24 novembre 2006

I giovani scrittori? Figli di un dio minore

di Fabrizio Ottaviani
Come sa chiunque abbia sfogliato un volume tradizionale di storia della letteratura, l’attribuzione del titolo di scrittore passa attraverso una sorta di inchiesta araldica. Si parte dal presupposto che la facoltà di creare libri che sfidino il tempo discenda da un rapporto diretto tra chi la possiede e chi desidera possederla. In altre parole non esisterebbero scrittori, o meglio veri scrittori, che non abbiano debiti profondi nei confronti dei loro predecessori. Si diventa eterni andando a bottega, intrattenendo carteggi con i grandi, e naturalmente sudando sulle loro opere. I grandi libri nascono solo da altri libri grandi, e ogni capolavoro è il frutto di un lungo apprendistato condotto sul lascito dei maestri.
Stando così le cose, è facile immaginare che reazione possa avere un critico letterario se l’inchiesta araldica, invece di imbattersi nel consueto quarto di nobiltà, si trovasse di fronte ad autori la cui prima fonte di ispirazione è il cinema di serie B, o il fumetto, o i videogame. Nella migliore delle ipotesi, sospetterebbe di avere di fronte un minore.
Una delle accuse mosse agli scrittori dell’ultima generazione è appunto di essersi affrancati con troppa disinvoltura, di aver spezzato il filo con il passato recente della letteratura. Ma è proprio così? Ed è così per tutti, o esiste un nucleo di narratori nati tra il 1960 e il 1980 che non solo ammettono di averne, ma rivendicano con orgoglio le loro genealogie novecentesche? È quanto tenterà di stabilire un convegno che si apre oggi a Palermo, in occasione della consegna del premio Mondello, e che per due giorni raccoglierà attorno ad un tavolo scrittori e critici letterari allo scopo di disegnare la mappa delle ascendenze della nuova narrativa italiana. Franco Cordelli, Filippo La Porta, Massimo Onofri ed altri non meno attenti studiosi si ritroveranno a gomito a gomito con alcuni giovani protagonisti dell’ultima stagione letteraria, da Giosuè Calaciura a Mario Desiati, da Alessandro Piperno a Giuseppe Genna (questi ultimi due a loro volta critici letterari).
Se tutto andrà bene, la fama di autori «mutanti», sradicati ed estranei alla straordinaria ambizione che muoveva i loro omologhi novecenteschi si rivelerà una calunnia. Se tutto andrà male, il convegno equivarrà a mettere il dito nella piaga, se non si trasformerà addirittura in una trappola per scrittori.
La trappola potrebbe rivelarsi soffice se non si farà torto al Novecento nell’attimo stesso in cui si vuole omaggiarlo. Quello da poco tramontato è stato un secolo che ha ridotto in polvere tutte le metafore forti, ossia pomposamente vacue, e che ha fatto del parricidio un passaggio obbligato. Se si vogliono stabilire dei rimandi tra la giovane narrativa e i classici del Novecento sarà preferibile rinunciare alle filiazioni e alle ambizioni di maggiorascato, ripiegando su una libera imitazione di modelli più o meno disponibili.
Non tutto il Novecento, infatti, ci è ugualmente lontano. Per esempio, tra gli autori dei quali è più facile individuare le tracce nelle opere dei giovani narratori vi sono certamente Thomas Pynchon e Raymond Carver. Il primo ha influenzato la nutrita compagine degli scrittori postmoderni, da Massimiliano Parente a Leonardo Colombati, da Tommaso Pincio a Nicola Lagioia a Giuseppe Genna; il secondo in forme più o meno attenuate dilaga un po’ ovunque, in particolare tra gli autori pubblicati dalla minimum fax (si pensi al Paolo Cognetti del Manuale per ragazze di successo); ma ha senso in questo caso parlare di ritorno al ’900? O non siamo piuttosto ancora nel suo cono d’ombra, o di luce? Probabilmente Colombati e Lagioia non trattano Pynchon da nonno americano, come imporrebbe l’anagrafe, ma alla stregua di un fratello maggiore, così come Silvia Ballestra potrebbe fare con Tondelli.
Ben più arduo riconoscere l’impronta di autori italiani, anche se viventi, anche se dagli evidenti tratti postnovecenteschi. Gadda, Moravia, Manganelli, Volponi, Sciascia, Bufalino, Arbasino, Malerba erano e sono troppo bravi e idiosincratici per consentire prestiti. Sarà per una sorta di provincialismo al contrario, sarà perché i moduli stranieri hanno vinto lealmente la battaglia: ma pare difficile individuarne gli emuli, anche solo parziali. Certo vi sono delle eccezioni: Mario Desiati e Alberto Garlini sono impensabili senza Pasolini, la mano della Ortese sostiene a tratti quella di Valeria Parrella e forse il brio di Tiziano Scarpa ha origini perfettamente europee. Ma in ogni caso il rapporto di causa ed effetto è quantitativamente asimmetrico.
Dopo aver ricordato che il Novecento non è un secolo tutto d’oro, e che esiste un Novecento ingombrante e retrogrado alle cui rimesse può essere addossato quanto di meno ambizioso presenta l’attuale panorama editoriale, dal noir a certi pasticci finto-perversi (vedi l’ultimo romanzo di Isabella Santacroce), non resta che accennare a due aspetti che hanno il loro peso, nell’impedire un libero flusso dal secolo passato a quello presente.
Il primo problema, che si avvia a diventare sempre più coriaceo, è che ormai da qualche anno la pratica letteraria per molti giovani scrittori è mutata. Servendoci di una distinzione del semiologo Lotman, diremo che si è passati da una cultura del libro, dove si impara a scrivere leggendo testi esemplari, a una cultura della regola, dove si impara a scrivere leggendo dei manuali. È questa la rivoluzione silenziosa, per non dire subdola, che ci distaccherà dal vecchio modo di fare letteratura, e che renderà il Novecento definitivamente inaccessibile. Finora non si è trattato di una rivoluzione benefica: anzi, sembra ormai chiaro che se in passato l’imitazione servile di un autore generava paradossalmente, di tanto in tanto, originali personalità letterarie, oggi le scuole di scrittura creativa generano testi anonimi. Il romanzo si dirige verso l’anonimato: sempre più spesso la smorfia espressionistica o gergale, la veemenza vitalistica, la polemica sociale servono solo a velare il congegno d’ordinanza.
Il secondo problema è che gli scrittori del Novecento rivelano una tipica forma di strabismo. Un occhio guarda al solido mondo dell’800, l’altro alla crisi della tarda modernità. Forse il Pasolini di Petrolio, forse certo Calvino e certo Manganelli alla fine sono riusciti ad abbandonare del tutto il vecchio mondo; ma la loro forza intellettuale si è formata sullo scontro tra ciò che è saldo, o almeno relativamente saldo, e la prospettiva della crisi. Condizione oggi impossibile da replicare, e con essa il grande romanzo, genere letterario che (lo ricordava Bachtin) nasce dalla percezione di una crisi in corso, ma non ancora compiuta; da uno spaesamento drammatico, non da uno stato smaccatamente apolide.
Ecco, forse è a questo che dovremmo pensare mentre andiamo a caccia di ascendenze: che potrebbero somigliare, e non per colpa degli scrittori, a biglietti di banca fuori corso, o a titoli nobiliari che le nuove repubbliche non possono o non vogliono riconoscere.
«Il Giornale» del 23 novembre 2006

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