17 ottobre 2006

Leopardi l’anti moderno


L’Epistolario appena pubblicato nei Meridiani ripropone i temi di un classico del pensiero
Di Mario Andrea Rigoni
Le lettere che rovesciano l’immagine del poeta

Come il genio poetico e filologico di Leopardi fu intuito dai contemporanei fin da quando egli era ancora adolescente, così perfino l’importanza e la bellezza delle sue lettere, tali da meritare di essere raccolte e pubblicate, fu percepita non solo quando era ancora in vita, ma addirittura quando aveva poco più di vent’anni, come testimonia questa dichiarazione dell’editore Pietro Brighenti, che risale al 1 giugno 1820: «Ella non solo è poeta in tutta la grandezza del termine, ma è scrittore di Lettere tali, che io non crederei che l’Italia potesse presentare altri che la vince in questo genere ( ). Io vorrei dunque supplicarla di regalarne un tomo almeno all’Italia». Il voto del Brighenti non si compì se non dopo la morte del poeta, allorché nel 1849 Prospero Viani poté allestire una prima consistente raccolta. Ma fondamentale, nella storia dell’epistolario leopardiano, che si estende dal 1810 al 1837 e include 939 missive del poeta, fu l’edizione in sette volumi (Le Monnier, 1934-1941), curata da Francesco Moroncini, il più grande e benemerito editore di testi leopardiani: essa comprende le lettere dei corrispondenti ed è fornita di un ricco e insostituibile commento (l’ultimo volume, curato da Giovanni Ferretti, contiene anche un prezioso indice analitico generale di Aldo Duro). All’edizione Moroncini hanno dovuto rifarsi, con le opportune correzioni e integrazioni, sia quella del Flora (Mondadori, 1949), sia quella di Franco Brioschi e Patrizia Landi (Bollati Boringhieri,1998), sia infine quella appena uscita di Rolando Damiani che completa la serie delle opere leopardiane presenti nei «Meridiani», offre un ampio, aggiornato e spigliato commento ma omette inspiegabilmente, a differenza delle edizioni Moroncini e Brioschi-Landi, le lettere dei corrispondenti di Leopardi, necessarie sia per il chiarimento di temi e di situazioni obiettive sia per il rilievo che assumono certe figure (si pensi soltanto allo scambio epistolare con Giovan Pietro Vieusseux, il fondatore e direttore dell’«Antologia» fiorentina o con Vincenzo Gioberti, al quale la condizione di filosofo e di sacerdote cattolico non impedì di essere uno dei più precoci, autentici e nobili amici ed estimatori di Leopardi). Damiani insegue un’improbabile suggestione critica secondo la quale l’epistolario rappresenterebbe il romanzo mancato della vita del poeta, da interpretarsi dunque come una sorta di «assolo». Ma è Damiani stesso a contraddirsi rilevando, nel suo scritto introduttivo, che «una dichiarazione ha una tonalità diversa se il destinatario è Monaldo oppure Giordani, Carlo o il cugino Melchiorri. Quando si cita da una lettera ( ) l’indicazione del corrispondente è quasi indispensabile per individuare la specifica accezione in cui i termini presi in esame vanno soppesati». Dunque? Un autentico colpo di scena è stata la comparsa sul mercato antiquario, nel 1993, di una sconosciuta lettera in francese del 1833 alla principessa Charlotte Bonaparte nella quale Leopardi dichiara nella maniera più recisa la sua estraneità all’ideologia del progressismo («lo stato progressivo della società non mi riguarda assolutamente»): tutta la critica italiana ed europea, che per cinquant’anni non aveva fatto altro che ripetere fino alla nausea la tesi del progressismo leopardiano, veniva così beffardamente servita, per la gioia dei pochi che non vi avevano mai aderito o che addirittura, come me, vi si erano radicalmente opposti. Altre, capitali, prese di posizione sono affidate all’epistolario. Una è la fede precoce e assoluta nella letteratura: «se io vivrò, vivrò alle lettere, perché ad altro non voglio né potrei vivere», scrive Leopardi al Giordani già nel 1817. Un’altra è la protesta contro l’insinuazione, neppure oggi definitivamente tramontata, che la sua filosofia del nulla e della vanità delle cose sia da imputare alle sue personali sventure. Scrive al De Sinner nel 1832: «È soltanto per effetto della viltà degli uomini (i quali hanno bisogno di essere persuasi del valore dell’esistenza) che si sono volute considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali quello che si deve unicamente al mio intelletto. Prima di morire voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregare i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che ad accusare le mie malattie». Un tema ricorrente dell’epistolario è tuttavia costituito, oltre che dalla solitudine e dalla noia disperata, proprio dalle malattie che afflissero il poeta per tutta la vita, compresa una di natura molto particolare e, per così dire, trascendentale: la malattia del pensiero, la tortura della coscienza. Se essa coincide con la maledizione stessa dell’uomo moderno, niente meglio dell’epistolario mostra però quanto ricco, sensibile e vivo restasse il mondo affettivo di Leopardi. Respinto dalla freddezza marmorea della madre, attratto ma anche frenato dall’ingombrante e retriva figura del padre, egli riversa il suo cuore sui fratelli, sui conoscenti, sugli amici e, talvolta, sull’umanità stessa, come nella lettera a André Jacopssen del 1823 nella quale, identificando la virtù con la sensibilità, vagheggia una sorta di platonismo sociale, una consapevole pratica collettiva dell’illusione. La lettera al corrispondente fiammingo è anche il preludio più importante della canzone Alla sua Donna, siderale inno alla bellezza dell’Idea femminile. Ma l’epistolario documenta la grande varietà dei toni leopardiani in rapporto sia ai diversi oggetti sia, per l’appunto, ai diversi interlocutori. L’alto dettato meditativo, elegiaco, drammatico o polemico può alternarsi al simpatico stile diretto e colloquiale, da ragazzo moderno, della lettera del 6 dicembre 1822 al fratello Carlo, nella quale Giacomo lamenta che anche a Roma le donne «non la danno se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi» o della lettera ad Antonio Papadopoli del 21 maggio 1827 in cui tratta da «puttana» la contessa Malvezzi, uno dei suoi amori sfortunati. L’epistolario tocca raramente questioni letterarie ma, fra tante belle lettere che sono, come quelle del Tasso, un modello di prosa italiana, ne contiene una particolarmente commovente, testimonianza e testamento di uno spirito eccelso. Rispondendo un anno prima di morire a un giovane ammiratore francese, Charles Lebreton, Leopardi rifiuta il titolo pomposo di opere applicato dall’editore ai suoi scritti, dichiara di avere soltanto abbozzato dei saggi e di non essere andato oltre questi preludi. Accettando con riconoscenza l’amicizia del giovane lettore, dice: «Se cercassi un qualche consenso, il suo, signore, non mi sarebbe affatto indifferente; i poeti scrivono proprio per anime come la sua, per cuori teneri e sensibili come quello che ha dettato la sua lettera così amabile e che anch’io, se solo fossi stato poeta, avrei potuto scrivere». Se solo fossi stato poeta!

L’opera Gli scritti privati Il Meridiano Mondadori dedicato alle «Lettere» di Giacomo Leopardi (pagine 1768, 55) è curato da Rolando Damiani, autore inoltre di un saggio introduttivo dal titolo «Vita abbozzata di un uomo solo». Il volume ospita, tra l’altro, una cronologia e una bibliografia aggiornata di Leopardi (1798-1837)

«Corriere della sera» del 14 ottobre 2006

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