05 settembre 2006

Libri: metti uno sponsor in copertina

Baraghini: «Ma quale mecenatismo, è un pretesto per creare altri consumatori» Berardinelli: «Gli autori si stanno trasformando in pubblicitari» Corraini: «Ma i nostri partner non pagano soltanto i conti, condividono anche tutto il progetto» Adriani: «E così avviciniamo nuovo pubblico alla lettura»
Di Paola Di Giampaolo
È blasfemo associare la cultura con il vile denaro? Oppure può risultare feconda l’unione tra il mercato e il pensiero? Alla vigilia del decimo Festivaletteratura di Mantova (che ha legato parte del suo successoalla collaborazione con le aziende), gli interessati rispondono

Inizia domani a Mantova la decima edizione del Festivaletteratura e le strade della città lombarda tornano a fremere di quella strana eccitazione che percorre una manifestazione molto imitata ma rimasta unica nel suo genere. Un’eccitazione fatta dalla simultanea presenza e convivenza di scrittori nazionali e internazionali, saggisti, premi Nobel, ma anche giornalisti, musicisti, attori, e poi lettori voraci o semplicemente curiosi, bambini, mamme papà e nonni, centinaia di volontari, instancabili viaggiatori e pigri amanti del tortello alla zucca…
Fin dalla nascita, il festival si è distinto per la presenza consistente e sistematica di sponsor, che uniscono il loro marchio alle centinaia di eventi, reading, incontri con gli autori. Non solo grandi aziende a livello nazionale e internazionale, banche, catene di alberghi, ma anche enti, associazioni, sindacati, onlus, e poi pizzerie, ristoranti, fioristi, carrozzerie, panifici: realtà, insomma, assolutamente locali.
Proprio il Festivaletteratura rappresenta quindi un’occasione ideale per riflettere su un rapporto – quello tra sponsorizzazione, manifestazioni letterarie e letteratura – che sembra suscitare ancora reazioni contrastanti. Blasfemo associare la cultura con il vile denaro? Pericolosa per il Pensiero la pacca sulla spalla del Potere? Sconveniente per illustri scrittori dal capo cinto d’alloro sporcarsi le mani con sponsor prosciuttari, carrozzieri, falegnami? Necessario sottomettersi alla legge del mercato che impone alla letteratura di trasformarsi in spettacolo? Feconda, benché spiazzante, unione tra partner di mondi diversi? O, ancora, nuova forma di mecenatismo e lodevole reinvestimento dell’utile in attività d’interesse collettivo?
Bocciatura senza appello da parte di Marcello Baraghini, che con la sua casa editrice Stampa alternativa propone il Festival della Letteratura Resistente, un festival autoprodotto senza biglietti né sponsor che si tiene a Pitigliano e Elmo di Sorano (Gr) da venerdì 8 a do menica 10 settembre. Prevede una decina di incontri con autori della casa editrice, tre spettacoli e, come ospiti, il poeta della beat-generation, performer e regista newyorkese John Giorno e John Sinclair, agitatore culturale americano e poeta beatnik. Non chiedete a Baraghini se, per la sponsorizzazione di manifestazioni letterarie, si possa parlare di nuovo mecenatismo: «Assolutamente no. Nessun mecenatismo, almeno qui da noi in Italia. Piuttosto lobotomia mediatica, con qualsivoglia pretesto (spettacolare, sociale e culturale), per conquistare nuovi consumatori acritici e obbedienti. Peggio ancora della blasfemia, direi. Gli sponsor italiani sono dei predatori che possono ancora far danni, ahimè, sull’intelligenza, sul cervello, sul cuore dei consumatori».
Più pacato ma comunque scettico Alfonso Berardinelli, scrittore e critico letterario. «Il mecenatismo in letteratura potrebbe far bene. E forse anche gli sponsor. Il problema credo sia la qualità di ciò che si sponsorizza e incrementa. Immagino che uno sponsor cerchi di farsi pubblicità e migliorare la propria immagine attraverso le arti. Ma oggi il fenomeno prevalente è quello di una generale spettacolarizzazione. Gli autori si stanno trasformando in performer, attori, comici, pubblicitari di se stessi. Perché altrimenti non ci sarebbe spettacolo, e non ci sarebbero sponsor». E ancora: «È positivo l’incontro fra ricchezza accumulata e cultura. Se pensiamo al nostro Rinascimento, diventa chiaro che l’Italia fra Quattro e Cinquecento ha realizzato un eccellente rapporto fra denaro e creazione artistica. Mi chiedo se oggi stia avvenendo la stessa cosa. Forse no». A imprenditori volenterosi Berardinelli suggerisce di «investire meno sulla spettacolarità, l’immagine e l’effimero, e di investire di più su qualcosa di durevole nel tempo, come le biblioteche». Come fecero nel 1963 gli Einaudi, donandone una al paese natale di Dogliani.
Ma se sia la visione di Baraghini, sia quella di Berardinelli mettono in eviden za una contrapposizione (tra predatori e vittime il primo, tra denaro e creazione artistica, tra effimero e durevole il secondo), nelle dichiarazioni degli organizzatori del festival e di uno degli sponsor, Illycaffè, le parole chiave sono diverse: collaborazione, rispetto, progetto comune. Marzia Corraini, membro del Comitato organizzatore, editrice e animatrice culturale a 360° (possiede una galleria d’arte, pubblica Munari e organizza laboratori per bambini), spiega: «Più che di sponsor preferiamo parlare di partner. Certo a loro chiediamo di supportarci economicamente, ma soprattutto di condividere una filosofia, uno stile. E c’è sempre reciproco rispetto: da parte nostra, rispetto per la loro esigenza di visibilità, da parte loro rispetto per la nostra libertà di scelta. Basti pensare che tutti i nostri sponsor hanno accettato che grandi nomi coesistano con realtà locali: la grande azienda accanto al panettiere sotto casa. C’è un radicamento tale nella città che per noi è davvero importante avere accanto tutti coloro che vogliono far parte del progetto. E che il progetto sia condiviso risulta chiaro dal fatto che la maggior parte dei sostenitori sta con noi anno dopo anno».
Ma, è lecito chiedersi: esisterebbe il festival senza sponsor e, soprattutto, come viene garantita la libertà degli ideatori? «Innanzitutto, lo sponsor più grosso del festival sono i nostri volontari: 700 persone che lavorano per noi con entusiasmo. E poi il fatto di avere tanti sponsor, e non uno solo, ci rende liberi. Non ce n’è uno indispensabile, vincolante. Sono tutti altrettanto importanti. Collaboriamo con tutti senza cedere sulla filosofia del festival, l’idea che l’ha fatto nascere e che ne ha determinato il successo: offrire un contatto immediato, molto forte tra l’autore e il suo pubblico, senza alcuna sovrastruttura». Sentendo parlare Marzia Corraini, il festival – in fondo – più che l’esito di un connubio tra Potere e Arte, sembra quindi il frutto di una concretezza tipicament e padana, di una tradizione di condivisione e cooperazione che affonda le radici in quella pratica, comune tra i contadini mantovani, di aiutarsi reciprocamente in vista di un fine comune: il raccolto e la festa che ne seguiva.
Esperienza fruttuosa anche per Illycaffè. Come spiega Anna Adriani, direttore relazioni esterne dell’azienda triestina, l’azienda collabora da 5 anni con il Festivaletteratura sostenendo in particolare «Scritture giovani»: a 5 promettenti scrittori europei è chiesto di scrivere un racconto, inedito, su un tema specifico. Gli autori presentano le loro opere nei vari festival coinvolti: oltre a Festivaletteratura, il Guardian Hay Festival in Gran Bretagna, il Bjørnsonfestivalen in Norvegia, l’Internationales Literaturfestival Berlin in Germania. I 5 racconti e le relative traduzioni nelle altre lingue sono stampati nei volumetti di Illystories, la cui grafica è curata di volta in volta da studenti di scuole d’arte internazionali e che è distribuita gratuitamente nei bar.
Alle accuse di lobotomizzazione delle coscienze per la conquista di nuovi consumatori, Anna Adriani risponde indirettamente: «Ricordo sempre le parole di Dacia Maraini, tra i primi autori celebri a partecipare al nostro progetto. Diceva essenzialmente "laddove c’è la possibilità di stimolare alla lettura, di aprire nuovi ambiti in cui la gente può scoprire il piacere di leggere, mi fa piacere esserci". Il bilancio della collaborazione con il mondo del libro è insomma assolutamente positivo, non solo perché ha avvicinato all’azienda moltissime persone ma anche perché le ha consentito di avvicinare alla lettura qualcuno che forse prima non leggeva, in un posto – il caffè – che tradizionalmente era sinonimo di cultura».
«Avvenire» del 5 settembre 2006

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