30 novembre 2006

L’universo non va a caso

Siamo solo animali. Tutt’altro, il genere umano è l’unico a darsi da se stesso i propri scopi...La teoria del «disegno intelligente» ripropone l’antico dibattito filosofico e scientifico: la natura ha un senso? Ma la posta in gioco non è più solo teorica, tocca i versanti della bioetica e la morale sociale.
Un fisiologo e un teologo a confronto

Tanzella-Nitti: il mondo segue una freccia che indica Dio

«Evoluzione e finalismo possono andare di pari passo, ma pare che tale accordo disturbi più d’uno»

Gli scienziati possono scoprire una finalità nella natura? O è soltanto una questione filosofica? Per Giuseppe Tanzella-Nitti, teologo della Pontificia Università della Santa Croce di Roma, si tratta di una domanda che nessuno può più ignorare. «Nell'universo, sia fisico che biologico, sembra notarsi un certo finalismo. Il tempo ha una direzione precisa, che chiamiamo "freccia del tempo". Gli elementi chimici originatisi nella prima espansione dell'universo si sono poi gradualmente trasformati, nel cuore delle stelle, in elementi via via più pesanti. Sono sorte strutture complesse e organizzate, tra cui i pianeti. Qualcosa del genere è avvenuto per la vita. Dagli organismi unicellulari (unici abitanti del pianeta, per 2 miliardi di anni) si è passati a forme di vita sempre più evolute; poi dai mammiferi all'uomo. Un osservatore "dall'esterno" si chiederebbe se qualche "freccia" ignota stia indicando la direzione verso cui tutto procede…».
La domanda è oggi di stringente attualità, dopo la vivace disputa fra evoluzionismo darwinista e «disegno intelligente» o principio antropico (che considera l'universo fatto su misura per l'uomo).
«Fin da quando ha alzato lo sguardo verso il cielo, l'uomo si è chiesto se si trova nell'universo per puro caso, "gettato lì dentro" come direbbe Martin Heidegger, oppure se la sua presenza ha un fine. Dal modo in cui rispondiamo dipendono cose assai importanti. Perciò ne discutiamo sempre con passione».
Dietro c'è la domanda sul futuro di ognuno, cioè su Dio.
«Purtroppo, non mancano gli equivoci. Prendiamo il dibattito fra darwinismo e intelligent design. C'è un intelligent design reclamato dai biologi che ritengono i meccanismi darwiniani insufficienti a spiegare la complicata morfologia del mondo vivente. Per loro il termine "intelligente" è in fondo una metafora: lo scienziato non può dedurre, solo con il metodo empirico, l'esistenza di una finalità intelligente… C'è poi un "disegno intelligente" che appartiene al pensiero teologico, e vuole indicare che il mondo è frutto del progetto di un Creatore, fonte di intelligenza ma anche di amore».
Non sono risposte puramente filosofico-dottrinarie, coinvolgono la vita di tutti i giorni.
«La posta in gioco è notevole. L'uomo è solo un "animale", risultato di una cieca evoluzione biologica, o almeno un "animale razionale" come sostiene Aristotele? Ne discendono scelte epocali: dalla bioetica alla tecnologia, dalle leggi al giudizio sui comportamenti individuali e sociali. In questo senso, orientare il dibattito sull'evoluzione in favore di una posizione o di un'altra, a sostegno del caso o della finalità, può diventare strumentale per il raggiungimento dei propri scopi. Per questo, è fondamentale chiarire quali siano le competenze della scienza e quali quelle della filosofia, che cosa appartiene alla serena analisi dei fenomeni e che cosa, invece, all'ideologia».
Quale contributo può offrire la teologia cristiana?
«Può spiegare che finalismo ed evoluzione non si contraddicono, anzi possono andare di pari passo. Ma sembra che quest'accordo disturbi più d'uno. Se infatti si presenta l'evoluzione biologica come contraria all'idea della creazione, allora si è riusciti a sbarazzarsi del Creatore, la cui presenza resta sempre troppo ingombrante per qualcuno. E se non esiste un Creatore, l'uomo può fare ciò che vuole senza ascoltare nessuno, neanche la coscienza. Ma solo la parola di Dio ci rivela perché in questo mondo sono comparso "proprio io", e ciascuno di noi. Scelti prima della creazione del mondo, creati figli nel Figlio. Il segreto della finalità nella natura è tutto qui».
Keller: l’uomo sa fare progetti, questo prova che esiste un fine

«In tutti i processi della vita l’orientamento spontaneo verso uno scopo appare netto e irreversibile»
«C'è una finalità nella natura. E va cercata al livello più elevato, nell’attività mentale dell’uomo, il quale si crea i propri fini ed è in grado di proiettarli nel futuro. L’uomo è l’unico essere vivente ad avere progetti». Flavio Keller, ordinario di Fisiologia all’Università Campus Biomedico di Roma, nella capacità di progettare vede la caratteristica dell’uomo e la prova principale della finalità che percorre il reale.
Secondo il principio antropico, adottato dai fisici, nell’Universo esistevano le condizioni per rendere possibile la vita umana sulla Terra. Ma questo principio – a quanto sembra di capire – non esprime al massimo la peculiarità dell’uomo.
«Quel principio dà risalto alle costanti fisico-astronomiche che permettono la vita sulla Terra. Ma la finalità nella natura è un concetto più elevato e complesso. In tutti i principali processi biologici, dall’embriogenesi all’accrescimento, fino all’acquisto delle capacità cognitive, l’orientamento verso un fine appare netto. Pensiamo ai processi di autorganizzazione di automi cellulari. Ha fatto passi da gigante l’analisi fisico-matematica di questi processi di autopoiesi. Un ruolo-chiave ha avuto Ilya Prigogine: ha scoperto che in un sistema aperto che comunica con l’esterno esistono nicchie ordinate che non sono un risultato del caso ma di una struttura spontanea. La forza del caso viene imbrigliata in un piano di costruzione per cui dallo zigote umano esce sempre soltanto un uomo e dallo zigote di un cavallo esce un cavallo. Al convegno spiegherò che la finalità non va cercata a un livello troppo basso o banale».
Il mondo attendeva la presenza intelligente dell’uomo?
«L’uomo è capace di collaborare e negoziare con i suoi simili per realizzare i suoi progetti. Che sono plastici, si adeguano ai suggerimenti, possono essere inseriti in progetti più ampi. Invece la diga costruita dal castoro, la sofisticata tela congegnata dal r agno non sono progetti. Sono frutto di capacità limitate. Nella natura l’uomo è l’unico a non subire fini imposti; se li crea liberamente. E non da solo, come una monade, ma dando vita alle società umane».
La tendenza della natura a favorire l’uomo diventa più chiara con la fisica quantistica?
«I positivisti trovarono un ostacolo già nella termodinamica. Ormai non erano più sostenibili le equazioni newtoniane, perfettamente reversibili. Il processo della vita è irreversibile. È impossibile ripercorrere a ritroso i passaggi che portano dallo zigote, la cellula originaria, fino all’organismo adulto differenziato».
Progettando, l’uomo costruisce una scienza che, secondo alcuni, rende inutile Dio.
«Allora è ben povero il concetto che si ha di Dio».
Si riferisce al Dio «orologiaio»?
«Al vecchio modello di Dio, che non è quello cristiano. Nonostante il caso, è evidente il movimento in una determinata direzione. Si sono create le condizioni perchè l’uomo possa agire con la sua libertà all’interno della natura. In un universo governato da un Dio "orologiaio", non ci sarebbe posto per la libertà. Facciamo un esempio classico: Tizio vuole che Caio e Sempronio s’incontrino ma pensino che l’incontro sia fortuito. Tizio prega Caio di andare al mercato a comprargli delle arance. E subito dopo, separatamente, chiede la stessa cosa a Sempronio. I due, quando si vedono, crederanno che il loro incontro sia casuale. Certi eventi appaiono casuali a un certo livello, ma a un livello superiore risultano frutto di un’intenzione».
Avvenire del 30 novembre 2006

Bullismo rosso

di Massimo Granellini
Nella speranza di aprire un nuovo filone, quello degli adolescenti che non picchiano nessuno, ci siamo imbattuti in un vecchio mostro: l'ideologismo di certi insegnanti. C'è una scuola a Roma, l'istituto Giorgi, che sorge su un piazzale frequentato dalle lucciole. All'uscita i ragazzi si ritrovano a fare lo slalom fra i profilattici usati e le auto dei clienti, i quali avvicinano le studentesse alla fermata dell'autobus equivocando, o fingendo di farlo, sul loro mestiere. I giovani chiedono aiuto e dalla circoscrizione rispondono: «E' un problema grave, che va anzitutto studiato. Istituiremo un forum». Studia oggi, istituisci forum domani, i profilattici usati si accumulano e le auto dei clienti pure. Esasperati, i ragazzi convocano un'assemblea. Per organizzare ronde bulliste immortalabili dal videofonino? Macché. Quei pericolosi reazionari si limitano a indire una manifestazione di protesta. E poiché sanno di vivere nella patria del perbenismo retorico, precisano che l'iniziativa non avrà carattere razzista.
A questo punto v'aspettereste di veder irrompere i professori al fianco degli studenti. Non vivono anche loro circondati dalle stesse brutture? Infatti gli insegnanti irrompono. Ma per prendere le distanze. Due di essi scrivono una lettera aperta ai ragazzi in cui li invitano «a non cadere in strumentalizzazioni politiche tipiche dell'intolleranza xenofoba». Certo, il disagio esiste. Ma «va analizzato complessivamente, incidendo sulle cause che lo determinano come lo sfruttamento della prostituzione e lo schiavismo». In attesa di rifare il mondo, magari resuscitando Lenin e Mao tse Tung, il consiglio illuminato dei prof è di rassegnarsi a subire qualsiasi angheria. Su una cosa hanno sicuramente ragione: il problema principale di quella scuola non sono le prostitute.

La Stampa del 28 novembre 2006

24 novembre 2006

I giovani scrittori? Figli di un dio minore

di Fabrizio Ottaviani
Come sa chiunque abbia sfogliato un volume tradizionale di storia della letteratura, l’attribuzione del titolo di scrittore passa attraverso una sorta di inchiesta araldica. Si parte dal presupposto che la facoltà di creare libri che sfidino il tempo discenda da un rapporto diretto tra chi la possiede e chi desidera possederla. In altre parole non esisterebbero scrittori, o meglio veri scrittori, che non abbiano debiti profondi nei confronti dei loro predecessori. Si diventa eterni andando a bottega, intrattenendo carteggi con i grandi, e naturalmente sudando sulle loro opere. I grandi libri nascono solo da altri libri grandi, e ogni capolavoro è il frutto di un lungo apprendistato condotto sul lascito dei maestri.
Stando così le cose, è facile immaginare che reazione possa avere un critico letterario se l’inchiesta araldica, invece di imbattersi nel consueto quarto di nobiltà, si trovasse di fronte ad autori la cui prima fonte di ispirazione è il cinema di serie B, o il fumetto, o i videogame. Nella migliore delle ipotesi, sospetterebbe di avere di fronte un minore.
Una delle accuse mosse agli scrittori dell’ultima generazione è appunto di essersi affrancati con troppa disinvoltura, di aver spezzato il filo con il passato recente della letteratura. Ma è proprio così? Ed è così per tutti, o esiste un nucleo di narratori nati tra il 1960 e il 1980 che non solo ammettono di averne, ma rivendicano con orgoglio le loro genealogie novecentesche? È quanto tenterà di stabilire un convegno che si apre oggi a Palermo, in occasione della consegna del premio Mondello, e che per due giorni raccoglierà attorno ad un tavolo scrittori e critici letterari allo scopo di disegnare la mappa delle ascendenze della nuova narrativa italiana. Franco Cordelli, Filippo La Porta, Massimo Onofri ed altri non meno attenti studiosi si ritroveranno a gomito a gomito con alcuni giovani protagonisti dell’ultima stagione letteraria, da Giosuè Calaciura a Mario Desiati, da Alessandro Piperno a Giuseppe Genna (questi ultimi due a loro volta critici letterari).
Se tutto andrà bene, la fama di autori «mutanti», sradicati ed estranei alla straordinaria ambizione che muoveva i loro omologhi novecenteschi si rivelerà una calunnia. Se tutto andrà male, il convegno equivarrà a mettere il dito nella piaga, se non si trasformerà addirittura in una trappola per scrittori.
La trappola potrebbe rivelarsi soffice se non si farà torto al Novecento nell’attimo stesso in cui si vuole omaggiarlo. Quello da poco tramontato è stato un secolo che ha ridotto in polvere tutte le metafore forti, ossia pomposamente vacue, e che ha fatto del parricidio un passaggio obbligato. Se si vogliono stabilire dei rimandi tra la giovane narrativa e i classici del Novecento sarà preferibile rinunciare alle filiazioni e alle ambizioni di maggiorascato, ripiegando su una libera imitazione di modelli più o meno disponibili.
Non tutto il Novecento, infatti, ci è ugualmente lontano. Per esempio, tra gli autori dei quali è più facile individuare le tracce nelle opere dei giovani narratori vi sono certamente Thomas Pynchon e Raymond Carver. Il primo ha influenzato la nutrita compagine degli scrittori postmoderni, da Massimiliano Parente a Leonardo Colombati, da Tommaso Pincio a Nicola Lagioia a Giuseppe Genna; il secondo in forme più o meno attenuate dilaga un po’ ovunque, in particolare tra gli autori pubblicati dalla minimum fax (si pensi al Paolo Cognetti del Manuale per ragazze di successo); ma ha senso in questo caso parlare di ritorno al ’900? O non siamo piuttosto ancora nel suo cono d’ombra, o di luce? Probabilmente Colombati e Lagioia non trattano Pynchon da nonno americano, come imporrebbe l’anagrafe, ma alla stregua di un fratello maggiore, così come Silvia Ballestra potrebbe fare con Tondelli.
Ben più arduo riconoscere l’impronta di autori italiani, anche se viventi, anche se dagli evidenti tratti postnovecenteschi. Gadda, Moravia, Manganelli, Volponi, Sciascia, Bufalino, Arbasino, Malerba erano e sono troppo bravi e idiosincratici per consentire prestiti. Sarà per una sorta di provincialismo al contrario, sarà perché i moduli stranieri hanno vinto lealmente la battaglia: ma pare difficile individuarne gli emuli, anche solo parziali. Certo vi sono delle eccezioni: Mario Desiati e Alberto Garlini sono impensabili senza Pasolini, la mano della Ortese sostiene a tratti quella di Valeria Parrella e forse il brio di Tiziano Scarpa ha origini perfettamente europee. Ma in ogni caso il rapporto di causa ed effetto è quantitativamente asimmetrico.
Dopo aver ricordato che il Novecento non è un secolo tutto d’oro, e che esiste un Novecento ingombrante e retrogrado alle cui rimesse può essere addossato quanto di meno ambizioso presenta l’attuale panorama editoriale, dal noir a certi pasticci finto-perversi (vedi l’ultimo romanzo di Isabella Santacroce), non resta che accennare a due aspetti che hanno il loro peso, nell’impedire un libero flusso dal secolo passato a quello presente.
Il primo problema, che si avvia a diventare sempre più coriaceo, è che ormai da qualche anno la pratica letteraria per molti giovani scrittori è mutata. Servendoci di una distinzione del semiologo Lotman, diremo che si è passati da una cultura del libro, dove si impara a scrivere leggendo testi esemplari, a una cultura della regola, dove si impara a scrivere leggendo dei manuali. È questa la rivoluzione silenziosa, per non dire subdola, che ci distaccherà dal vecchio modo di fare letteratura, e che renderà il Novecento definitivamente inaccessibile. Finora non si è trattato di una rivoluzione benefica: anzi, sembra ormai chiaro che se in passato l’imitazione servile di un autore generava paradossalmente, di tanto in tanto, originali personalità letterarie, oggi le scuole di scrittura creativa generano testi anonimi. Il romanzo si dirige verso l’anonimato: sempre più spesso la smorfia espressionistica o gergale, la veemenza vitalistica, la polemica sociale servono solo a velare il congegno d’ordinanza.
Il secondo problema è che gli scrittori del Novecento rivelano una tipica forma di strabismo. Un occhio guarda al solido mondo dell’800, l’altro alla crisi della tarda modernità. Forse il Pasolini di Petrolio, forse certo Calvino e certo Manganelli alla fine sono riusciti ad abbandonare del tutto il vecchio mondo; ma la loro forza intellettuale si è formata sullo scontro tra ciò che è saldo, o almeno relativamente saldo, e la prospettiva della crisi. Condizione oggi impossibile da replicare, e con essa il grande romanzo, genere letterario che (lo ricordava Bachtin) nasce dalla percezione di una crisi in corso, ma non ancora compiuta; da uno spaesamento drammatico, non da uno stato smaccatamente apolide.
Ecco, forse è a questo che dovremmo pensare mentre andiamo a caccia di ascendenze: che potrebbero somigliare, e non per colpa degli scrittori, a biglietti di banca fuori corso, o a titoli nobiliari che le nuove repubbliche non possono o non vogliono riconoscere.
«Il Giornale» del 23 novembre 2006

Emergenza bullismo: severità e tempi lunghi

Bisogna evitare di dividersi in nome di terapie contrapposte
Gabriella Sartori
Violenza, bullismo e simili nella scuola. La cosa peggiore, adesso, sarebbe se, dopo la fiammata di attenzione sui media dovuta alla "scoperta" (improvvisa e un po' ipocrita) di un male che sta sotto gli occhi da tempo, tutto rientrasse nel silenzio. Fino alla prossima "emergenza", un po' come spesso è successo - per esempio - per mafia e camorra. No, sono problemi gravi, sono problemi di tutti. Bisogna continuare a parlarne, a pensarci, specie adesso quando, mentre sta esaurendosi la fase della "denuncia" si sta passando a quella, più impegnativa, del "che fare". Qui le ricette si sprecano (anche perché, sulle cause di tale e tanto disastro, le analisi sono, com'è naturale, molte, varie, legittime, anche se non sempre serie). Oscillano, comunque, tra i due poli opposti della severità subito a quello della via per così educativa da considerare nella prospettiva dei tempi lunghi.
Sono probabilmente necessarie ambedue. L'importante sarebbe che, al di là della legittima diversità di opinioni, si trovasse un piano comune di accordo basato su alcuni punti fermi accettati da tutti. Primo, il problema è di natura generale (non solo scolastica, non solo nazionale: colpisce, più gravemente di quanto non colpisca l'Italia "cattolica" e "arretrata", anche la Spagna "progressista", la Gran Bretagna patria della democrazia, la Francia, patria dei diritti, ecc.). Dunque, il problema, che è educativo, va affrontato non solo dalla scuola, ma da tutte le agenzie: famiglia, politica, istituzioni, mass media, ecc. Il manifesto dedicato ai problemi educativi pubblicato l'anno scorso e sottoscritto da numerose personalità, scrittori, educatori, intellettuali, di vario orientamento politico e ideale, potrebbe essere riconsiderato anche da chi, allora, lo bocciò con motivazioni dettate più dalla contrapposizione politica che altro.
Si dovrebbe inoltre, soprattutto in un momento particolare come questo, evitare di continuare a mandare ai giovani messaggi "contraddittori" (non si può in vocare maggiore "severità" e "serietà" dentro e fuori della scuola e contemporaneamente, "promuovere" l'uso della cannabis o raccomandare agli insegnanti di promuovere di più, sempre e comunque).
Infine, si sia tutti attenti a che le prime misure educativo-disciplinari prese dalle scuole (a Torino e altrove) a carico di allievi e docenti resisi responsabili di storie inammissibili, vengano realmente messe in atto in nome di un'educazione al rispetto delle regole, o se si vuole della cultura della legalità che tutti invocano, ma solo a parole. Certo sarebbe come cominciare a realizzare, all'interno della scuola, il principio, fondamentale per un paese civile, della "certezza della pena" che, pur da tutti invocato a parole, è continuamente smentito nei fatti nella vita del Paese. Perché non cominciare proprio dal poco ("punizioni" non solo "decise", ma anche "applicate"), e proprio dalla scuola, se, come tutti ammettono, essa resta una delle principali agenzie educative della società?
«Avvenire» del 23 novembre 2006

Quei falsi orizzonti sulla strada degli adolescenti

I giovani e la violenza, sconfitta per tutti
di Davide Rondoni
Si sta consumando lì. Si sta compiendo lì, nei corpi dei nostri ragazzini la possibile disfatta d'Italia. La nostra reale Caporetto. Nei corpi dei nostri adolescenti. Finiti sul web e poi sulle pagine dei giornali e in tv. In quella loro fame di apparire, e prima nella loro febbre di vita, di sesso, ma fame e febbre ridotta a maschera, a violenza. A schifo. E a sconfitta per tutti. A Milano i magistrati hanno deciso che, per risarcimento e pena, si possano requisire le case dei genitori dei ragazzini accusati di abuso su una undicenne. La motivazione della sentenza dice che quei genitori "non hanno saputo educare i figli". Triste, perduto Paese è quello dove i giudici si mettono a valutare non solo il reato e la sua entità, ma l'educazione data dai genitori. Eppure a questo siamo arrivati. E arrivati tutti insieme.
Quei ragazzi e gli altri che in questi giorni sono saliti alla trista ribalta, non appartengono ad una specie sola, ad un censo solo, ad una zona sola. Sono tutta l'Italia. E lì, nei loro corpi, va in scena la Caporetto per tutti. Le cronache raccontano che mentre si preparava la disfatta di Caporetto i capi dell'esercito e della Nazione erano distrattti, o affaccendati in altro. Anche ora sembra che i capi dei media e delle Istituzioni siano distratti, e affaccendati in altro. Ed ecco lo stupore di dover vedere quel che non pensavamo. Ecco lo scandalo, ipocrita. E le risposte della odiosa retorica e della giustizia che vuol divenire maestra di vita. Ma quei corpi, quelle menti a cosa li abbiamo esposti finora ? di che cosa li abbiamo letteralmente bombardati ? Sesso e violenza sono diventati il pane quotidiano, e quotidiano imbambolamento. Su giornali e mezzi di comunicazione che non sono gestiti da ragazzini, ma da adulti. Che così si arricchiscono. E si fanno una posizione. Anni fa, prima che lo sgomento salisse alla ribalta (da noi come in Francia, come in Spagna e ovunque) i nostri poeti lo avevano preavvertito. Ricordo alcuni libri e ne parlai su un quotidiano. Alcuni dei migliori miei amici poeti italiani fiutavano che la bomba era lì, tra i banchi di scuola. Ma chi li ascolta i poeti ? In questi anni la pubblica discussione e attenzione son state solo su faccende di soldi, su finanziarie e tasse, e sui miti facili e banali del successo, esaltando come artisti solo gli intrattenitori, tra reality e carte patinate. Per poi sentire i giudici che dicono ai genitori: "Non avete dato loro una buona educazione sentimentale". Sui corpi dei ragazzini hanno fatto orrendo pasto creatori di programmi tv, azzimati esperti di comunicazione, consiglieri di amministrazione di aziende che producono certi giochi, certi films e certi giornali. Le loro case vanno sequestrate. I politici approvavano leggi libertine (non libertarie, che è diverso), permettevano dietro la retorica ogni nefandezza a riguardo della identità sessuale. In tutti avanzando la disattenzione ad ogni coltivazione dello spirito, ad ogni educazione al valore infinito della persona. Si sono promossi intellettuali il cui orizzonte esclude che la vita umana abbia rapporto con qualcosa che la trascende, con l' infinito che chiede di entrare nella idea e nella prassi. Per poi stupirsi che questi ragazzini - come i loro padri e madri e fratelli - si buttino come cani affamati sull'uniche cose che sembrano somigliare all'infinito: il sesso, o il potere, o la fama. Diceva uno scrittore francese che il sesso è l'infinito dei cani. Come dire che lì, nell'esperienza di sperdutezza che è propria dell'atto erotico, c'è qualcosa che richiama l'esperienza dell'infinito a cui la natura umana tende. Se si fa crescere l'uomo come un cane (se pur ben vestito e accessoriato) e non lo si educa a giocare il suo desiderio di infinito nell'arte, nella cultura, nella religione, allora non gli resta che buttarsi sul proprio corpo o su quello altrui. Con prepotenza se occorre. I ragazzini nostri vanno educati ad avere un'anima. Ai loro corpi non basta la legalità.
«Avvenire» del 19 novembre 2006

Educare: l'emergenza

Adolescenti violenti? Alcuni scrittori che insegnano nelle scuole superiori intervengono dopo i recenti fatti di cronaca
Di Fulvio Panzeri
Si fa in fretta a prendere due notizie di cronaca, pur se gravi nelle vicende che raccontano, e limitarsi creare un polverone sul contesto in cui sono avvenuti. Così la scuola italiana è ancora una volta nel polverone dei mass-media, che punta l'indice sulla sua impotenza educativa, sulla mancanza di responsabilità nei confronti dei minori che gli vengono affidati. Eppure non è nuovo l'allarme sul contesto educativo generale in cui stanno crescendo i nostri ragazzi, contesto che nei giorni contraddittori dell'adolescenza rischia di scoppiare.
Marco Lodoli, scrittore e professore, è assolutamente d'accordo con questa tesi: «Non è il caso di gettare ancora una volta sulle spalle curve della scuola anche questa colpa. È l'immaginario che la nostra società propone ai giovani da più di vent'anni a essere brutale e invitarli a comportarsi di conseguenza. Violenza, cinismo, brutalità sono i messaggi insiti oggi nella pubblicità, al cinema, nei fumetti con tutta questa invasione di horror, nei videogiochi, nella mania del wrestling. Per un ragazzo diventa un materiale indigeribile, provoca una grave ubriacatura che, di conseguenza, può sfociare in episodi inconsulti, vergognosi come quelli che ci racconta la cronaca». I ritmi stessi dell'adolescenza vengono stravolti: «È necessario invece preservare, le scoperte devono crescere in silenzio, lentamente secondo un percorso di formazione che ora non è più possibile. Da una decina d'anni il giovane è stato inserito nella categoria del consumatore. Chi riesce a proteggersi attraverso alcuni filtri ce la fa, resiste. Chi invece incamera tutta questa elettricità che arriva dall'esterno, invece ad un certo punto va in cortocircuito». Così la scuola accoglie le conseguenze di un disastro culturale che avviene in tutto il contesto della società e ne registra gli effetti negativi.
È concorde su questo anche Paola Mastrocola, l'autrice di La scuola spiegata al mio cane: «Si è imposta l'etica della televisione, la politica del succ esso e del denaro. Valgono solo il principio del piacere e dell'individualità personale. Non è stata la scuola a proporre questo indirizzo, ma si è adeguata, perché né scuola, né famiglia si sono più posti il problema morale dell'educazione dei ragazzi e del rispetto delle regole. La scuola in questi anni ha apprezzato l'estroversione, la furbizia, quella del ragazzino che copia e salta le interrogazioni, ma è sveglio e non viene mai punito. Non è mai stata apprezzata la timidezza, ad esempio, o chi fa il suo dovere di studente. Basti vedere il caso degli allagatori del Parini a Milano, di qualche anno fa: una punizione ridicola, 15 giorni di sospensione, per un fatto così grave».
A questo punto entra in scena un ragazzo che quei giorni li ha vissuti, proprio al Parini. Non un professore, ma uno studente che su quella esperienza del Parini ha scritto anche una serie di racconti, leggeri e svagati, ironici, in concorso al Premio Tondelli per gli inediti, che sarà assegnato a dicembre. Si chiama Giacomo Cardaci ed è stato tra i vincitori del nostro concorso «SMS». Anche lui è molto critico: «Lì al Parini non avevano preventivato le conseguenze del gesto. La punizione faceva ridere: espulsi per due settimane e questi che erano molto ricchi di famiglia avranno pensato di farsi una vacanza. Pur avendo sette in condotta, si viene promossi con ottimi voti. Sono queste le incongruenze del sistema scuola». La scuola si trova un po' con le mani legate, non ha più strumenti e possibilità di intervenire sul piano educativo.
Parla chiaro la scrittrice Mastrocola: «Non ce la facciamo a remare contro il mondo che è andato da tutt'altra parte, nonostante tutte le buone intenzioni. Un esempio banalissimo: se un insegnante in classe dà molti compiti, subito in consiglio di classe il rappresentante fa notare che i genitori non sono contenti. I compiti potrebbero distogliere dal mondo che li circonda, potrebbero essere un antidoto alla troppa televisione e al troppo telefonino. Ep pure i genitori stanno dalla parte antieducativa dei ragazzi e gli insegnanti hanno sempre torto. La scuola avrebbe tutti gli strumenti per opporsi allo sfascio, ma non li può usare. È questo il paradosso».
Per Eraldo Affinati, anch'egli professore e scrittore, non è possibile contrapporsi alla modernità, chiedendo, come faceva Pasolini, trent'anni fa, l'abolizione della televisione, ma una una sorveglianza è necessaria: «C'è bisogno di porre dei correttivi, soprattutto nell'uso indiscriminato di Internet dove c'è tutto, una massa di informazioni che può essere diseducativa. Per stare lì dentro, per navigare, bisogna saper nuotare per stare a galla, altrimenti si affonda. I giovani hanno bisogno di questi strumenti». E aggiunge: «Non tutta la scuola è così. Io che giro l'Italia in vari Istituti ho trovato una provincia molto migliore di quella che descrivono, una scuola che lavora bene, ma che non viene messa sotto le luci dei riflettori».
«Avvenire» del 21 novembre 2006

18 novembre 2006

La vera sfida: imparare a essere eretici

Il filosofo della scienza pone la «non ortodossia» al centro dello sviluppo sociale e della conoscenza
Di Giulio Giorello
Tra fede e progresso c’è una terza via
L’immagine dell’albero delle conoscenze è antica e pregnante, anche per il nostro tempo! I risultati delle varie scienze, le conquiste delle singole discipline e infine i nuovi traguardi indicati dalle più diverse tecnologie sono come le fronde, mentre i principi di base si radicherebbero nel profondo della verità. E ciò può avere anche un corrispettivo sul piano dell’etica e della politica: tanti e magari differenti modi di articolare in superficie quelli che sono gli «irrinunciabili» valori fondamentali. Che cosa c’è che non va allora nell’immagine dell’albero? Semplicemente aveva ragione il Duca di Mantova: l’essere umano (e non solo la donna, come nel Rigoletto) è mobile, «muta d’accento e di pensier». Diversamente da una pianta, non è legato al suolo da questa o quella radice - a parte quei moralisti che sono un po’come gli alberi cui un tempo venivano attaccati i cartelli stradali: prontissimi a indicare la via giusta (questo o quel valore non negoziabile), ma incapaci di praticarlo, perché troppo inchiodati alla missione di imporre a noi altri quello che ritengono sia il nostro bene. Da secoli filosofi e scienziati discutono di quel che caratterizzerebbe l’Homo sapiens rispetto agli altri animali. Le maggiori dimensioni del cervello? Il linguaggio? Qualunque sia la risposta, mi sembra che uno dei più cospicui tratti di quegli strani animali che siamo noi sia l’irresistibile tendenza al movimento e al mutamento: lo teorizzava già Aristotele, ma lo aveva sperimentato ben prima Ulisse, così desideroso di abbracciare Penelope al punto da ripartire immediatamente dopo il travagliato ritorno a Itaca Qualcuno potrebbe concludere che questo non è altro che il sentimento del tempo. Ricordate il prologo della Bisbetica domata? «Vieni, moglie, siediti accanto a me e lascia che il mondo vada come vuole. Non saremo mai più così giovani». Il tempo «tutto dà e tutto toglie», ma questo tipo di filosofia, lungi dall’intristirci, ci «aggrandisce l’animo», almeno se non abbiamo paura di rischiare persino «il volo di Icaro», mossi dalla passione per la conoscenza, per dirla con un illustre, ma molto sfortunato, contemporaneo di William Shakespeare, Giordano Bruno. Insomma, il tempo fa imputridire le radici e, come recitava un detto del Rinascimento, «del tempo è figlia la verità». C’è un equivoco in tutto il dibattito sul cosiddetto «relativismo»: stando alla maggioranza dei suoi detrattori, esso sarebbe il peggior nemico della verità. Coglie nel segno, invece, chi accusa il relativismo di non riconoscere «nulla di definitivo»; ma ciò avviene proprio perché il relativismo sa fare della verità una buona alleata. Per prima cosa, non è affatto vero che il buon relativista metta tutto sullo stesso piano. Abitualmente, è copernicano e non tolemaico; ritiene che le specie evolvano per selezione naturale dovuta alla pressione ambientale e che tutto ciò non dipenda da qualche «disegno intelligente» di un Dio così provvidenziale da essere incomprensibile; fa uso della consapevolezza, ma è disposto ad ammettere con Sigmund Freud la grande forza dell’inconscio; riconosce il potere dell’intelletto, ma non si lascia spaventare dall’idea che le macchine possano dispiegare una qualche «intelligenza artificiale», ecc. Ovviamente può, se lo desidera, mettersi anche nei panni del tolemaico, praticando però il tipo di ironia suggerito a suo tempo da Gottfried Benn, che consisteva nello sperimentare che cosa si prova a collocarsi dall’altra parte. Il punto è che la verità ha più facce, ed è interessante metterle a confronto; anzi, usare l’una contro l’altra. È quasi banale constatare come una dinamica di questo genere si ritrovi sia nelle grandi svolte del pensiero scientifico sia nella cosiddetta pratica «normale» degli scienziati. L’opposizione dello «scettico» può spesso apparire assurda agli occhi di coloro che sono pronti ad accettare l’interpretazione dominante: così, per esempio, le obiezioni di Albert Einstein alla concezione «ortodossa» della meccanica quantistica venivano liquidate come ostinate e irragionevoli; ma, dopo la loro rilettura da parte dell’irlandese John Bell, hanno dispiegato un nuovo scenario di ricerca. Non sto dicendo che, siccome il pluralismo o la discordanza - anzi, il dissenso - si rivelano di fatto un potente stimolo alla crescita della conoscenza, allora si debba promuoverli a nuovi assoluti. Sostengo invece che possiamo scegliere un atteggiamento favorevole a una possibilità indefinita di progresso, nella scienza come nella tecnica, e forse anche altrove. Ma è l’estensione di tale prospettiva ad altre sfere dell’umano che sembra preoccupare di più. A questo punto, è bene replicare con sincerità: come non vogliamo ortodossia in fatto di scienza, non la vogliamo nemmeno nella morale o nel diritto. Molti potrebbero obiettarci che così si compromette qualsiasi legame comunitaristico. E allora? Mi pare piuttosto paradossale che «comunità» o «comunioni» pretendano di formarsi per partecipare a una verità e tributarle un culto! Ma anche da questo paradosso possiamo trarre un insegnamento; per dirla con un filosofo solitario come Andrea Emo, che scrisse migliaia di pagine senza pubblicarne neanche una - tanto poco era interessato ai «valori comuni» -, «la verità è una dissolvitrice di comunità e di comunioni». In altri termini, nella prospettiva che qui adottiamo, non sono le radici (greche, cristiane o magari illuministe, come potrebbe indicare qualcuno per puro spirito di contraddizione) a essere rilevanti, quanto la possibilità di estirparle ogni qual volta l’omaggio a esse rischi di tramutarsi in un’esortazione o, peggio, in un obbligo al conformismo o alla sottomissione. In breve: non c’è alcuna «comunione» che ci liberi né alcuna liberazione che necessariamente ci «accomuni». Ovviamente, possiamo sempre inventare delle forme di verità o delle forme di solidarietà. Ma per verità qui intendiamo uno scopo cui noi riteniamo opportuno tendere se vogliamo arrivare a qualcosa di concreto. E solidarietà non è altro che una forma di cooperazione in nome degli interessi di ciascuno (attenzione, non si cada nell’errore di credere che i differenti interessi dei singoli siano necessariamente egoistici. In molti casi biologia e neurofisiologia ci dicono l’esatto contrario). Se queste condizioni si verificano, riusciamo a riconoscerci l’un l’altro come alleati tra di noi e alleati con il Tempo. Anzi, come recita una vecchia ballata americana: We are a Band of Brothers («Siamo un gruppo di fratelli»). Ma non esageriamo: la storia umana nella Bibbia comincia con la lotta tra Caino e Abele.
«Corriere della sera» del 14 novembre 2006

17 novembre 2006


vignetta di Forattini apparsa su Il Giornale del 17 novembre 2006, in relazione alla trasmissione di Fiorello con scenette satiriche sul Papa Benedetto XVI

Violenti depravati cattivi ...

di Antonio Scurati
Questi ragazzi vivono immersi in un ambiente violento. Il loro non è semplice bullismo. Sono violenti, sono depravati, sono cattivi». Così dice la preside della scuola torinese dove quattro studenti hanno seviziato un loro compagno disabile davanti a una telecamera, per poi diffondere su Google il video del loro misfatto. E' vero. Ha ragione la preside. Questi ragazzi sono violenti, sono depravati, sono cattivi. Sono i nostri ragazzi.
Riconoscerli come «nostri» non conduce a nessun indulgente sociologismo. Capire in che cosa sono «figli del nostro tempo» significa capire che il nostro tempo è il loro tempo. Che il mondo adulto non è più padrone in casa propria. Non è del tutto priva di fondamento la paranoia collettiva che spesso ci fa avvertire i giovani come un'orda di assalitori barbarici guidata dalla stella della predazione. La distanza tra le generazioni non è più stata percepita in modo tanto drammatico almeno dal '68 in qua. Ora, però, non essendoci più una precisa linea di demarcazione ideologica o di rivendicazione politica a dividere l'animale vecchio da quello giovane, l'inflessibile alterità dei «nostri» ragazzi risulta ancora più inquietante di allora. Appare quasi come l'effetto di una mutazione etologica. E' come se, in seno alla specie umana, si fosse prodotta una subspeciazione. La mutazione, però, è ovviamente culturale e tecnologica.
In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che la sfrenatezza, sessuale e distruttiva, dei nostri ragazzi è il lato lugubre di un giubilante giovanilismo. La paranoia anti-giovanile è il rovescio del delirio giovanilistico. Oggi, buona parte della vita sociale, culturale ed economica degli adulti ruota attorno a un simulacro della giovinezza, pencolando tra idolatria e mercificazione. I corpi degli adolescenti sono al centro di un vero e proprio culto sociale e lo scatenamento della libido sessuale, tipico della pubertà, è incitato più che inibito dalla cultura dominante. Insomma, il nostro mondo è il loro mondo e loro ne fanno quello che vogliono. I quattordicenni che, in gruppo, si approfittano sessualmente di una loro insegnante, presumibilmente disturbata, in un bagno di una scuola dell'hinterland milanese come se fossero in un film porno, sembrano quasi eseguire un mandato collettivo. Sono la spia patologica di una normalità abnorme.
In secondo luogo, la loro sfrenatezza manifesta l'assenza del grande inibitore: il senso della morte. I nostri ragazzi sono i figli di una cultura che ha sottoposto a violenta rimozione il senso del tragico. La nostra cultura. Sono crudeli perché noi non gli abbiamo insegnato la morte e la sofferenza. La nostra morte. Morte e sofferenza non sono affatto un dato naturale, come credono gli sciocchi, ma un'esperienza costruita culturalmente. La crudeltà degli adolescenti è un difetto di immaginazione, è l'aberrazione del grande tema sacrificale: quando vedono qualcuno morire o soffrire, non pensano più «quello muore o soffre al posto mio», ma «quello muore o soffre e io no».
L'aspetto agghiacciante dell'episodio della scuola «Albe Steiner» di Torino non sta nel fatto che quattro adolescenti abbiano seviziato un loro compagno, ma che lo abbiano fatto per filmarlo. Hanno perpetrato e vissuto un gesto efferato come uno pseudo-evento, un accadimento creato appositamente per i media. Erano già gli spettatori di loro stessi mentre compivano il male. Questo il risultato della canonizzazione della posizione del telespettatore attuata dalla società dello spettacolo: si impara a rimanere impassibili e indifferenti dinanzi al dolore degli altri. Caso mai, intrattenuti e divertiti.
Noi adulti, d'altronde, li abbiamo educati a rimanere spettatori dinanzi a guerre televisive che provocano centinaia di migliaia di morti. Questo il mondo che abbiamo lasciato in eredità ai nostri ragazzi. Un mondo senza di noi. In questo mondo, infatti, gli «altri» non esistono se non come immagini in un video, simulacri e strumenti del nostro piacere di guardare. E noi adulti, è bene non dimenticarlo, siamo gli «altri» sugli schermi delle vite dei nostri figli.
«La Stampa» del 17 novembre 2006

Scienza, meno superbia

La conoscenza non coincide con la razionalità scientifica, ma esistono altre forme: un intervento del filosofo Evandro Agazzi
Di Evandro Agazzi
Il dibattito periodicamente ricorrente sulla necessità di un nuovo illuminismo ha mostrato quanto questo tema sia insospettatamente vivo e attuale, non soltanto per la varietà delle posizioni sviluppate da chi ha difeso tale necessità, ma anche per le critiche che ad essa sono state rivolte. Il fatto paradossale è che le stesse critiche della ragione non possono fare a meno di esprimersi attraverso "ragionamenti", ossia argomentando e non, ad esempio, battendo il pugno sul tavolo. La ragione quindi esce fortificata dalle stesse operazioni che vorrebbero distruggerla.
Tra le difese più autorevoli e recenti di questo illuminismo figura il famoso discorso tenuto all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006 da Benedetto XVI, un discorso che ha innescato reazioni e polemiche in tutto il mondo per una citazione ivi contenuta (che è stata isolata dal contesto e travisata come un implicito apprezzamento negativo dell’islamismo), ma che in realtà sviluppa un approfondito esame della religione cristiana presentandola come un essenziale connubio di fede e ragione, esplicitamente chiamato dal Pontefice «un incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione».
L’uso della ragione appare strettamente connesso con la conoscenza. Ciò che cambia da una cultura all’altra e da un’epoca all’altra sono le fonti di conoscenza accettate come tali per cui, ad esempio, accanto all’uso dei sensi e del ragionamento, anche la rivelazione religiosa, l’intuizione artistica e il cosiddetto "senso comune" possono esser considerate fonti di conoscenza e risultare perfettamente compatibili con la razionalità. Nel caso della cultura occidentale moderna, il cambiamento più decisivo è consistito nel fatto che la scienza naturale è diventata rapidamente l’unica fonte di conoscenza accreditata, o quanto meno il modello di ogni autentico sapere. E gli altri saperi (ad esempio, la morale, la religione, il diritto, la metafisica intesa come esplorazione delle cause ultime del reale e del senso della vita)? Già Kant aveva sostenuto che, come saperi, essi sono illusori (in quanto manca loro il riferimento diretto a contenti di esperienza sensibile che è tipico delle scienze), anche se sono di rilevanza enorme dal punto di vista esistenziale. In questi settori, delle certezze sono ricercate e anche possibili, e si possono perfino articolare razionalmente, ma a titolo di postulati chiamati a dare un senso alla legge morale di cui avvertiamo la presenza inconfutabile "dentro di noi".
L’illuminismo settecentesco, abitualmente etichettato come il movimento culturale che rivendicava la supremazia della ragione, ha inteso quest’ultima essenzialmente come la ragione esemplificata dalle scienze e, quel che più conta, ha considerato le scienze come la fonte genuina del sapere. Certo, gli illuministi si sono battuti per valori di libertà, giustizia, eguaglianza, per i quali non fornivano certamente pezze giustificative di tipo scientifico e neppure cogenti argomentazioni razionali, come è vero che lo stesso Kant, dopo aver codificato il modello del sapere secondo i canoni della scienza, edificava sulla libertà l’etica del dovere, costruendo "razionalmente", in tal modo, il più importante sistema etico dopo quello di Aristotele. Ciò dice che la cultura illuminista non era, nel complesso, troppo sbilanciata. Tuttavia è pure innegabile che l’aver ridotto alla scienza la sola fonte legittima di conoscenza e l’aver privilegiato la forma scientifica della razionalità era destinato a condurre a quello scientismo che ha profondamente influito sulle filosofie e sul clima culturale generale dell’Ottocento e Novecento. Entro tale prospettiva si ritiene la scienza capace di risolvere tutti i problemi conoscitivi e pratici dell’uomo (se non ancora concretamente, per lo meno in prospettiva) e le altre forme della vita intellettuale e spirituale sono appiattite sul livello dell’emotività e del sentimento, ossia vengono rimosse dal terreno della ragione e di ciò che costi tuisce vera conoscenza. Come conseguenza, quando l’Occidente ha incominciato ad esercitare, nella seconda metà del Novecento, una crescente critica dello scientismo, questa è apparsa come una critica alla razionalità e ne è conseguita una dichiarata tendenza verso l’irrazionalismo.
L’attuale invito ad un rinnovato illuminismo può avere un senso positivo a condizione di non implicare la riduzione scientista, ossia se si pone come programma di estendere l’uso della razionalità, ossia del confronto delle "ragioni", al di là dei confini delle scienze, investendo in particolare i campi dell’etica, dei valori, del senso della vita, delle fedi religiose, vale a dire i problemi sui quali l’umanità d’oggi sente più urgente l’esigenza di orientarsi e circa i quali sono ancora troppo profonde e aspre le contrapposizioni. In questo caso non si tratterà tanto di optare per una ragione "umile" che si accontenta del probabile e del ragionevole, di fronte alla (presunta) ragione "superba" delle scienze, quanto di puntare su una ragione aperta e consapevole delle forme assai differenziate in cui essa si articola, ognuna delle quali ha qualcosa da apportare alla nostra comprensione di ciò che ci circonda, di ciò che siamo, di ciò per cui dobbiamo operare, senza la pretesa di dirci tutta la verità.
«Avvenire» del 17 novembre 2006

La satira senza cuore grottesca maschera di se stessa

Muta e prona di fronte ai veri poteri
Umberto Folena
Dura, implacabile, intoccabile, inflessibile, incorruttibile, infallibile. Uguale per tutti. Chi sarà mai? La giustizia… Ma no. A leggere e sentire quotidiani, radio e tv, è la satira. Pazienza se la sua famiglia s'è allargata, abbracciando dai più raffinati e colti fustigatori di costumi all'ultimo guitto senz'arte né parte, che per il solo fatto di ritrovarsi con un microfono in mano a macinar battute, si convince d'essere un umorista raffinato.
La satira, dunque. Per lei nulla è sacro, quindi nulla è intoccabile. A tal punto da cadere nel paradosso amaro che conosciamo fin dai tempi della tragedia greca. Il liberatore (la satira), una volta eliminato (solo verbalmente, sia chiaro) il tiranno, rimane padrone del palcoscenico della storia (nel nostro caso, dell'industria dei media) e a poco a poco matura tutti i vizi del tiranno di cui ci aveva sbarazzati: onniscienza, onnipotenza, infallibilità e - ma sì - sacralità. Nulla è sacro per la satira, men che meno il Papa. Ad essere sacra è soltanto lei, la satira stessa. Infatti se appena osi muoverle un appunto, ti cala sul capo la scure dei cortigiani scandalizzati e degli inquisitori che strepitano all'eresia. Questo è il grande limite di ciò che oggi chiamiamo satira, anche se spesso è tutt'altro. Forattini, martedì sera al Tg2, la definiva parodia… Ora, nessuno mette in discussione il diritto di satira, né invoca anacronistiche censure. Ma non dovrebbe essere messa in discussione nemmeno l'incontrovertibile evidenza che i diritti, tutti i diritti comportano anche dei doveri. In particolare, la satira di massa (tramite mass media), nell'esercitare il proprio diritto, ha il dovere di tener conto anche dei diritti del pubblico. Primo: non offendere ciò che larga parte del pubblico ha di più caro. È una questione di sensibilità e misura. Una satira senza cuore, che noncurante del diritto altrui, si nega ogni limite e intende affermarsi ad ogni costo, si muta nella maschera grottesca di se stessa: è totalitarismo satirico. Diventa in tutto e per tutto simile a quel potere che intende, con merito, prendere di mira, il potere da desacralizzare. Ma se la satira si considera sacra, intoccabile, è giusto a nostra volta gettarla giù dal trono. Meglio, molto meglio l'umorismo che ricorre - nei modi, negli stili e nella lingua - anche alla satira. L'esempio più alto è quello di Charlie Chaplin, lo Charlot al tempo stesso caustico verso il potere - economico e politico -, ma tenero verso la gente di Tempi moderni e del Grande dittatore. Il Chaplin che sa far sorridere e indignare, dilettare e pensare, commuovere e ridere e piangere. La satira che sa toccare tutte le corde dell'animo umano è la vera satira. La satira che sa individuare il potere vero, quello che se si sente minacciato, reagisce, è la vera satira. E dov'è oggi il potere vero? È in chi sa determinare i modelli di pensiero e di comportamento, stabilire gli stili di vita, dettare le mode. Il vero potere è nei mass media più pervasivi, televisione in testa, e in chi fornisce ai media le risorse per vivere: il grande mercato pubblicitario. Questo è il potere di cui dovrebbe occuparsi la satira. Senonché è lo stesso potere che ospita la satira e le permette di esprimersi. Se in certe circostanze critichiamo la satira debole, che sbaglia mira e tono di voce, è perché della satira sentiamo il bisogno. E restiamo delusi quando la scopriamo muta e prona di fronte alle vere centrali del potere e implacabile verso chi di fatto non può e non vuole reagire.
«Avvenire» del 17 gennaio 2006

14 novembre 2006

Ottaviano come Mussolini: sua la prima marcia su Roma

Una conferenza sul putsch che nel 43 a.C. segnò l’ascesa del futuro Augusto
di Luciano Canfora

Il ciclo di lezioni Pubblichiamo una sintesi della conferenza sul tema «Ottaviano e la prima marcia su Roma», che Luciano Canfora terrà domani nella capitale L’incontro si svolge all’Auditorium Parco della Musica nell’ambito del ciclo «Lezioni di storia. I giorni di Roma», organizzato dalla Fondazione Musica per Roma con l’editore Laterza
È il 19 agosto dell’anno 43 avanti Cristo. «Attraversato il Rubicone, il fiume che segna il confine tra Gallia Cisalpina e Italia, proprio quel fiume che suo padre aveva attraversato allo stesso modo quando ebbe inizio la guerra civile, Ottaviano divise l’esercito in due parti. All’una ordinò di procedere con calma; con l’altra, migliore, mosse rapidamente verso Roma». Così lo storico Appiano di Alessandria narra il secondo passaggio del Rubicone. Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, nonché unico superstite dei capi che, per conto del Senato, hanno affrontato Antonio - l’erede politico di Cesare! -, nella campagna ferocissima sotto Modena, per impedirgli il controllo della Gallia Cisalpina, marcia, appena diciannovenne, contro Roma. Vuole imporre al Senato la propria elezione al consolato, massimo potere statale, in violazione di tutte le leggi della Repubblica. Due legioni chiamate dall’Africa, incaricate di presidiare il Gianicolo per sbarrare la strada all’usurpatore, passano dall’altra parte. Il Senato manda a dire all’usurpatore che si potrebbero indire regolari elezioni cui lui potrebbe partecipare. Ma è troppo tardi. Un manipolo di uomini armati, capeggiati dal centurione Cornelio - è Svetonio che lo racconta - è ormai davanti al Senato. Entrato, getta indietro il mantello e mostrando l’elsa della spada quasi del tutto sfoderata «non esita a dire in piena Curia: «Questa lo farà console se non lo farete voi!». Ottaviano era un precoce. Poco più che adolescente era già un politico consumato, capace in ogni istante di misurare i risultati delle sue azioni ed i rapporti di forza. Usava dire che «coloro che corrono dietro un piccolo vantaggio con un grande rischio sono come quelli che vanno a pesca con un amo d’oro». Mentre marciava su Roma aveva fatto rifugiare le sue donne - la madre Azia e la sorella - nel tempio di Vesta, sotto la protezione delle vestali. Entrato in Roma volle che esse gli venissero incontro sulla soglia del tempio. Sapeva, come già il suo padre adottivo - che era uno scettico, ma anche pontefice massimo - che la religione ha un ruolo fondamentale nella politica. Al suo ingresso in Senato, dopo il liquefarsi degli eserciti regolari che avrebbero dovuto fermarlo, incontrò con fare condiscendente i senatori che fecero la fila per stringergli la mano. In coda alla fila c’era Cicerone, il quale ebbe la debolezza e il cattivo gusto di vantarsi con lui di essere stato il primo a proporre in Senato che gli fosse aperta la strada al consolato. Ottaviano rispose con sarcasmo definendolo «l’ultimo dei suoi amici»: gioco di parole sul doppio valore di «ultimo». Il vecchio statista che si umilia davanti al giovane avventuriero ha suggerito a Ronald Syme in quel capolavoro della storiografia del Novecento che è La rivoluzione romana, il confronto con il vecchio Giolitti che avalla la presa del potere, previa «marcia su Roma», da parte di Mussolini. Come ha scritto efficacemente Arnaldo Momigliano, che lesse quel capolavoro nella Oxford ormai oscurata per timore delle bombe tedesche nel settembre 1939, «il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, tra la conquista del potere di Augusto e il colpo di Stato di Mussolini, e forse quello di Hitler». (Momigliano scriveva queste parole nel 1962 quando non era obbligatorio, per essere «politicamente corretti», affermare che Hitler aveva preso il potere con regolari elezioni). Un pregio grande del libro di Syme era che l’analogia scaturisse dalle cose, mai i nomi della vicenda politica contemporanea sono pronunciati. Le analogie più incisive sono che quelle che non hanno bisogno di cartelli segnalatori. Il fulcro era proprio sul ruolo di Cicerone, statista di consumata esperienza che si illude di pilotare il giovane avventuriero il quale a sua volta si presenta come il difensore della legge e dell’ordine contro l’«eversivo» Marco Antonio. Il «ragazzo» - così Cicerone lo chiamava scrivendo ad amici fidati lettere che tuttora si conservano - sarebbe stato messo da parte una volta assolto il suo compito. Cicerone lo fece colmare di onori prematuri e comandi straordinari, lo fece affiancare ai consoli che combattevano Antonio intorno alla città di Modena. Diceva «bisogna sollevarlo»: tollendus, che in latino significa tanto «portarlo in alto» quanto «toglierlo di mezzo». Credeva di avere a che fare con una pedina. Ottaviano stette al gioco, perseguendo il suo gioco. Riuscì a rimanere unico comandante sul campo delle truppe «regolari» della Repubblica, e qualcuno con buona ragione pensò che avesse liquidato o fatto liquidare lui i due consoli, incredibilmente morti entrambi nella campagna contro Antonio («pari fato» diceva Ovidio, con un allusivo «per uguale fatalità»). Dopo di che, sventato il rischio di vedersi dare il benservito - ma non era facile coi consoli morti tutti e due sul campo -, fece una conversione netta degli eserciti piovutigli tra mano e marciò contro il Senato, attonito e frastornato, invano messo in guardia da Marco Bruto, lontano e pronto ad una nuova guerra civile. Syme aveva scritto il suo grande libro nel 1938, e lo licenziò per la stampa nel giugno ‘39. La situazione politica europea tra la vigliaccheria anglo-francese a Monaco e la caduta di Madrid (marzo ‘39), mentre montava la crisi per Danzica, era radicalmente cambiata. Perciò stonano le parole di comprensione per il regime augusteo che Syme pone al centro della sua prefazione: «Alla fine non resta che accettare il principato poiché esso se da un lato abolisce la libertà politica, dall’altro vale a scongiurare la guerra civile». Illusione rovinosa.
«Corriere della sera» dell’11 novembre 2006

A che ci servono gli intellettuali?

Da «sacerdoti» della verità a comparse sui mass media: oggi l'Italia mette in dubbio il ruolo dei «chierici». Un convegno in Umbria
di Edoardo Castagna
D’Orsi: «Attenzione ai consiglieri del principe: la critica esige distacco» Monticone: «In troppi mettono la cultura al servizio della propria parte ideologica»
Da maestri della pubblica opinione, figure quasi sacerdotali del pensiero critico, a comparse del circo mediatico, immersi in una melassa di volti e parole nella quale, oltretutto, sembrano perfettamente a loro agio. Gli intellettuali oggi sono in crisi, almeno rispetto al ruolo che, dalla nascita della società moderna, hanno sempre rivestito. Tanto che sono diventati una specie di caso clinico da analizzare, come farà a partire da domani il convegno «Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria» organizzato fino a sabato dalla Fondazione Luigi Salvatorelli a Marsciano (Perugia). Perfino questo riconoscersi in una categoria marca una difficoltà: «È un termine che mi lascia un po' perplesso - rileva lo storico Alberto Monticone, che al convegno interverrà sabato - perché indica una sorta di appartenenza specialistica. Invece, la vita intellettuale è una missione, una chiamata, uno strumento di crescita umana verso la comprensione e il dialogo. Verso ciò che noi cristiani chiamiamo sviluppo integrale dell'uomo». A tarpare le ali di questo servizio alla comunità attraverso la consapevolezza e la coscienza è intervenuta anche una lunga attitudine dell'élite culturale italiana: quella di essere intellettuali organici - a un'ideologia, a un partito, a una parte sociale. «Certo, anche gli intellettuali possono prendere posizioni di parte. Però abbiamo visto molti usare gli strumenti della cultura per servire la propria parte e la propria ideologia, fino alla propaganda. Anche se, nel Novecento, proprio tra gli intellettuali organici sono nate le critiche dall'interno alle ideologie di cui prendevano parte». La figura dell'intellettuale è figlia di un lungo processo evolutivo, testimoniata dall'uso ancora corrente, per definirli, del termine «chierici». «Un termine - ricorda l'ideatore del convegno umbro, lo storico Angelo d'Orsi - ereditato dal Medioevo, quando l'uomo di Chiesa era il depositario della cultura, e cristallizzato nel 1927 da Julien Benda nel suo Il tradimento dei chierici». Il «tradimento» della cultura europea era stato lo schierarsi a favore della Grande guerra; una scelta che si spiega ripercorrendo l'evoluzione del «chierico»: «Nel trapasso tra Medioevo ed Età moderna nacque l'intellettuale consigliere del principe, colui che dà precetti di ars politica. È un paradosso: se questa è un'ambizione eterna degli intellettuali, nello stesso tempo l'uomo di pensiero, quando la realizza, tradisce la sua funzione. L'intellettuale deve essere una figura critica, non può legarsi al potere». E si torna al problema dell'intellettuale organico. «Il secondo dopoguerra - prosegue D'Orsi -è stato un grande momento di esaltazione dell'impegno vicino o dentro ai partiti, soprattutto al Partito comunista. È il periodo delle associazioni politiche, dei manifesti, degli appelli, delle manifestazioni collettive degli intellettuali. Un grande impegno che finì per essere anche impegno di schieramento». Ancora una volta, il «tradimento dei chierici»? D'Orsi fa qualche distinguo: «L'intellettuale deve avere allo stesso tempo un occhio freddo e un occhio caldo: freddo nell'analisi, caldo nella passione, anche politica. Ma l'uomo di cultura deve dichiararle, le sue passioni, e avere l'onestà intellettuale di contraddire se stesso quando documenti, testi o dati mettono in crisi il proprio schieramento. La doppia veste dell'osservatore partecipe, insomma». Quello del secondo dopoguerra non fu soltanto l'epoca degli intellettuali organici al Pci, ma anche quella di un risveglio della cultura cattolica. L'intellettuale cattolico, riflette Monticone, si trova in una condizione peculiare perché «per i cattolici il lavoro intellettuale è parte integrante della vita comunitaria. Dopo la Seconda guerra mondiale, c'è stata una grande attività nell'associazionismo cattolico delle professioni: medici, giuristi, insegnanti, docenti universitari… Professioni evidentemente legate all'attività culturale. Questa vitalità diede un'impronta di forte impegno sul fronte sociale e della testimonianza della qualità della vita, poi rafforzata dal Concilio Vaticano II. La Gaudium et spes, per esempio, indica una funzione specifica dei laici nella vita della Chiesa, in particolare di quelli che si richiamano alla cultura. Tutti i laici cristiani sono sollecitati a farsi testimoni del Vangelo nelle realtà temporali, con una particolare attenzione a quelli che, attraverso la cultura, allo sviluppo della ragione e alla mediazione culturale possono arricchire l'attività evangelizzatrice della Chiesa». Ma poi, sia nel campo cattolico che in quello laico, dopo la fiammata degli anni Cinquanta e Sessanta è stato il tempo del riflusso «finché - continua D'Orsi - tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta è emersa una crisi dell'impegno e dello stesso lavoro intellettuale, che è diventato una professione e ha perso la sua sostanza etica e la sua funzione critica. È prevalsa l'attenzione alle logiche del mercato e del potere: pensiamo ai tanti sessantottini subito entrati nelle istituzioni, subito sistemati in maniera rapida e indolore con una capacità di mimetismo straordinaria. Anche per questo oggi gli intellettuali non godono più di molto credito, e la loro stessa funzione viene revocata in dubbio. Da "sacerdoti" della verità, gli intellettuali si sono accodati a un punto di vista di parte». In qualche modo «tradendo» ancora, conclude D'Orsi: «Oggi abbiamo visto troppi intellettuali a favore della guerra. Ma la guerra è la negazione stessa del logos, della parola. Si dice anche: "La parola passa alle armi"».
«Avvenire» del 14 novembre 2006

La scuola di Draghi

La sortita del Governatore, gli impegni dei ministri
di Giuseppe De Rita

Misericordia, anche lui... Credo che questa sia stata la reazione di qualche smagato opinionista di fronte alla potenziale iscrizione anche di Mario Draghi alla lunga schiera di coloro che da anni ripetono la nobile solfa della decisiva centralità della formazione, dell’innovazione, della ricerca, del fattore umano, della società della conoscenza; senza mai uscire da un’intenzionalità così generica da avere come unico sbocco concreto la richiesta, non sempre corrisposta, di maggiori risorse finanziarie alla scuola, all’università, agli enti di ricerca. Eppure l’esortazione, ancorché inconcludente, resta la tendenza retorica di tanti politici, accademici, uomini delle istituzioni, esponenti delle rappresentanze imprenditoriali e sindacali, amministratori locali, presidenti di club e associazioni di vario tipo. Per fortuna, nella sua lectio all’università di Roma, Mario Draghi si è sottratto alla tentazione puramente esortativa; anzi la lettura in filigrana del suo testo dimostra una coperta ma determinata volontà di uscire dall’esortazione generica e di mettere a fuoco i trascorsi e l’innovativo sviluppo del nostro sistema formativo, andando coraggiosamente in controtendenza rispetto ai pesanti interessi e poteri oggi in gioco. Tre sono le opzioni di Draghi. La prima, esplicita, è quella di immettere nel sistema delle massicce dosi di competizione e concorrenza fra sedi e processi di formazione; la seconda, coperta, è che tali sedi e processi devono avere forte autonomia organizzativa e al limite strategica; la terza, semi-esplicita ma conseguente alle precedenti, è potenziare la responsabilità che (per garantire autonomia e competizione) l’azione pubblica deve esercitare sui contenuti e sulle procedure di misurazione e valutazione dell’efficienza nonché dell’efficacia delle varie sedi formative. Rileggiamoci queste tre opzioni. Sono di piana razionalità, com’è nello stile di Draghi, ma sono anche sottilmente «faziose» cioè volutamente in controtendenza. Chi gestisce oggi la formazione in Italia non ama la logica della competizione (il sistema è pubblico, unitario e uniforme); non ama l’autonomia delle sedi formative, come dimostra il penoso trascinarsi da vent’anni delle istanze di autonomia scolastica e universitaria; non ama la cultura della misurazione e della valutazione, anzi la vede come una tecnocratica invasione nella dignità del formatore e nella libertà del ricercatore. Ma proprio per questa triplice opposizione è meritoria la provocazione di Draghi: i gestori del sistema (politici o sindacalisti che siano) potranno in futuro non tener conto delle sue tre opzioni e continuare a privilegiare la dimensione accentrata, uniforme, non competitiva e impiegatizia del sistema; ma avranno sempre meno la copertura loro garantita dalla ricorrente magniloquenza del retorico primato del fattore umano e dell’innovazione, della scuola e della ricerca. Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato ancorché Draghi lo evochi con mano leggera: il recupero di una buona piattaforma di cultura generalista, forse il grande tema del futuro se si vuole capire quale istruzione si debba prioritariamente perseguire. Scrive Draghi: «La formazione può essere maggiormente indirizzata verso l’acquisizione di abilità generali che siano anche di incoraggiamento a perseguire gli studi fino a gradi più elevati» e (aggiungo io) a fornire ai singoli quell’elasticità mentale che oggi è necessaria in ogni professione e per tutta la vita di lavoro.
Anche qui la provocazione faziosa è ben leggibile, se si pensa alla ubriacatura di specializzazioni che ha colpito la scuola e più ancora l’università italiana (oltre 3 mila corsi di laurea nel primo triennio) e che ha fatto dimenticare che senza una buona cultura di base siamo preda del genericismo più fatuo e i giovani non riescono neppure a scegliere consapevolmente un qualsiasi percorso specializzato (ne sono doloroso esempio vivente i quasi 60 mila iscritti a Scienze delle Comunicazioni). Se in conclusione la sortita di Draghi non verrà derubricata a evento ufficialmondano, essa impone un ripensamento di fondo di tutta la nostra politica formativa. Mi domando se qualcuno avrà voglia di farlo, oltre e dopo i condizionamenti finanziari e sindacali che si intrecciano nell’attuale Finanziaria; forse non sarebbe male che, su impulso di Prodi, i ministri competenti si accordassero per redigere una «nota aggiuntiva» che impostasse un ormai indispensabile percorso di lungo periodo per lo sviluppo formativo. È infatti incivile che si resti ancora per molto a declamare il primato dell’innovazione culturale, senza però innovare gli strumenti a essa dedicati.
«Corriere della sera» del 13 novembre 2006

«Insegnanti e competizione per ripartire»

di Mario Draghi
(...) Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei Paesi dell’Ocse. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il Paese vive. Il rapido aumento dell’occupazione degli ultimi anni, favorito dalla moderazione salariale, dalla legalizzazione di parte dell’immigrazione, dalle riforme del mercato del lavoro, ha portato a un fisiologico rallentamento nella dinamica della produttività. Vi si è aggiunto però un deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema economico. (...). Il divario La partecipazione al mercato del lavoro in Italia (...) è ancora molto inferiore alla media europea, in particolare per le donne, i giovani e le classi di età più elevate. Una maggiore istruzione tende a ridurre questi divari. Nei Paesi dell’Ocse il tasso di occupazione medio dei maschi di età compresa tra i 25 e i 64 anni con un grado di istruzione universitario è di 15 punti percentuali superiore a quello di coloro che possiedono solo un diploma di scuola secondaria inferiore; per le donne il divario sale a 30 punti. (...). Stime del Servizio studi della Banca d’Italia indicano che, a parità di ogni altra circostanza, nel nostro Paese la probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta di 2,4 punti percentuali per ogni anno di scuola frequentato. Nelle regioni meridionali questo valore sale a 3,2, indice di una maggiore scarsità relativa di lavoratori qualificati. (...). Più elevati livelli di istruzione favoriscono guadagni di produttività. Una misura imperfetta di questa relazione è desumibile dal legame tra titolo di studio e reddito da lavoro (...). Nella maggioranza dei Paesi dell’Ocse, la remunerazione delle persone con un titolo equivalente alla nostra laurea specialistica supera di almeno il 50 per cento quella dei lavoratori con diploma di scuola secondaria. I differenziali salariali tra lavoratori in possesso di diploma e quelli con la sola licenza media sono compresi tra il 15 e il 30 per cento. In Italia il rendimento privato dell’istruzione è inferiore alla media dei Paesi dell’Ocse (...). Quale istruzione Nel secolo scorso la scuola e l’università italiane hanno sostenuto la crescita economica e civile del Paese; sono divenute meno elitarie, si sono progressivamente aperte alla società; educando milioni di cittadini che ne erano prima esclusi, hanno ridotto le disuguaglianze, ma hanno reso allo stesso tempo più difficile conseguire un elevato standard qualitativo. (...). Nonostante i significativi progressi conseguiti nell’innalzare il livello di istruzione dei più giovani, nel 2005 la quota di diplomati nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni era solo del 37,5 per cento, un valore inferiore di quasi otto punti alla media dei Paesi dell’Ocse. Ancora più elevato era il differenziale nella quota di laureati, che in Italia raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei Paesi dell’Ocse. (...). Troppi adolescenti non frequentano tuttora la scuola e quelli che lo fanno mostrano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto ai loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 conseguivano il diploma, un valore tra i più bassi nel confronto con i paesi avanzati. Secondo le periodiche rilevazioni dell’Ocse gli studenti italiani alla fine della scuola dell’obbligo si collocano agli ultimi posti nell’apprendimento della matematica (...). Fondi sprecati I nostri problemi non dipendono da un ammontare inadeguato di risorse pubbliche destinate all’istruzione scolastica. La spesa per studente nella scuola dell’obbligo e in quella secondaria è anzi più elevata rispetto alla media dei Paesi dell’Ocse, per effetto non già di maggiori retribuzioni pro capite del personale docente, bensì di un più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in Italia ogni cento alunni vi sono 9,4 insegnanti nelle scuole secondarie e 9,2 nelle scuole elementari, a fronte di valori pari a 7,4 e 6,1 nei Paesi dell’Ocse e a 8,5 e 6,8 nella media dei Paesi europei. Sull’alto rapporto insegnanti/alunni in Italia influiscono scelte di politica sociale, come l’ampio sostegno agli studenti diversamente abili e la fornitura di servizi educativi in loco anche a comunità di piccole dimensioni sparse sul territorio. Ma pur tenendo conto di questi fattori, il divario con gli altri Paesi rimane elevato, riflettendo tra l’altro la frammentazione degli insegnamenti, e non si traduce in una miglior qualità dei risultati scolastici. (...) Gli effetti derivanti da un innalzamento dei livelli medi di istruzione possono essere più o meno intensi a seconda degli indirizzi formativi che si promuovono: sono più efficaci quelli che accrescono la mobilità di impiego dei lavoratori e, soprattutto, la diffusione di nuove idee. (...) Pur riconoscendo il ruolo importante che le scuole tecniche e professionali svolgono ancora per il nostro sistema produttivo, la formazione scolastica può essere maggiormente indirizzata verso l’acquisizione di abilità generali, che siano anche di incoraggiamento a proseguire gli studi fino ai gradi più elevati. Sotto la media Questo ci porta a discutere brevemente dell’università. Nella popolazione più giovane, compresa tra 25 e 34 anni, la quota che in Italia completa un corso di studi postsecondari (...) è ancora al di sotto della media dei principali Paesi industriali. I tassi di abbandono nell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla media degli stessi paesi. L’incidenza dei laureati che conseguono un titolo di specializzazione postlaurea permane in Italia molto bassa, collocando il nostro paese alla quart’ultima posizione fra i Paesi dell’Ocse. Il recente incremento nel numero di laureati si è concentrato nei nuovi percorsi a breve durata (...) indirizzati soprattutto verso le aree giuridiche e politico-sociali. Più in generale, la composizione per corso di studi degli studenti universitari italiani appare sbilanciata, nel confronto internazionale, verso le discipline umanistiche e sociali a scapito di quelle tecniche e scientifiche. (...) Parte della spiegazione sta nelle elevate rendite di cui godono alcune professioni, rendite che distorcono le scelte delle famiglie, e nella insufficiente domanda di qualifiche tecnico-scientifiche alte da parte delle imprese. Le risorse pubbliche destinate all’istruzione post-secondaria sono relativamente minori in Italia che in molti altri paesi avanzati. Questo è anche il contraltare delle maggiori risorse destinate all’istruzione primaria e secondaria. (...) Non è una scelta lungimirante in un mondo in cui l’innovazione è la chiave di volta dello sviluppo. Linee evolutive Nessuno dovrebbe ormai aver dubbi in Italia sull’urgenza di rimettere in moto la crescita economica. (... E ...) per le ragioni che ho provato fin qui ad elencare, l’istruzione è uno dei più importanti capitoli di un’azione di riforma volta a modificare il contesto in cui è inserito il sistema. Una efficace politica dell’istruzione deve conciliare l’eccellenza con l’equa diffusione delle opportunità di istruirsi nella misura massima desiderata. Non vi è conflitto fra questi due obiettivi, purché il soggetto pubblico persegua l’obiettivo di livellare le opportunità di partenza e compia scelte gestionali che permettano anche al mercato di selezionare l’eccellenza. (...) Garantire a tutti i giovani le medesime opportunità di successo nell’apprendimento, purché si adoperino per meritarlo, è la chiave per innalzare insieme l’efficienza e l’equità nel campo dell’istruzione. Entrambi gli obiettivi possono essere perseguiti in vari modi fra loro complementari. Nella scuola può essere utile aumentare la concorrenza fra gli istituti, sia nell’ambito pubblico sia in quello privato, con modalità di finanziamento che da un lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne la possibilità di scelta. L’informazione che guida le famiglie nelle scelte scolastiche appare insufficiente: oltre alla prospettiva di ottenere un diploma uguale per tutti, vanno loro offerti criteri uniformi di valutazione, che permettano scelte mirate. Va eliminato l’incentivo perverso, per famiglie e scuole, a colludere nell’abbassare gli standard qualitativi dell’insegnamento, specialmente se il finanziamento rimane legato esclusivamente al numero di iscrizioni. (...) Considerazioni non dissimili valgono per l’università, istituzione essenziale per una economia che voglia restare a pieno titolo nel novero di quelle avanzate. Negli anni recenti importanti interventi hanno interessato l’università italiana. Per la prima volta si è proceduto a una valutazione della qualità dell’attività di ricerca. Nonostante tutte le difficoltà di misurazione, essa può essere utilizzata in tempi brevi per orientare i finanziamenti pubblici destinati ai singoli atenei. E’importante che il lavoro svolto non si tramuti in un’occasione persa. La trasparenza La trasparenza e il pubblico accesso al processo di valutazione contribuiscono a rafforzare il confronto tra le università, accrescendo la consapevolezza delle scelte degli studenti, soprattutto di quelli meno inseriti nei circuiti informativi più ricchi. E’auspicabile che ciò costituisca il primo gradino di un’azione tesa a stimolare la concorrenza tra università, accrescendo gli incentivi all’innalzamento degli standard di qualità nella ricerca e nella didattica, nella selezione dei docenti.
«Corriere della sera» del 10 novembre 2006

Egemonia culturale e i revisionisti che si fanno leggere

di Pierluigi Battista
Sulla Stampa Giovanni De Luna ha sostenuto, con evidente disappunto, che nello scontro politico-storiografico sul fascismo e la Resistenza avrebbero vinto i «revisionisti». La prova principale sarebbe la ragguardevole quantità di copie vendute dei libri che mettono in cattiva luce le gesta di alcuni gruppi partigiani all’indomani della Liberazione, tra stragi e vendette sui «vinti». Un’altra prova è lo spazio che la neovulgata revisionista avrebbe sugli schermi televisivi, un nuovo potere mediatico capace di modellare il senso comune e il tono dominante del discorso pubblico: una nuova egemonia destinata a subentrare a quella, oramai svanita, un tempo saldamente nelle mani della sinistra. Ma si tratta di prove non convincenti, prove che non provano granché. Quello dell’egemonia televisiva revisionista è un argomento fattualmente vacillante. La storia in tv è un supermercato variegato e pluralistico, come De Luna, da molti anni a fianco di Alessandro Cecchi Paone in una fortunata serie di trasmissioni televisive dedicate alla storia, ben sa. Ma anche il boom di vendite dei libri di Giampaolo Pansa non è una novità della storia editoriale italiana. Anzi, il divario tra gli orientamenti dominanti nella storiografia consacrata e politicamente accreditata e lo straordinario successo di vendite di libri di orientamento opposto, è una costante delle vicende dell’editoria italiana. Come non ricordare il cipiglio sprezzante, il sussiego, l’avversione e persino l’ostilità per i libri di storia di Indro Montanelli? Libri vendutissimi, politicamente e culturalmente estranei all’ortodossia storiografica antifascista, e che da tempo immemorabile hanno usato, ha ragione Mario Cervi a ricordarlo sul Giornale, categorie interpretative della Resistenza in chiave di «guerra civile» che nell’accademia di sinistra hanno dovuto attendere lo sdoganamento culturale di Claudio Pavone (all’inizio degli anni Novanta) per essere prese in considerazione. Esattamente come accade per Pansa, anche allora si deploravano i libri di Montanelli perché semplicistici, pettegoli, adusi a ricostruire la storia dal buco della serratura, privi di note a pié di pagina. Ma quei libri, anche in tempi di indiscussa egemonia culturale della sinistra, vendevano, stabilivano un rapporto di fedeltà con un pubblico popolare, e non solo per la scorrevolezza e la limpidezza della scrittura così in contrasto con quella, pesante e legnosa, degli storici di professione. Qualcosa di analogo accadde anche con i libri di Giovannino Guareschi, tanto disprezzati dalla critica «colta» quanto apprezzati da un pubblico vasto (e, in tempi più recenti, anche con i libri di Oriana Fallaci è successo qualcosa del genere). Forse Guareschi incarnava un’egemonia culturale così incontrastata e trionfale? O non sarà il caso di chiedersi come mai, nella storia editoriale italiana, i gusti del pubblico quasi mai hanno coinciso con gli orientamenti dell’establishment culturale, come a confermare quella frattura tra élite e popolo così clamorosamente messa in evidenza in questi ultimi anni di storia repubblicana? E del resto non dovrebbe proprio la sinistra interrogarsi sull’invisibilità della sua migliore storiografia? Qualche sera fa, nella trasmissione «Otto e mezzo», Sergio Luzzatto ha detto, che prima e meglio di Pansa, i capitoli più bui e cruenti della storia italiana post-Liberazione sono stati affrontati in modo «eccellente» dai lavori dello storico Massimo Storchi. Restava solo da chiedersi perché un libro così «eccellente» fu accolto dall’ostracismo silenzioso della sinistra e dei grandi giornali (con la sola eccezione di una pagina della Stampa).
«Corriere della sera» del 13 novembre 2006

11 novembre 2006

La vera scienza non è mai astiosa

Dopo il discorso del Papa alla Pontificia Accademia e il dibattito aperto da Boncinelli, Cavalli Sforza e D'Agostino il rischio è confondere, come Dawkins, polemica e verità
Di Fiorenzo Facchini
Una concezione totalizzante della ricerca, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri processi conoscitivi, diventa scientismo. È una visione ancora operante nella cultura di oggi, ma anacronistica, che rivela la crisi del riduzionismo

Il fascino della scienza viene dal fatto che la conoscenza umana sembra non avere confini. La scienza, intesa come ambito di esplorazione della natura e della sua razionalità, rappresenta un campo privilegiato per allargare le conoscenze. Ma non si può ignorare un problema che di tanto in tanto si ripropone: Ci sono limiti o confini per la ricerca scientifica? Quali?
Domande non nuove, ma sempre di grande attualità, come dimostrano frequenti interventi di scienziati che rivendicano la libertà della scienza su riviste specializzate e su giornali di opinione. La vicenda referendaria dello scorso anno lo evidenziò. Eventi che si svolgono sotto i nostri occhi, dalla conferenza di Venezia sul futuro della scienza al Festival di Genova sulla scienza, sono occasioni per riproporcele. Per non parlare degli interventi di Benedetto XVI che anche nelle singole parole vengono passati al vaglio critico.
Parlare di limiti della scienza o richiamare problemi che non siano di natura meramente scientifica sembra evocare tempi da inquisizione e riportare all'epoca premoderna. Si tratti delle ricerche sulle cellule staminali o sul cervello o sull'evoluzione vengono rivendicati il valore conoscitivo della scienza, la libertà e l'autonomia della ricerca.
Alcuni recenti interventi di scienziati sulla stampa inducono a qualche riflessione. Mi riferisco a quelli di Edoardo Boncinelli (sul «Corriere della Sera»), che hanno preso lo spunto da alcuni rilievi fatti in campo cattolico a proposito del Festival della Scienza a Genova, e a quello di Luca e Francesco Cavalli Sforza (su «La Repubblica») relativo a un passo del recente discorso di Benedetto XVI alla Pontificia Università Lateranense. Come ha rilevato Francesco D'Agostino su questo giornale in un interessante dialogo con Boncinelli, sono fuori discussione i meriti e le possibilità della scienza. Ma non si deve pensare che la scienza sia l'unica forma valida di conoscenza o possa rispondere alle domande di senso che l' uomo si pone. In realtà non è la scienza, ma più spesso sono le persone che fanno scienza a voler trarre dalla scienza quello che la scienza non può dirci o a precludere altre forme di conoscenza. Le posizioni, polemiche e astiose, espresse anche recentemente da Dawkins su evoluzione e religione ne sono un esempio eclatante.
Ma forse il punto più critico che intercetta la ricerca scientifica rimane quello della tecnica che viene utilizzata e delle applicazioni dei risultati raggiunti. Benedetto XVI nel citato discorso ha osservato che "il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un'intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l'uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico". Qualora ciò avvenisse si avrebbero conseguenze rovinose per l'uomo. Questo richiamo è stato visto da Luca e Francesco Cavalli Sforza (in una esegesi piuttosto parziale del testo), come una critica alla scienza sperimentale instaurata da Galileo, quasi "una seconda condanna e un ritorno a un passato lontano di secoli". A parte il fatto che la scienza e il metodo galileiano non possono esaurirsi nella tecnica sperimentale, per conoscere il pensiero del Papa su Galileo basterebbe rileggere il discorso fatto nel mese scorso a Verona nel Convegno ecclesiale. Certamente "la scienza usa la sperimentazione come mezzo per giungere alla verità", come viene affermato nel citato articolo. Ma anche la sperimentazione non è esente da giudizi di valore. Un sperimentazione che comportasse la morte o gravi danni a degli esseri umani sarebbe praticabile? Giovanni Paolo II ha osservato che «il progresso scientifico non può pretendere di situarsi in una sorta di terreno neutro. La norma etica, fondata nel rispetto della dignità delle persone deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell'applicazione dei risultati in essa raggiunti» (Ai partecipanti di due Convegni di Medicina e Chirurgia, 27 ottobre, 1980).
Va inoltre rilevato che qui non è in gioco una verità di fede (e di verità, secondo gli autori dell'articolo, ce ne sarebbero tante quante le religioni…); è in gioco la ragione, la sua capacità di riconoscere il valore dell'uomo e quindi la verità dell'uomo.
Si affaccia il problema non nuovo del rapporto fra scienza e tecnica nella ricerca della verità mediante i mezzi della tecnica. Come pure diventa rilevante per il ricercatore il fine per cui la ricerca viene effettuata e l'uso che se ne potrà fare. La tecnica è ambivalente, «può essere impiegata per il bene come per il male» (Giovanni Paolo II, Agli scienziati di Colonia, 15.11.1980).
Non possono essere negate le istanze di ordine etico, nel momento stesso in cui viene affermata la libertà della ricerca e l'autonomia della scienza, riconosciuta anche dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 36). La ricerca, come la tecnica e la sperimentazione, sono subordinate al rispetto della dignità dell'uomo. E' una esigenza della verità dell'uomo.
Nella scienza ci sono poi dei confini dettati dall'orizzonte in cui ci si muove e dalle metodologie impiegate. Pretendere di andare oltre può essere una tentazione per il ricercatore. Ma se lo scienziato lo facesse nelle sue interpretazioni, dovrebbe esplicitarlo, così da non presentare come scienza la sua opinione.
Secondo l'accezione comune nella nostra cultura, la scienza si basa su quello che è osservabile e sperimentabile. Di conseguenza la sua competenza riguarda l'orizzonte conoscitivo delle scienze empiriche. Proprio per questo si tratta di una conoscenza parziale da integrare con altre forme di conoscenza, come quelle della filosofia e della teologia, per avvicinarsi alla verità delle cose e dell'uomo, come più volte ha rilevato Giovanni Paolo II e recentemente anche Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. Lunedì Benedetto XVI nell'incontro con la Pontificia Accademia delle Scienze è tornato su questo argomento sollecitando una integrazione tra scienza, filosofia e teologia sia in ordine agli interrogativi più radicali dell'uomo sull'esistenza, sia per quanto si riferisce all'interpretazione di eventi passati e alla predicibilità di eventi futuri.
Una visione totalizzante della scienza, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri approcci conoscitivi, diventa scientismo, un posizione ancora presente nella cultura contemporanea, ma anacronistica.
Nella riflessione epistemologica moderna si riconosce la crisi del riduzionismo e si avverte la necessità di superarlo ripensando gli stessi fondamenti delle scienze. Molti equivoci sorgono, oltre che dalla negazione di approcci diversi dal proprio, dalla confusione dei piani di conoscenza. A volte si giunge alla denigrazione e quasi all'accanimento verso chi non la pensa allo stesso modo. Le personali convinzioni non dovrebbero mai impedire il dialogo riconoscendo ciò che è specifico di ognuno e ricercando qualche base comune. La vera scienza non è mai settaria.
«Avvenire» dell’8 novembre 2006

Dio c’entra con la vita pubblica

Riflessione da un costume USA
di Davide Rondoni
God Bless America. Così ha salutato i suoi fan la "regina" democratica Hillary Clinton. Una dei vincitori. Allo stesso modo salutava (e saluterà) lo sconfitto di queste elezioni di mezzo, il presidente Bush. Dalla grande sfida americana arrivano tante indicazioni che esperti di politica e di società stanno valutando. Una indicazione però è già chiara: Dio c'entra con la vita e il bene comuni. Ma Dio è democratico? O è repubblicano? Né l'uno né l'altro. Però Dio c'entra. Questa è una delle lezioni della democrazia americana. Certo, c'è il rischio proprio dei politici di ridurre Dio a un comodo simulacro, a una bandiera utile a sventolare su idee proprie o addirittura propri interessi.
Del resto, questo rischio con Dio lo corriamo tutti, anche da privati cittadini. Ma il fatto resta: dall'America viene una lezione che dovrebbe far pensare molta classe dirigente italiana ed europea, accasciata sui vecchi divani del proprio ateo cinismo o malata di una beffarda distanza dal problema religioso. Dio c'entra con la valutazione della vita. C'entra con i giudizi, con i tentativi per costruire il futuro. Con i tanti dilemmi della nostra epoca. Al fideismo un po' grossolano di Bush i democratici americani non hanno contrapposto un laicismo ateo. Ma altre idee su come Dio c'entra con la vita. Senza tener conto di Dio, ha ricordato più volte Benedetto XVI, non si conosce di che stoffa è tessuto l'uomo. E dunque non si valutano bene i suoi problemi.
A suo tempo il Papa aveva significativamente indicato in Alexis de Toqueville, europeo studioso della nascente società americana, uno dei pensatori più avanzati sul rapporto tra fede e vita civile. Probabilmente Dio non è né un conservatore tradizionalista né uno svagato utopista. Non ha la faccia da guerriero texano, né da attempato fan dei Beatles. Il volto di Dio è una scoperta sempre nuova, per chi gli è fedele. Comprendere il rapporto tra l'esistenza di Dio e la vita pubblica è un'avventura rischiosa, ma inevitabile. I l problema non è "se" Dio c'entra, ma "come". Il problema non è quello posto in modo talora superbo, se non addirittura radicalmente violento, da certi anticristiani di casa nostra. Per costoro infatti Dio non deve entrare. E il fatto che l'uomo sia un essere religioso semplicemente deve essere censurato. Chirurgicamente asportato da tutto ciò che riguarda la vita pubblica. La quale, così amputata di uno dei fattori importanti per la vita umana, diviene non a caso luogo di ogni possibile amputazione. Di ogni sfregio.
Come c'entra nelle faccende sociali il Dio che dice "sì alla vita", richiamato da Benedetto XVI a Verona? È un problema su cui nessun politico può presumere di conoscere la ricetta a priori. Occorre una passione vera per Dio, e una passione vera per gli uomini. La Chiesa cattolica, ha precisato il Papa, non è un attore politico diretto. Ogni volta che qualcuno prova a farla diventare tale - in qualsiasi schieramento - essa perde la sua reale funzione. Che è di tener deste la passione per Dio e la passione per l'uomo. Deste nel popolo. E nei politici. La passione religiosa non è un'irrazionale sentimento che stravolge le cose, che le fa vedere in una luce stramba. Non è una follia. Allargare l'idea di ragione, sta ripetendo Benedetto XVI in questa epoca di tenebre e di speranze.
Si tratta di mostrare che la passione religiosa permette alla ragione di funzionare meglio nel riconoscere i problemi e nel provare a risolverli. Favorisce un'attenzione, una determinazione (ad esempio di fronte alle sofferenze) e una cautela, un saggio senso del limite (ad esempio su tanto scientismo da Frankestein). Oggi diciamo con gli americani di una parte come dell'altra: God bless America. E perciò diciamo che in quel grande paese c'è bisogno di una Chiesa cattolica viva.
«Avvenire» del 10 novembre 2006

Il dilemma di Norimberga: impossibile perdonare, impossibile punire

A proposito della condanna di Saddam
di Antonio Carioti

Vi sono delitti così enormi che è impossibile perdonarli, ma è molto difficile anche punirli in modo equo. È il dilemma di Norimberga, ora riproposto dalla condanna di Saddam Hussein. «Purtroppo, sessant’anni dopo, siamo ancora alla giustizia dei vincitori - commenta Frediano Sessi, studioso della Shoah - che non è realmente di monito ai criminali perché non opera nel senso di sradicare la cultura della violenza. Lo disse con chiarezza Primo Levi: la vendetta non è una soluzione civile. Ma che i gerarchi nazisti dovessero sottostare al giudizio di chi li aveva sconfitti era inevitabile. Che oggi accada lo stesso, dopo tanti sforzi per affermare i diritti umani a livello mondiale, non è buon segno». Più drastico Danilo Zolo, autore del libro La giustizia dei vincitori (Laterza), secondo il quale il processo di Bagdad è molto peggio rispetto a Norimberga: «In quel caso quattro potenze si accordarono per creare la corte, la qualità dei magistrati era alta, c’erano garanzie per gli imputati. Senza contare che i capi nazisti erano gli aggressori, così come i militari giapponesi condannati più tardi a Tokio, mentre Saddam è l’ex tiranno di un Paese invaso. Qui non è neanche giustizia dei vincitori, perché non è affatto sicuro che gli Stati Uniti usciranno vittoriosi dall’Iraq. Il processo è stato voluto da Washington, sulla base di uno statuto redatto da giuristi americani, e manca di ogni legittimazione sulla base del diritto internazionale come dell’ordinamento iracheno. È solo uno strumento per giustificare una guerra preventiva motivata con evidenti imposture». Lo storico Massimo Teodori spazza il campo dalle sottigliezze giuridiche: «È un’astrazione voler regolamentare in termini di diritto la fine di dittature criminali. I processi ai responsabili di delitti contro l’umanità rispondono sempre a criteri di opportunità politica. Con il giudizio di Norimberga si diede una risposta in termini internazionali agli orrori della Seconda guerra mondiale, mentre mi è parso corretto affidare a una corte irachena il compito di processare Saddam Hussein, responsabile in primo luogo di aver massacrato il suo stesso popolo». Sessi la pensa diversamente: «Forse è un’utopia, ma io credo che i crimini contro l’umanità debbano essere puniti da una corte internazionale, con requisiti d’imparzialità. In questo senso il processo al serbo Slobodan Milosevic è stato un passo avanti rispetto a Norimberga, mentre con Saddam siamo tornati indietro, quasi al livello della condanna sommaria inflitta al dittatore romeno Nicolae Ceausescu». «Il caso di Ceausescu - nota Zolo - ricorda un po’quello di Mussolini, anche perché venne fucilato insieme alla moglie. Quanto a Milosevic, era un despota, ma non certo sanguinario come Saddam: del resto gli stessi americani lo avevano coinvolto nella pace di Dayton che pose fine alla guerra in Bosnia. La corte dell’Aja che doveva giudicarlo, prima che morisse per cause naturali, era di gran lunga superiore, per dignità e competenza dei giudici, al tribunale di Bagdad. Però anche i processi per i crimini nella ex Jugoslavia non sono stati equi: basta pensare che il procuratore Carla Del Ponte rifiutò d’indagare sulle atrocità compiute dalle forze della Nato». Teodori è anch’egli scettico sui tribunali internazionali, ma ritiene che a Bagdad il problema sia un altro: «Sarebbe stato meglio che Saddam non fosse stato catturato vivo o avesse fatto la fine di Ceausescu. Allestire un lungo processo, in cui il raìs a volte è apparso come una vittima, è stato un errore. Tanto più che Saddam è stato portato alla sbarra per uno solo degli innumerevoli eccidi compiuti: in teoria bisognerebbe giudicarlo un’infinità di volte. Mi sembra però innegabile che la sua condanna risponda alle aspettative di giustizia della grande maggioranza del popolo iracheno».
«Corriere della sera» del 6 novembre 2006