18 novembre 2006

La vera sfida: imparare a essere eretici

Il filosofo della scienza pone la «non ortodossia» al centro dello sviluppo sociale e della conoscenza
Di Giulio Giorello
Tra fede e progresso c’è una terza via
L’immagine dell’albero delle conoscenze è antica e pregnante, anche per il nostro tempo! I risultati delle varie scienze, le conquiste delle singole discipline e infine i nuovi traguardi indicati dalle più diverse tecnologie sono come le fronde, mentre i principi di base si radicherebbero nel profondo della verità. E ciò può avere anche un corrispettivo sul piano dell’etica e della politica: tanti e magari differenti modi di articolare in superficie quelli che sono gli «irrinunciabili» valori fondamentali. Che cosa c’è che non va allora nell’immagine dell’albero? Semplicemente aveva ragione il Duca di Mantova: l’essere umano (e non solo la donna, come nel Rigoletto) è mobile, «muta d’accento e di pensier». Diversamente da una pianta, non è legato al suolo da questa o quella radice - a parte quei moralisti che sono un po’come gli alberi cui un tempo venivano attaccati i cartelli stradali: prontissimi a indicare la via giusta (questo o quel valore non negoziabile), ma incapaci di praticarlo, perché troppo inchiodati alla missione di imporre a noi altri quello che ritengono sia il nostro bene. Da secoli filosofi e scienziati discutono di quel che caratterizzerebbe l’Homo sapiens rispetto agli altri animali. Le maggiori dimensioni del cervello? Il linguaggio? Qualunque sia la risposta, mi sembra che uno dei più cospicui tratti di quegli strani animali che siamo noi sia l’irresistibile tendenza al movimento e al mutamento: lo teorizzava già Aristotele, ma lo aveva sperimentato ben prima Ulisse, così desideroso di abbracciare Penelope al punto da ripartire immediatamente dopo il travagliato ritorno a Itaca Qualcuno potrebbe concludere che questo non è altro che il sentimento del tempo. Ricordate il prologo della Bisbetica domata? «Vieni, moglie, siediti accanto a me e lascia che il mondo vada come vuole. Non saremo mai più così giovani». Il tempo «tutto dà e tutto toglie», ma questo tipo di filosofia, lungi dall’intristirci, ci «aggrandisce l’animo», almeno se non abbiamo paura di rischiare persino «il volo di Icaro», mossi dalla passione per la conoscenza, per dirla con un illustre, ma molto sfortunato, contemporaneo di William Shakespeare, Giordano Bruno. Insomma, il tempo fa imputridire le radici e, come recitava un detto del Rinascimento, «del tempo è figlia la verità». C’è un equivoco in tutto il dibattito sul cosiddetto «relativismo»: stando alla maggioranza dei suoi detrattori, esso sarebbe il peggior nemico della verità. Coglie nel segno, invece, chi accusa il relativismo di non riconoscere «nulla di definitivo»; ma ciò avviene proprio perché il relativismo sa fare della verità una buona alleata. Per prima cosa, non è affatto vero che il buon relativista metta tutto sullo stesso piano. Abitualmente, è copernicano e non tolemaico; ritiene che le specie evolvano per selezione naturale dovuta alla pressione ambientale e che tutto ciò non dipenda da qualche «disegno intelligente» di un Dio così provvidenziale da essere incomprensibile; fa uso della consapevolezza, ma è disposto ad ammettere con Sigmund Freud la grande forza dell’inconscio; riconosce il potere dell’intelletto, ma non si lascia spaventare dall’idea che le macchine possano dispiegare una qualche «intelligenza artificiale», ecc. Ovviamente può, se lo desidera, mettersi anche nei panni del tolemaico, praticando però il tipo di ironia suggerito a suo tempo da Gottfried Benn, che consisteva nello sperimentare che cosa si prova a collocarsi dall’altra parte. Il punto è che la verità ha più facce, ed è interessante metterle a confronto; anzi, usare l’una contro l’altra. È quasi banale constatare come una dinamica di questo genere si ritrovi sia nelle grandi svolte del pensiero scientifico sia nella cosiddetta pratica «normale» degli scienziati. L’opposizione dello «scettico» può spesso apparire assurda agli occhi di coloro che sono pronti ad accettare l’interpretazione dominante: così, per esempio, le obiezioni di Albert Einstein alla concezione «ortodossa» della meccanica quantistica venivano liquidate come ostinate e irragionevoli; ma, dopo la loro rilettura da parte dell’irlandese John Bell, hanno dispiegato un nuovo scenario di ricerca. Non sto dicendo che, siccome il pluralismo o la discordanza - anzi, il dissenso - si rivelano di fatto un potente stimolo alla crescita della conoscenza, allora si debba promuoverli a nuovi assoluti. Sostengo invece che possiamo scegliere un atteggiamento favorevole a una possibilità indefinita di progresso, nella scienza come nella tecnica, e forse anche altrove. Ma è l’estensione di tale prospettiva ad altre sfere dell’umano che sembra preoccupare di più. A questo punto, è bene replicare con sincerità: come non vogliamo ortodossia in fatto di scienza, non la vogliamo nemmeno nella morale o nel diritto. Molti potrebbero obiettarci che così si compromette qualsiasi legame comunitaristico. E allora? Mi pare piuttosto paradossale che «comunità» o «comunioni» pretendano di formarsi per partecipare a una verità e tributarle un culto! Ma anche da questo paradosso possiamo trarre un insegnamento; per dirla con un filosofo solitario come Andrea Emo, che scrisse migliaia di pagine senza pubblicarne neanche una - tanto poco era interessato ai «valori comuni» -, «la verità è una dissolvitrice di comunità e di comunioni». In altri termini, nella prospettiva che qui adottiamo, non sono le radici (greche, cristiane o magari illuministe, come potrebbe indicare qualcuno per puro spirito di contraddizione) a essere rilevanti, quanto la possibilità di estirparle ogni qual volta l’omaggio a esse rischi di tramutarsi in un’esortazione o, peggio, in un obbligo al conformismo o alla sottomissione. In breve: non c’è alcuna «comunione» che ci liberi né alcuna liberazione che necessariamente ci «accomuni». Ovviamente, possiamo sempre inventare delle forme di verità o delle forme di solidarietà. Ma per verità qui intendiamo uno scopo cui noi riteniamo opportuno tendere se vogliamo arrivare a qualcosa di concreto. E solidarietà non è altro che una forma di cooperazione in nome degli interessi di ciascuno (attenzione, non si cada nell’errore di credere che i differenti interessi dei singoli siano necessariamente egoistici. In molti casi biologia e neurofisiologia ci dicono l’esatto contrario). Se queste condizioni si verificano, riusciamo a riconoscerci l’un l’altro come alleati tra di noi e alleati con il Tempo. Anzi, come recita una vecchia ballata americana: We are a Band of Brothers («Siamo un gruppo di fratelli»). Ma non esageriamo: la storia umana nella Bibbia comincia con la lotta tra Caino e Abele.
«Corriere della sera» del 14 novembre 2006

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