13 dicembre 2006

La propaganda non può riscrivere la storia

La riunione di Teheran
di Andrea Lavazza
Quanto pesa, al di là delle doverose esecrazioni occidentali, la Conferenza sull'Olocausto in corso a Teheran? Poco, se si considera quanto sconosciuti o squalificati siano i 67 «scienziati» di 30 Paesi, tra cui - purtroppo - anche un italiano, convenuti e generosamente accolti in Iran. Molto, quando invece si valuti la luciferina abilità con cui il presidente Ahmadinejad sta usando il Soft power per perseguire i suoi obiettivi.
Mentre la sostanziale impasse Usa in Iraq fa considerare provvisoriamente fallito il tentativo di esportare con le armi la democrazia in Medio Oriente, la strategia del regime degli ayatollah sembra recepire il concetto teorizzato dallo studioso americano Joseph Nye: l'attrattiva ideologica e culturale che una nazione sa costruirsi e, di converso, la repulsione che può indurre per altri Paesi hanno un enorme rilievo nelle relazioni internazionali.
L'odio e l'avversione verso Israele in ampi settori del mondo arabo-islamico sono di lunga tradizione, ma non hanno quasi mai cercato di ammantarsi di una giustificazione storiografica che avesse pretesa di obiettività. La Shoah - recita il lugubre teorema ripetuto anche ieri dal leader iraniano - è una «leggenda» e Israele, nato su quella base, «va cancellato dalla mappa geografica». Nessun rischio che una tesi simile attecchisca negli Stati Uniti o in Europa (in Germania, Austria e Francia negare lo sterminio degli ebrei costituisce un reato); ben diversa la situazione nei Paesi della regione.
Nel suo discorso di apertura, il capo dell'Istituto per gli Affari politici e internazionali del ministero degli Esteri iraniano ha affermato che si intende dare «l'opportunità di discutere gli interrogativi lontano dai tabù e le restrizioni imposte in Occidente». Il tutto senza escludere preliminarmente che nei lager si sia compiuto un genocidio. Tra i relatori prevalgono i negazionisti - compreso il ben noto Robert Faurisson - e, soprattutto, manca chi possa dare un veritiero quadro della r icerca attuale. Un po' come organizzare un convegno che metta in dubbio che la Terra sia sferica senza invitare un docente di astronomia di qualche autorevolezza.
Il Soft power, che nella versione originale non spacciava falsità ma soltanto l'american way of life, qui assume un volto mistificatorio: mette sì in circolazione idee, ma saldando pregiudizi con pseudo-scientificità, facendo coincidere ciò che si vuole sentirsi dire con ciò che si ritiene vero. Di fronte alle opinioni pubbliche che punta a conquistare, l'Iran può da oggi vantare la (presunta) obiettività di un confronto intellettuale internazionale con cui continuare a soffiare sul fuoco del radicalismo.
È una lezione che Ahmadinejad ha imparato in fretta. Come ha convinto il premier palestinese Haniyeh, suo ospite nei giorni scorsi, a proclamare che mai riconoscerà lo Stato di Israele? La risposta è giunta quarantott'ore dopo: 250 milioni di dollari in aiuti alla disastrata amministrazione dell'Anp per il 2007.
Se è vero che negli stessi momenti in cui si apriva la Conferenza un gruppo di studenti ha clamorosamente contestato il presidente all'università Amir Kabir di Teheran, ecco un'altra indicazione che bisogna spingere più sul pedale delle idee che su quello delle sanzioni. Le seconde accendono il nazionalismo e ricompattano la gente intorno al regime, le prime possono ridisegnare un'immagine di Usa ed Europa ben più credibile di un improvvisato convegno. E far crescere l'opposizione a chi cerca di smerciare menzogne come Storia.
«Avvenire» del 12 dicembre 2006

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