23 dicembre 2006

Sentirsi inutili

«La solitudine è il vero dramma del nostro tempo, un periodo storico in cui si parla di grandi comunità, di estensione mondiale della propria appartenenza. In realtà domina l’essere soli, il che significa non soltanto non avere nessuno a cui poter ricorrere e su cui poter contare, ma – cosa ancora più grave – che non c’è nessuno che ha bisogno di noi. E non serve diventare vecchi per rendersene conto, scoprendo che all’improvviso si decade da un ruolo e si muore socialmente privi di scopo»
di Vittorino Andreoli
1 Ogni uomo ha bisogno dell’altro, fin dall’inizio, da quando bambino è legato alla propria madre, senza la quale non ha «dimensione»
2 La separazione di una coppia nasce da un’asimmetria al suo interno, sul senso di inferiorità o superiorità di uno dei due
3 Bisogna invece che entrambi siano consapevoli di avere bisogno reciprocamente e di stare «insieme» in questo preciso senso
4 La fragilità personale può aiutare e molto una relazione. Per questo non può essere un alibi di fronte al suo eventuale fallimento
Questo principio, «Io ho bisogno dell’altro e l’altro ha bisogno di me» si impianta sul precedente, «L’altro da me è in relazione con me», e gli conferisce un senso ancora più profondo e significativo per l’esistenza.
È bene ribadire che i princìpi relativi alle relazioni umane sono motivati dalla vita sociale e dunque da espressioni ed esigenze che si attuano nelle comunità e negli Stati. Hanno bisogno di un potere preposto al funzionamento della polis, che in democrazia è delegato dai cittadini. Si legano, dunque, a una autorità prescelta, mentre i princìpi primi, che appartengono all’etica, non sono mai delegabili.
Il principio aggiunge dunque alla relazione un aspetto nuovo, il cui senso è finalizzato al vivere, mio e di tutta la comunità, e ben si esprime nel «Io ho bisogno dell’altro e l’altro ha bisogno di me», richiamando alla mente il mutuo soccorso, un concetto e un atto pratico che hanno trovato ampia applicazione nella storia e che rappresenta uno dei fondamenti della sociologia.
Per applicare questo principio è necessario essere consapevoli dell’assurdità di ogni presunzione di autosufficienza.
Ma occorre estendere il bisogno non solo alla dimensione della necessità per vivere – e dunque del soccorso quando la vita è in pericolo o ci si sente più fragili –, ma anche attribuirgli un senso positivo: ho bisogno di te per vivere meglio; ho bisogno di te per essere felice; ho bisogno di te per sentirmi sicuro. Insomma, i bisogni sorgono dalla necessità di far fronte a una situazione difficile, ma anche per creare una condizione di serenità e a promuovere gioia e felicità.
La concezione pietista, dominante nella nostra società, ha circoscritto tali bisogni al soccorso. Ma è indubbio che esiste una gioia che si lega proprio all’altro, al piacere della relazione che nasce dall’incontro e dalla unione di due persone.
È giunto così il momento di parlare del piacere, di trovare le valenze che stimolano la vita e la voglia di vivere, e soprattutto di capire che la nostra serenità dipende anche dagli altri, non solo dai propri cari ma anche dagli estranei, poiché il loro benessere è garanzia del mio e il loro star bene li distoglie da intenzioni e comportamenti che possono nuocermi e dunque provocarmi dolore.

SICUREZZA. Bisogna guardare allo scenario attuale in cui il nostro benessere, invece di dipendere da un nemico che ci odia perché ci invidia, si lega alla comunità, in pace con le altre comunità, al rispetto delle diversità che la compongono e che altrimenti le si rivolterebbero contro, provocando dolore e talora morte, come nel caso delle azioni terroristiche. La nostra sicurezza, che è alla base della gioia di vivere, dipende dalla comunità ed è proprio per questo che noi abbiamo bisogno di tutti. Nei condomini molti pensano di proteggersi chiudendo la porta a doppia mandata, rifiutando perfino di conoscere il proprio vicino, ma poi c’è bisogno di lui poiché un danno alla sua abitazione (una perdita d’acqua, ad esempio) potrebbe danneggiare la nostra; oppure lo stesso potrebbe adottare un comportamento che oltrepassa le pareti del suo appartamento.
La sicurezza è il grande problema della società contemporanea, e mentre ci si limita a moltiplicare i controlli e le forze di repressione per impedire crimini o atti terroristici, si dimentica che la semplice applicazione di questo principio eliminerebbe alle radici l’insicurezza e il rischio di dover pagare, anche con la morte, comportamenti di inimicizia da parte di chi si sente inutile all’altro e sa che nessuno ha bisogno di lui; decidendo, per reazione, di spargere il terrore.
Scorgo la mancata applicazione di questo principio quando penso a un sequestro, in cui una persona è succube di un individuo che non ha mai visto; quando penso a un uomo che entra in una scuola e minaccia con le armi ragazzi o bambini. So perfettamente che talvolta si tratta di persone malate, ma sono altrettanto consapevole che in certi casi anche la follia è espressione di esclusione, del sentirsi privi di senso, dell’ammettere che «Nessuno ha bisogno di me e io non servo a nessuno». Il capovolgimento del principio «Io ho bisogno dell’altro e l’altro ha bisogno di me», la miccia vera e potente della violenza che invade le città, e che dunque si riferisce a tutti.

ESSERE UTILE. Ma se da un lato questa è la causa del male, del danno, dall’altro c’è la condizione di chi rimane veramente solo. La solitudine è il grande dramma del nostro tempo, nonostante si parli di grandi comunità e di estensione mondiale della propria appartenenza. In realtà domina l’individuo, e ciò comporta non soltanto non avere alcuno a cui poter ricorrere e su cui poter contare, ma che nessuno ha bisogno di noi.
Bisogna prestare attenzione al la sensazione della propria inutilità. E non bisogna attendere la vecchiaia per scoprire che all’improvviso si decade da un ruolo e si muore socialmente, privati di qualsiasi scopo. Molti sperimentano questa percezione di inutilità ben prima della vecchiaia: esisto, ma non servo a nessuno.
Allora si cerca di fare qualcosa, si spera, ma nessuno apprezza la nostra azione, e si finisce talora col pensare di non potere più nemmeno esistere. È drammatico accorgersi che la propria vita non conta per nessuno.
Il passaggio immediatamente successivo è che essa non abbia valore nemmeno per noi stessi, poiché un uomo, in quanto essere relazionale (l’affermazione è di Aristotele), senza delle relazioni si sente inutile, e allora si fa strada il pensiero della morte o il desiderio di scagliarsi contro la società che lo ha abbandonato e isolato; vuole vendicarsi a ogni costo: sono solo, ma ti distruggo e così ti accorgerai che ci sono, che esisto.
La solitudine è la condizione in cui si è senza nessuno e non si conta per nessuno. È come non esistere; anche la sensazione di avere un corpo «vivo» infastidisce e si desidera morire. Il dramma di molte famiglie e anche la crisi della famiglia dipendono dalla morte di questo principio. Così c’è la moglie che si sente inutile poiché non c’è chi si accorga di quanto fa, oppure un marito che ha l’impressione di non esistere, di essere sopportato – il che è ancora peggio – perché guadagna troppo poco, o perché ha difetti che magari cerca di annegare nel bere, aggiungendo così un altro grave difetto ai precedenti. C’è poi il dramma di non sapere o non voler ascoltare. Un padre che si rende conto di infastidire il figlio, diventa violento con lui, ma in realtà vorrebbe trasmettergli il messaggio che lui comunque esiste, e se non può esprimersi positivamente come pure vorrebbe, poiché ogni tentativo viene vanificato, almeno si prenda atto che esiste come violento, e così si avvia una spirale di violenza che distrugge la famiglia.

BISOGNO DELL’ALTRO. L’uomo, ogni uomo, ha bisogno dell’altro. La storia comincia dal bambino che è legato alla propria madre, senza la quale non ha dimensione, semplicemente «non è». Ma ha bisogno anche dell’attenzione del padre, del quale percepisce la forza, mentre lui è solo un esserino che ancora non cammina e non parla, ma che desidera comunque stare con lui; e il legame tra padre e figlio è prima di tutto legame di bisogni: io figlio ho bisogno di te padre, ma io padre non posso stare senza di te figlio.
Ma oggi, se la paternità è necessaria per il figlio, per il padre può essere semplicemente un peso, economico prima e psicologico poi, soprattutto per i problemi che crea e per le difficoltà che aggiunge a quelle della vita quotidiana.
Passa il tempo e il bambino comincia ad avere bisogno di giocare, di ampliare la conoscenza di sé e del mondo, e allora ha bisogno degli altri bambini, e quelli di lui. Da qui si stabilisce il principio di reciprocità, di identità del bisogno che diventa semplicemente uno stare insieme, perché uno dà all’altro, che riceve e risponde, dando a sua volta. L’esperienza dell’amore è il caso più emblematico in cui uno ha bisogno dell’altro («nec sine te vivere possum – senz a di te non riesco a vivere» scriveva Publio Ovidio Nasone, 43 a.C. - 18 d.C.).
I bisogni si riconoscono in maniera profonda quando una persona cara muore; è allora che ci si rende conto di cosa si dava e si riceveva, magari in modo inconsapevole, senza mostrare gratitudine e senza alcuna reciprocità.
Si giunge all’età in cui il padre ha un estremo bisogno del figlio, che però è sempre occupato, impegnato nei suoi progetti, in relazioni che riguardano la carriera, senza avere mai tempo per andare dal padre, che non ha nulla da offrire in quel senso, ma che ha bisogno di ricevere e di essere accettato con quello che ha. Bisogna che al padre rimanga un po’ di forza, almeno la convinzione di essere utile, poiché altrimenti è solo, senza nessuno, e quando quel figlio passa di corsa a salutarlo, si sente inutile, uno che fa perdere tempo prezioso, e gli resta un solo desiderio: sparire, morire, perché la solitudine evoca solo la morte. Una società che ha ridotto il vecchio a un rottame non può lamentarsi dei costi che comporta la cura della depressione, la solitudine o quelli necessari per le case di riposo (che spesso sono case dell’abbandono). Il principio dell’«Io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me» è stato così distrutto e molti finiscono per essere considerati soltanto pesi, zavorra che sarebbe bene buttare a mare. Abbiamo così una società triste, miserabile, poiché non capisce nulla dell’uomo, ma lo misura solo in base al denaro prodotto. Una società di stupidi idioti.
Non resta che tornare al bisogno dell’altro come condizione per essere sereni e dare serenità, per godere e dare gioia, al bisogno dell’altro per essere felici.

SORRISO. Penso a una curiosa espressione del viso, al sorriso. L’uomo è l’unico essere vivente che lo possiede, l’unico capace di ridere. Certo, c’è anche il sorriso beffardo, sardonico, cinico, ma qui consideriamo il sorriso che esprime soddisfazione, gioia – anche se talvolta è velato di malinconia –, gratitudine per i l trovarsi insieme, significando che in quel momento una parte di me è in te e viceversa.
Un sorriso non costa alcunché, richiede la stessa energia di certe smorfie ingessate e seriose tipiche di «poveracci» che, per i titoli esibiti, credono di essere potenti, mentre sono misantropi maniacali.
Il sorriso: non quello meccanico dei leader politici, maschera che spesso sa di calcolo e di finzione, ma quel sorriso sereno di gratitudine, il sorriso del bambino che ti guarda e poi gioca con te. Il sorriso che trasmette all’altro il messaggio di essere stato notato, di provare simpatia e rispetto, di non temere di doversi nascondere.
Com’è bello sorridere ed essere ricambiati! Spesso vale più di un’infinità di parole. Analogamente, anche abbracciare è bello: chi è solo, chi ha bisogno di tutto, chi ha bisogno di te.
Per lungo tempo è prevalsa l’idea che per aiutare gli altri non è necessario avere a propria volta bisogno degli altri, e che dunque si deve essere forti. Ma tutto ciò ha indotto a credere che solo i forti possono aiutare, mentre i deboli possono soltanto essere aiutati.
La fragilità è invece necessaria, in quanto permette di capire chi si deve o si sta per aiutare. È bello poter dire: «Ho paura, ma posso tentare di sedare la tua paura». Questo succede persino a uno psichiatra, che dà sicurezza a molti suoi pazienti: eppure sa di essere fragile e giunge persino ad avere bisogno di loro. Certo, ci sono gli psichiatri maniacali che sanno tutto e pensano di avere in mano la vita dei loro pazienti, ma non sanno gestire la propria. Io, che sono psichiatra del dolore, capisco il dolore poiché lo provo, e non ho paura di dire ai miei pazienti che conosco la malinconia che curo in loro, non perché l’ho studiata sui libri, ma perché l’ho sperimentata almeno in una parte della mia esistenza. La fragilità è dunque la forza per aiutare: chi si sente forte sa solo giudicare e il giudizio non è mai terapeutico.
LA COPPIA. Tale principio diventa poi il fond amento della coppia, di ogni coppia. Solo se io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, essa trova forza, una forza continua che serve a mantenerla e a rinnovarla. Se è vissuta in modo unilaterale, cessa di funzionare e diventa dipendenza, oppure si produce il distacco dell’uno dall’altro.
La considerazione che la coppia abbia un periodo di tempo entro il quale si consuma, concludendosi con una separazione di fatto o legale, si fonda sull’asimmetria che si viene a creare all’interno, con chi è superiore che si sente legittimato a dominare, oppure anche sul fatto che uno si considera più debole, meno capace dell’altro, e quindi sceglie di rimanere in ombra. Bisogna invece che entrambi siano consapevoli di avere bisogno uno dell’altro e di essere una coppia che non si limita ad assicurare il mutuo soccorso, ma che promuove la propria serenità e dunque la gioia: una coppia che genera felicità reciprocamente e quindi insieme. Questa simmetria è possibile al di fuori dei ruoli sociali e dei compiti pratici (poiché il bisogno è qualcosa di più che poter semplicemente disporre di cose e di denaro), quando si assicura un aiuto per funzioni che sono esistenziali e che si legano specificamente a uno dei componenti la coppia.
Il padre rispetto al figlio ha funzioni diverse sul piano del sostentamento economico, mentre su quello dei bisogni psicologici non esiste differenza, dal momento che la paternità è una condizione che solo quel figlio può permettere.
Al tempo stesso, essere figlio significa avere un padre non solo per i bisogni economici ma soprattutto perché dà sicurezza nel crescere, consente di confrontare visioni e progetti che fanno sentire il padre presente persino quando non c’è, poiché è sempre raggiungibile ed entrambi sono pronti a vedersi e a rispettarsi. E in questo modo si produce una sorta di simbiosi, di complicità che unisce, per cui l’uno non può stare senza l’altro, ne ha bisogno. La sicurezza consiste proprio nel sapere che l’altro c’è e che è disposto a fare quanto è possibile per l’altro che, da parte sua, si aspetta un aiuto.
Questa è la concordanza di intenti che non permette di distinguersi sostanzialmente, anche se le differenze esistono sia sul piano dei ruoli sia su quello dell’età. E se questo è il legame, allora non dipende più soltanto dal tipo di coppia, dall’età o dal vigore, ma si fa sempre più bisogno interiore totale, e dunque realtà che va oltre il corpo: un legame esistenziale in cui l’uno serve alla vita dell’altro e riceve dando ciò di cui egli stesso ha bisogno per vivere, ma anche per vivere bene, godendo anche solo dello stare insieme.
La serenità che si prova nella coppia, il senso di adeguatezza, di rispetto, di necessità e dunque la consapevolezza dell’esserci sono talmente gratificanti da non risultare minimamente intaccati dal declino fisico.
La fragilità – giova ripeterlo – aiuta la relazione e mai la svilisce. Proprio sulla base di queste considerazioni, di fronte a una richiesta che proviene dall’altro, non si deve rifugiarsi in deleghe che sottraggano responsabilità alla coppia.
Se un figlio ha una difficoltà lo si manda dallo psicologo; se la moglie si sente debole, subito si ricorre al medico specialista... Può darsi che ciò sia utile, ma la prima risposta dev’essere quella del coinvolgimento e dell’offerta del proprio aiuto, facendo sentire che si è attenti e che la preoccupazione è fatta propria nella ricerca di una risposta. Questo vale per tutte le piccole soddisfazioni che vanno condivise e non minimizzate come se non avessero alcun valore: è bellissimo godere di un piccolo successo dell’altro poiché si ha la certezza che in fondo è anche la coppia ad averne avuto parte. Insomma, si giunge a un reciproco aiuto, a una reciproca attenzione, per cui è difficile separare l’«io» dal «tu» e si costruisce quel «noi» – oggi poco applicato, purtroppo – che è già una garanzia di buona stabilità.
Analizzando i motivi per cui questa alleanza si rompe si incontra s empre una persona che considera l’altro ormai senza significato, e si sento spesso dire: «Ma io, sa, l’aiuterò; le darò il mio stipendio...». Non si ha mai la percezione di quanto si perde rompendo il legame. E poi in questa società il denaro finisce per contare veramente, mentre l’affetto, che non è valutato in Borsa, finisce per essere nulla.

IL GRUPPO. Dalla coppia si passa al piccolo gruppo, all’importanza del gruppo familiare, ma anche di quello formato da amici, un insieme in cui tuttavia ci deve essere una corrispondenza nei bisogni e non soltanto ostentazione di una grandeur che spesso nasconde le necessità, per mostrare solo una parte della realtà, sovente quella più superficiale. Ci sono gruppi in cui tutto viene nascosto per mettere invece in evidenza un aspetto esclusivo e superficiale, su cui si stabilisce il legame.
Occorre che i gruppi siano improntati alla condivisione, allo scambio di bisogni e quindi alla necessità che l’uno prova dell’altro; in questo modo assolvono ad una funzione di sicurezza e producono un piacere stabile che permette a ciascuno di poter contare sul gruppo, come il resto del gruppo conta su di lui e su ciascun suo componente. I gruppi fondati sul narcisismo sono fatui, mascherano i propri bisogni per estrinsecare invece un’immagine illusoria e superficiale. Gruppi che non relazionano le persone tra loro, ma tutte a un pallone, a una palla da tennis; e basta che quel pallone, quella palla vengano a mancare che ci si ritrova tra perfetti estranei, col fallimento del gruppo.
Dal piccolo gruppo ci si allarga al quartiere, alla città, insomma all’insieme sociale. Un insieme che appare troppo grande per pensare di sentirsene parte. È la condizione della società attuale che manca di coesione e della capacità di riconoscersi in un corpo più vasto che comprende una città intera e persino una nazione: da qui le divisioni e gli antagonismi tra regioni o città. È questa la vera sciagura del nostro Paese: non sentirsi parte atti va di esso e volere sottolinearne solo le divisioni, le contrapposizioni, le incompatibilità.
Così tutto ciò che è res pubblica diventa res nullius, cosa di nessuno, una sine cura che finisce per portare alla distruzione di cose, di parchi e persino di opere d’arte, allontanandoci dalla comunione che è la sola a creare una nazione, un insieme funzionale.
È scioccante constatare la maleducazione esercitata contro il diverso, contro chi non possiede i nostri tratti fisici o psicologici o non appartiene allo nostro gruppo; vedere come sono conciate le città; osservare la violenza che viene esercitata su ciò che non si considera proprio.
Si evidenzia qui l’altro aspetto distruttivo, quello che distingue il «mio» dal «tuo», e la prontezza a scatenarsi per il «mio» rovinando senza il minimo riguardo tutto il resto. La malattia del «mio», la follia del «mio», che allo stesso tempo mette però in risalto ciò che non mi appartiene e diventa quindi di nessuno, e mentre si è pronti ad aggredire chi tocca il mio, il non-mio è a disposizione per essere distrutto o adoperato senza alcun riguardo: ecco il segnale quotidiano, e diventa un sintomo persino banale della mancanza di socialità, della negazione del principio «Io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me», che rende un insieme legato, e il luogo in cui si vive qualcosa di comune, dove è tutto mio, anche ciò che non porta il segno di una proprietà specifica, come pure appartiene all’altro che si lega a me e a tutta la comunità che mi include, non solo teoricamente ma anche di fatto, poiché quella cosa rotta era patrimonio di tutti e dunque di quella comunità della quale io ho bisogno proprio come essa ha bisogno di me.
Queste constatazioni possono apparire utopie, ma sono gli elementi necessari per costruire un insieme e poter dare risposte ai miei bisogni e a quelli di tutti. Per questo io devo dare il mio contributo, esaudire il bisogno che la comunità ha di me e che mi legittima a poter chiedere un aiuto e a rice verlo a mia volta.
È triste constatare il livello al quale è giunto il disfattismo nei confronti del nostro Paese e della società di cui facciamo parte. Una critica totalmente negativa è sempre la premessa per mostrare che si è diversi e dunque distinti, che la comunità è realtà estranea a cui non partecipiamo e con cui non vogliamo avere niente a che fare. Un atteggiamento che esprime asocialità e distruttività: un atto inconsapevole di masochismo e di superficialità. Ciò non significa che si debba rinunciare alla critica per intonare sempre e comunque degli osanna, ma al contrario assumere prima un atteggiamento di partecipazione, di identificazione e poi di critica, che quanto meno deve esprimere dolore per un difetto nostro, e la volontà di sanarlo poiché risulta negativo per tutti.
È insopportabile quando si va in un altro Paese sentire come alcuni connazionali denigrano il nostro Paese, una nazione che viene sconciata poiché viene prospettata in chiave esclusivamente negativa, per potere poi concludere l’analisi tirandosene fuori e mostrando di essere diversi e quindi «altro».
Si tratta di un procedimento antisociale, segnale evidente che non si sente il gruppo sociale come una rete di relazioni in cui anche il movimento di una zona lontana arriva e ci coinvolge e dove il nostro muoversi agita tutto il resto e persino un comportamento da idiota finisce per rompere la rete sociale, soprattutto se sono già presenti delle sfilacciature.
Ecco perché il principio «Io ho bisogno dell’altro e l’altro ha bisogno di me» è morto e ha bisogno di ricostituirsi e di essere riaffermato non con la prosopopea di parole vuote, ma vivendolo e chiedendosi se lo stiamo applicando in ogni nostra azione, sia come coppia sia semplicemente come cittadini negli ambiti in cui siamo un insieme, anche se la percezione sembrerebbe negarlo.


Il poeta dei «Tristia»
Publio Ovidio Nasone nasce il 20 marzo del 43 a.C. a Sulmona, da una famiglia di rango equestre. A 12 anni si reca a Roma con il fratello per completare gli studi. Frequenta le lezioni dei più insigni maestri della capitale, in particolare Marco Aurelio Fusco. Più tardi si reca in visita ad Atene, visitando durante il viaggio di ritorno varie città dell’Asia minore. A differenza del fratello e contro la volontà del padre decide di dedicarsi agli studi letterari. Il successo delle sue opere gli consente di entrare nel circolo di Messalla Corvino e di stringere amicizia con diversi poeti famosi, fra i quali Properzio ed Emilio Macro. Nell’anno 8 d.C., caduto in disgrazia presso Augusto, Ovidio viene relegato nella lontana Tomi, un piccolo centro sul Mar Nero. Non farà più ritorno a Roma e morirà, dopo anni di cupa tristezza, tra il 17 e il 18 d.C.
Ovidio scrisse un gran numero di opere, che possono essere divise in tre gruppi: le opere giovanili o amorose (Amores, Medea, Heroides, Ars amandi, Medicamenta faciei, Remedia amoris), le opere maggiori o della maturità (Metamorfosi, Fasti) e le opere dell’esilio (Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis, Halieutica, Phaenomena, Nux).
Con Ovidio, il più mondano e raffinato poeta latino, si chiude il ciclo della grande elegia romana. Prodigioso improvvisatore, fine conoscitore dell’animo umano, di quello femminile in particolare, Ovidio fa del verso una fedele e plastica espressione dello spirito: agile, ricco di modulazioni, fluente e carezzevole. Il suo distico è una musica che incanta, con le spontanee cadenze, le accorte dislocazioni delle parti, l’eufonia di incontri sillabici e lessicali. È insomma uno dei vertici della perfezione tecnica latina, grazie anche ad una scelta sempre finissima di vocaboli, particolarmente nelle Metamorfosi. Il medioevo considerò Ovidio un poeta non inferiore a Virgilio e il XII secolo può essere considerato un rinascimento ovidiano: in Italia, Francia, Germania, egli fu il «chierico d’amore». Grande fu poi la sua influenza su Dante e sull’immaginario della Divina Commedia.
«Avvenire» del 12 novembre 2006

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