mussapi
Si apre domani al Colosseo la grande rassegna archeologica sul poema omerico
Non è strano che il grande poema di fondazione dell’Occidente appaia, nell’iconografia che lo celebra, al Colosseo, simbolo della potenza dell’antica Roma, dove domani si apre la rassegna dedicata al racconto di Omero. Perché se il poema ha inizio nel cuore della battaglia, termina con un rito funebre: Ettore, il cui cadavere prima è stato oltraggiato da Achille, che lo ha devastato trascinandolo a lungo dal suo cocchio, riceve sepoltura. Da quel rito avrà inizio un’altra epopea, l’epica dei vinti e degli esuli: Enea, il troiano sconfitto, giungerà dopo travagli e peregrinazioni alla terra d’Italia, dove fonderà, secondo la volontà degli dei, la città di Roma. E l’Eneide è protagonista alla Basilica di Santa Maria alle Grazie a Milano dove Vittorio Sermonti leggerà da lunedì 11 i versi del capolavoro virgiliano.
L’Iliade non è quindi soltanto il meraviglioso poema della furia di Achille, ma anche la celebrazione del suo nemico. Omero contrappone i due eroi nel combattimento finale, Ettore supplica il semidio di restituire il suo corpo ai parenti, nel caso soccombesse, promettendo la stessa cosa in caso di vittoria. Achille risponde urlando che non lo farà mai: le fiere si uccidono, non dialogano e non si seppelliscono. Il più grande poeta greco, Omero, inscena e incarna la legge umana della compassione nel volto e nelle parole del nemico, il troiano, e attribuisce all’eroe della propria nazione la negazione della sepoltura, l’oltraggio supremo. La dea Atena non solo non è imparziale, ma inganna l’eroe troiano, che per altro è un uomo, in procinto di affrontare un semidio. Da questo momento topico dell’avventura umana nascerà l’ispirazione del capolavoro assoluto di Ugo Foscolo, I sepolcri: la sepoltura come riconoscimento della nostra fratellanza, tema centrale del carme, culminerà nella rievocazione del cadavere di Ettore.Ma l’Iliade è anche il poema dell’infinita, per quanto inespressa - nel barbarico clangore delle lame e nel furore del sangue - dell’infinita quanto inconsapevole disperazione dell’eroe greco, cui non è dato nulla oltre la vita terrena. Achille cerca furiosamente di morire, subito, eroicamente, in battaglia, nel pieno della giovinezza e della forza. Solo in tal modo potrà sopravvivere, resistere nel tempo, nella memoria degli altri, unica sede di vita concessa all’uomo dopo il decesso, nel mondo greco. La furia barbarica di Achille esprime come mai più avverrà l’urlo dell’adolescente che si ribella al nulla. Quando nel successivo poema omerico Ulisse scenderà nell’oltretomba, traboccante di venerazione per il glorioso Achille, ne vedrà una pallida, inconsistente, disperata parvenza.L’Iliade è l’evento cosmologico primordiale, la conflagrazione sanguinosa da cui prende forma un nuovo mondo: da una parte le rovine di una città distrutta, il tragico simbolo della fine di tutti i reami e i palazzi, sottoposti a quelle che Shakespeare definiva «le devastazioni del tempo», dall’altro l’inizio di una nuova età, che appare sorprendente a chi abbia soltanto ricordi scolastici del poema, legati alle gesta gloriose, al trucco del cavallo, alla furia, all’onore, all’orgoglio e alle meschinità degli eroi combattenti. Perché lo scenario del mondo che segue il trionfo degli Achei non vede il consolidamento della loro potenza, la pace dei vittoriosi, ma l’esilio.Conosciamo dal successivo, leggendario poema omerico, la storia di Ulisse, la cui avventura si risolverà in un faticoso viaggio di ritorno a Itaca, la piccola isola da cui era partito, che si profilerà ai suoi occhi di naufrago molestato dagli dèi avversi, quanto incantato da seducenti apparizioni, lo scopo ultimo della guerra, la vittoria finale. Un ritorno compiuto a caro prezzo ma anche attraverso acquisizioni e esperienze meravigliose quanto spossanti, ma non dobbiamo dimenticare altri ritorni, di altri eroi, segnati da esito ferale.Agamennone, il più valoroso, il capo della lega degli Achei, di ritorno dopo i lunghi anni di guerra alla sua reggia, appena entrato, trionfante e anelante, viene ucciso alle spalle dalla moglie Clitemnestra, che durante la sua assenza lo tradiva con Egisto. Agamennone, pur eroico nella guerra di Troia, sconta, nella tragedia di Eschilo, il peccato iniziale: per ottenere dagli dèi voti propizi all’impresa non aveva esitato a sacrificare la figlia Ifigenia. Il culmine del suo ritorno è la vendetta della moglie.Il fato domina la scena della guerra che porterà alla distruzione di Ilio. Al fato si adeguano con incantevole e crudele naturalezza le azioni degli dei, capaci di apparire continuamente, mutando forma, spostando il corso degli eventi, ma come in obbedienza a fili invisibili che adombrano il dominio imperscrutabile della natura su tutto il vano agire umano.Ma tornando all’esilio sarà quello di uno sconfitto a rivelarsi alla fine vincente: mentre Agamennone, il capo dei vincitori, muore trucidato, il troiano Enea, dopo lunghe traversie raggiungerà le sponde dell’Italia, dove, secondo la volontà degli dei, fonderà Roma. Che nasce quindi da un esilio, il suo fondatore è un vinto che ha dovuto abbandonare la sua terra. Il futuro caput mundi nasce quindi dai margini, dalle ceneri di una città distrutta.Ma l’Iliade, prima ancora che tutto questo e mille altre cose insieme, è il grande poema in cui l’amore rivela la propria forza travolgente e devastante: non dimentichiamo che una donna è la causa di tutto. I viaggi per mare, la guerra, l’odio, la vendetta, tutto per amore della bellissima Elena, non l’oggetto della contesa, ma la sua scaturigine: Elena è il principio, la causa, «colei che fece gonfiare mille vele» scriverà l’elisabettiano Marlowe, mentre il poeta latino Properzio sancì in versi memorabili tutta la vicenda della guerra e del poema: «Fu così bella che valse la pena/ che in suo onore Achille morisse,/ e Priamo lodasse la causa della guerra».
«Il Giornale» dell’8 settembre 2006