23 dicembre 2006

Siamo tutti uguali (Andreoli 2)

«Il principio in base al quale siamo individualmente diversi l’uno dall’altro ma tutti uguali di fronte alla legge e allo Stato, appare talmente ovvio che sembrerebbe di non doverne parlare. Ma se badiamo ai fatti è necessario allora soffermarci su di esso per una valutazione più attenta e per capire come mai oggi domini l’ineguaglianza: chi si sente in una posizione di privilegio o di maggior potere non riesce a concepire di doversi allineare agli altri nelle situazioni della vita quotidiana e non solo»
di Vittorino Andreoli
Se un padre è magistrato di Cassazione, come può permettere che il nome di suo figlio figuri in un fascicolo giudiziario? Come può la riverita moglie di un personaggio importante comportarsi come una povera casalinga o una extracomunitaria? Se a un esame universitario si presenta il figlio del rettore, non verrà bocciato nemmeno se offende il professore che l’interroga È proprio questo intrecciarsi di favori e di raccomandazioni a convincere ciascuno di noi del fatto che bisogna «arrangiarsi» Negli ospedali, che conosco bene, è interessante vedere il potere di medici che cercano di favorire certi pazienti e naturalmente alcuni colleghi, ma esiste anche un potere degli infermieri che lo esercitano con altrettanta forza
TEMPO DI INEGUAGLIANZA. Il principio secondo il quale siamo individualmente diversi l'uno dall'altro ma tutti uguali di fronte alla legge e allo Stato appare talmente ovvio che sembrerebbe di non doverne parlare, tanto è condiviso. Ma se badiamo ai fatti, e osserviamo che non è per nulla applicato, allora è necessario soffermarci su di esso per farne una valutazione più attenta e superare ogni stereotipo indagando sul perché oggi domini l'ineguaglianza.
La difficoltà sta proprio nel coniugare la diversità - e dunque l'individualità di ciascuno - con l'accettare di essere ognuno uguale a tutti gli altri. Sembra una contraddizione ma colui che, per caratteristiche della personalità o per il ruolo sociale, in certe situazioni si sente in una posizione di privilegio o di maggior potere non riesce a concepire di doversi allineare agli altri.
Se - poniamo - costui è a capo di un dipartimento dell'amministrazione comunale, come può pensare di dover essere "uno qualunque" quando si rivolge a una sezione diversa del Comune o addirittura a un proprio familiare?
Oppure, per fare un altro esempio, se è professore universitario ed è titolare della cattedra di Fisica atomica come potrà diventare un anonimo cittadino quando si reca alla segreteria della facoltà di Lettere dov'è iscritta sua figlia?
I casi citabili possono essere infiniti, e altrettanto infinite sono anche le occasioni in cui l'uguaglianza di fronte alla cosa pubblica non viene rispettata. Ne consegue il fatto che ci sia sempre qualcuno costretto a retrocedere in seconda fila o al posto successivo, sperimentando così di persona l'ineguaglianza. Dico questo per motivare la mia convinzione che nella nostra società questo principio fondamentale dell'uguaglianza sia tutt'altro che applicato.
Ho in mente altri casi eclatanti.
Se un padre è giudice di Cassazione - il più alto grado della magistratura - come può permettere che il nome di suo figlio figuri in un fascicolo giudiziario perché coinvolto in una vicen da poco chiara? E, soprattutto, com'è possibile che non ne parli al proprio collega magistrato, sia pure di un altro dipartimento, e in separata sede gli spieghi bene la questione? Del resto, come fa il titolare della pratica a non acconsentire a questa disuguaglianza, a non accontentare un collega così importante dal quale può dipendere la propria carriera? Quel caso giudiziario seguirà dunque un iter particolare, ma se un'altra persona coinvolta nel medesimo procedimento dovesse chiedere di poter parlare con lo stesso giudice questi - indignato - gli farà presente che ciò è contro la legge e il principio di uguaglianza, e lo rimanderà al dibattito processuale dove tutti hanno uguale possibilità di essere ascoltati e dunque di difendersi.
Vogliamo proseguire? Come può la moglie di un personaggio importante comportarsi come una povera casalinga, o addirittura al pari di un'extracomunitaria? Si chiederebbe dove sia andata a finire la sua dignità, perché ritiene che il ruolo, l'importanza, il censo non possano mai essere dimenticati, trasformandoli così in altrettanti motivi per derogare al principio di uguaglianza.
Qui è opportuno ricordare l'affermazione paradossale di George Orwell secondo la quale «tutti siamo uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri». Quel «più» è qualcosa che taluno vorrebbe vedere stampato, una differenza scolpita nel marmo, quasi biologica.
La questione si fa ancora più spinosa - e naturalmente più pregna di effetti - quando si passa alla sanità, un settore il cui malfunzionamento porta a dover attendere anche mesi per un accertamento dal quale può dipendere un intervento precoce e forse decisivo sul decorso di una malattia. Non disporre di quella diagnosi tempestiva per colpa del sistema-sanità equivale talvolta a una vera condanna a morte.
In questo campo il "passare davanti", non rispettare la graduatoria per un trapianto o per un intervento delicato da cui dipendono la vita o la morte, pone la disuguaglianza in una luce ancor pi ù drammatica. Ma tutto questo oggi accade.
E altrettanto avviene per i concorsi d'esame di ogni tipo, persino quelli in magistratura, o per la nomina a procuratore legale. Ed è prassi purtroppo diffusa che se a un esame universitario si presenta il figlio del rettore non verrà bocciato nemmeno se dovesse offendere il professore che l'interroga. Eppure sappiamo bene che la sanità, l'università, il Comune sono istituzioni della pubblica amministrazione davanti alla quale ogni cittadino dispone di eguali diritti prima ancora di dover pronunciare il proprio nome, come se esistesse solo il titolo di cittadino, e solo quello valesse. Viene in mente - in questo caso con simpatia - la Rivoluzione francese, almeno nella sua fase iniziale, quando appunto il titolo di «citoyen» (cittadino) era l'unico al quale un uomo avesse diritto di fronte allo Stato. In quanto cittadino infatti una persona acquisisce i diritti di tutti, poiché per lo Stato tutti sono cittadini.
È invece proprio questo intrecciarsi di favori, di raccomandazioni, di attenzioni particolari a convincere del fatto che bisogna arrangiarsi per poter ottenere un percorso preferenziale. Si giunge all'assurdo che, di fatto, più nessuno è uguale a un altro davanti all'istituzione pubblica, e che quindi a tutti spetta un trattamento privilegiato.

IL POTERE. La questione che abbiamo iniziato a esplorare ci riporta a un vecchio tema che abbiamo affrontato tempo fa in queste stesse pagine: quello del potere, certamente una condizione che esercita un fascino formidabile su tutti coloro che, sia pure a livelli differenti, lo esercitano o cercano di farlo.
Negli ospedali - che io conosco bene - è interessante osservare il potere di medici che cercano di favorire certi pazienti e naturalmente alcuni colleghi. Esiste però anche un potere degli infermieri, che lo esercitano con altrettanta forza. E lo fanno non solo per rispondere a una richiesta che favorisce chi la fa ma anche per mostrare all'altro la propria posiz ione. Questo malcostume così diffuso serve a entrambi - a chi chiede e a chi risponde - perché mette in evidenza, appunto, un potere: rispettivamente quello di un amico potente e il proprio. Poiché il potere degli infermieri deve trovare la connivenza del medico, spesso quest'ultimo sottostà tacitamente al ricatto ben sapendo che quando sarà lui a chiedere un favore (un "salto" nella lista delle precedenze, o una particolare attenzione in un certo esame) dovrà contare sul tecnico di radiologia o su quello della Tac. Non appena questa operazione di disuguaglianza sarà terminata, di fronte a una richiesta semplice e non mediata dal potere che giunge da un altro cittadino si risponderà che non è possibile soddisfarla poiché facendolo si violerebbe il principio di uguaglianza.
L'abbiamo sottolineato più volte: nella sua forma più semplice e diretta il potere si lega sempre al denaro. È quindi inutile sostenere che "non è più come un tempo", poiché la distinzione tra ricchi e poveri è ancora evidente e di tutto rilievo, non necessariamente perché chi fa un favore per ciò stesso verrà pagato ma perché il ricco è oggetto di invidia da parte del meno abbiente: un sentimento che è di attenzione - se non proprio di attaccamento - e che porta a desiderare di emularne i comportamenti per raggiungerlo nella scala sociale.
Si scivola così in una sorta di dipendenza dall'invidiato, che potrà esercitare facilmente il proprio fascino a suo vantaggio. L'attrazione del denaro non si lega solo al patrimonio, ma soprattutto alla condizione di vita, allo status sociale.
Talvolta accade che questa differenza venga dissimulata: per evitare indagini tributarie si paga chi è incaricato di svolgerle o chi può alleggerire il contenzioso, oppure si cercano consigli per far sparire eventuali falsificazioni smascherate. A questo, e solo a questo, si riduce l'evasione fiscale: un campo nel quale è evidente come l'ineguaglianza possa raggiungere dimensioni tali da provocare ripercussioni su t utti i cittadini.

POTERE MAGRO. Non si deve pensare tuttavia che il fenomeno riguardi solo i piani alti della società, i colletti bianchi e non le tute blu. Basta pensare agli enti che erogano servizi pubblici. Disporre di un amico nella società che gestisce il gas, l'acqua o l'elettricità consente di ottenere favori di cui nessuna persona ricca o plurititolata potrà godere se non riesce ad arrivare esattamente a quel tecnico o a quell'operaio dell'azienda municipalizzata. Ci sono numerosi esempi di servizi che solitamente non vengono concessi e di cui godono invece persone certamente non facoltose ma che appartengono al ceto impiegatizio oppure operaio.
Tutto questo potrà apparire come una sorta di uguaglianza nella distribuzione delle disuguaglianze, ma certo il principio della pari dignità dei cittadini di fronte alle amministrazioni sembra spesso un semplice flatus vocis, che fa persino sorridere. Si genera così una società di diseguali, quantomeno in un settore specifico, così che ognuno può contare su una sfera in cui dispone di un proprio potere che si manifesta anche solo in iter burocratici più semplici e diretti, oppure nell'evitare code, ma soprattutto in favori che hanno una dimensione economica variamente espressa. Questa situazione riguarda la vita quotidiana e si traduce in un disturbo continuo che esercita un peso enorme sulla percezione dello Stato e su quella del proprio stato particolare, in alcuni casi forte e in altri debole.
È difficile sopportare la propria debolezza quando si è appena sperimentato quanto invece si possa essere forti in un settore dove si conta su un amico ben sistemato in un ufficio di potere.
Fin qui abbiamo descritto la disuguaglianza imperante su base singola, che deriva dalla forza individuale di una persona o dalla posizione sociale che essa occupa. Esiste però un potere di disuguaglianza che riguarda anche i gruppi di potere. Qui passiamo di livello, spostandoci sul piano di politici e partiti estremamente atti vi nel produrre disuguaglianze essendo noto - ad esempio - che in un certo settore quel determinato partito gode di particolare influenza. Un tempo tutto questo serviva ad accelerare il corso di un iter burocratico ma anche a procurare posti di lavoro.
I partiti non nascondono affatto questa loro forza poiché tale alone di potere sviluppa una cospicua attrattiva sui loro "clienti", un fascino che si traduce in voti. Attenzione però a credere che il voto sia una cosa da nulla: ricordiamoci che ancora di recente sono stati svelati episodi di compravendita dei consensi elettorali, acquistati un tanto a voto in favore di questo candidato o di quel partito.
Ci sono poi lobby che offrono vantaggi di appartenenza: può trattarsi di istituzioni, club, organizzazioni di varia natura - persino religiosa -, fino a giungere a realtà di tipo criminale che ottengono vantaggi e profitti esercitando il proprio potere d'intimidazione e di ricatto.
Questa descrizione potrà sembrare impietosa, dare persino fastidio. È vero, ci sono anche aree in cui tutto ciò non accade affatto, anche se è più facile che ci siano cittadini che non godono di questi particolari "benefici", ma non esistono zone sociali di purezza assoluta e nelle quali l'uguaglianza sia integralmente garantita.
È necessario avere il coraggio di dire ciò che tutti sanno: è l'inosservanza di questo principio di uguaglianza che disintegra la comunità e il senso di appartenenza sociale. Bisogna invece rallegrarsi se esso viene rispettato, perché allora ci si trova in una condizione di parità, protagonisti sullo stesso piano come cittadini e non comparse di un teatrino dell'assurdo in cui ognuno sfoggia titoli accademici o politici (magari la semplice qualifica di amministratore del condomino), usandoli in modo intimidatorio e pronunciando la bieca e stupida frase «lei non sa chi sono io»...
Ci sono infatti due modi per realizzare la disuguaglianza: elargire un favore all'amico o al potente, oppure intimidire e quindi ricattare. In questo secondo caso il favore viene fatto per difendersi, uscire da una situazione imbarazzante e sgradevole.
Quest'atmosfera incredibile e deleteria la respiriamo fin dall'infanzia - potremmo dire dagli anni dell'asilo - perché il bambino con un cognome importante, che ha una madre ricca o che comunque può contare sul potere del marito, del padre, del suocero, della nonna , di un cognato (in questi casi si esibisce senza pudore tutto l'albero del potere di cui si dispone), sarà trattato con maggiore attenzione rispetto al figlio di una "signora nessuno". E così alle elementari l'incolpevole pargolo riceverà maggiore attenzione e comprensione rispetto ai suoi compagni sperimentando in tal modo quella folle gerarchizzazione che sembra ancora stendere la sua ombra nella nostra scuola, là dove la classe può diventare il luogo delle distinzioni e delle graduatorie dominate dal potere delle famiglie e dalle simpatie, e assai meno dall'abilità o dall'intelligenza. Come conseguenza di ciò non ci si preoccupa più di sviluppare la classe come un gruppo in cui le distinzioni si fondano per raggiungere un unico obiettivo, che è l'apprendimento di tutti e non del singolo. Intendo dire che dovrebbe accadere come in un'orchestra nella quale la capacità di suonare i diversi strumenti differenzia l'uno dall'altro ma tutto poi si ricompone nella sinfonia e nel risultato che è comune, e non ammette alcuna preferenza o distinzione. In un'orchestra non ci sono gerarchie, ma s'impone solo l'unità da cui dipende il fine comune della qualità dell'esecuzione.

MENTALITÀ DEL PRIVILEGIATO. Dentro un clima di disuguaglianza si genera invece la mentalità del privilegiato che porta a cercare sempre la via distintiva anche quando essa non serve a nulla, se non finisce addirittura per complicare un tratto di strada. Si pensa che sia meglio ricorrere all'"amico" facendo dipendere da lui un percorso che invece sarebbe semplice. Senza contare che se al suddetto amico viene un raf freddore tutto rischia di andare a rotoli.
La mentalità del privilegiato porta poi a pensare e a convincersi che in tutte le occasioni e in ogni settore ci sia sempre uno diverso dagli altri. Così quando vediamo attribuire un vantaggio a qualcuno diventiamo sospettosi se non ne godiamo anche noi, e finiamo per protestare per la disuguaglianza: proprio noi, che magari ci adoperiamo per essere diversi dagli altri e ricevere attenzioni specifiche.
Se questa è la mentalità dominante, l'alternativa è tra essere privilegiati oppure svantaggiati. E mentre nel primo caso godiamo della soddisfazione del potere, nel secondo proviamo rabbia per aver subìto un torto che magari non esiste.
Quindi si passa da privilegiati a vittime, senza che mai si abbia la percezione di essere "uno come gli altri", né favorito né prevaricato.
Una simile concezione non crea una comunità né consente di parlare di Stato ma tutt'al più d'un campo di battaglia in cui tutti vogliono vincere, non importa con quali mezzi.
Tutto questo lo si può riscontrare nel banalissimo comportamento generale: l'incapacità di stare in fila, il tentativo di evitarla facendo i furbi oppure dichiarando situazioni estreme che sono volgari strategie per passare davanti all'altro...
Proprio per il suo impatto sulla nostra quotidianità, e dunque per la condizione di privilegio o di sopraffazione sperimentata, l'uguaglianza è una condizione e un principio da affermare oggi con maggiore forza, anzi, con tutte le energie possibili: se si cerca il privilegio a ogni costo - ciascuno nel settore dove può imbrogliare più facilmente - non si riuscirà infatti mai a creare un insieme ma si produrrà sempre un campo di battaglia nel quale ciascuno finirà per combattere contro un altro, e questi a sua volta con un altro ancora, producendo odio e stress.

VITTIMISMO. Non vi è alcun dubbio che lo stress nella nostra società sia legato all'invidia e alla ricerca di vie privilegiate. Tale ricerca diventa condizione di sopraffaz ione e di vittimismo a seconda che uno riesca o meno a superare l'ostacolo. È possibile vedere con chiarezza come ormai ci siano alcuni obbligati a vincere per non ammalarsi e altri che credono di essere sempre sorpassati avvertendo per questo un tale senso di frustrazione da finire col cadere in una vera malattia da stress che si manifesta in malinconia vittimistica o in una rabbia cieca pronta ad abbattersi su chiunque perché questi dev'essere per forza uno che cerca di sopraffarmi.
L'ineguaglianza suggerisce e promuove la falsità poiché essa è sempre un atteggiamento di conquista delle piccole o grandi icone del potere. Lo si vede dai sorrisi elargiti ai piccoli capiufficio, alle mises con cui donne e uomini si presentano sul luogo di lavoro: le prime per sedurre, i secondi per mostrare di far parte del gruppo dei forti e dei ricchi, condizioni che ancora oggi pretendono rispetto poiché incutono timore.
Una delle conseguenze più gravi di questa anomalia che - lo ripeto -, pur aneddotica, è dentro le piccole cose del quotidiano (e non solo) è che se una persona non ricorre a questo sistema gli altri pensano che non lo dia a vedere ma che in realtà lo faccia.
Se ad esempio il giovane che è figlio di una persona importante ha raggiunto obiettivi significativi - almeno rispetto ai suoi coetanei - subito si penserà che è stato aiutato dal genitore, sminuendo dunque il merito di chi ha tagliato un traguardo di prestigio. Viceversa, se non ci è riuscito si troverà in una condizione di grave difficoltà esistenziale perché si dirà di lui che, nonostante il padre e le infinite (anche se presunte) raccomandazioni, è proprio un fallito.
La situazione che ho sin qui descritto àltera l'intero senso sociale delle persone. Si ha l'impressione di vivere in una sorta di teatro dell'assurdo, dove ciò che si vede è esattamente l'opposto di quello che si dovrebbe vedere e che dunque dovrebbe essere.
Ormai accade di frequente che chi lavora in una rete televisiva venga sospet tato di vendere se stesso, a cominciare dal proprio pensiero: una forma di "prostituzione intellettuale" che non è meno grave di quella del corpo. È persino diventato impensabile che qualcuno sia arrivato a occupare una certa posizione solo perché capace e particolarmente motivato per quel tipo di lavoro. Tutto diviene aleatorio perché lo è veramente o perché si suppone che lo sia. Non si ammette mai che esistano condizioni in cui si riesce ad affermarsi senza spinte, senza imbrogli, senza sopraffazioni.

ESAME DI COSCIENZA. Chi descrive la morte del principio di uguaglianza nella nostra società (e lo fa usando toni indignati) deve avere però il coraggio di un esame di coscienza, e dunque di rendere testimonianza del proprio comportamento passato e presente. La mia posizione personale è semplice e non ammette alcuna eccezione. Non ho mai raccomandato nessuno, e naturalmente nemmeno i miei figli.
Quand'è accaduto che l'insistenza di chi mi stava chiedendo un "favore" mi avrebbe impedito di parlare dei princìpi e dell'impossibilità di trasgredirli mi sono limitato a dire che avrei fatto ciò che mi veniva chiesto, senza dare poi seguito alla cosa. Pertanto le persone che hanno pensato di essere state raccomandate da me sappiano (ma già lo sanno) che non l'ho mai fatto, anche se potrò aver detto loro di sì.
Non sono mai intervenuto. Forse due o tre volte ho fatto una telefonata a qualche persona presso la quale mi era stato chiesto di intervenire, dichiarando però subito che mi era stato domandato di farlo in modo insistente e magari intrigante ma che non intendevo raccomandare nessuno. In qualche caso ho persino espresso un'impressione non certo favorevole, ma che rispondeva alle mie conoscenze e convinzioni.
Devo poi aggiungere - e potrà apparire persino temerario, ma è doveroso che lo faccia - come nella mia vita mai e poi mai ho accettato compromessi. Mai ho modificato e tanto meno mercanteggiato idee e posizioni per ottenere un qualsiasi vantaggio. Devo punt ualizzare infine che non amo il potere, e che quando ho raggiunto quasi per inerzia e senza averlo programmato una posizione "forte" l'ho sempre abbandonata magari per cominciare a far qualcosa di completamente diverso.
Chi non ama il potere neppure ama essere potente e dunque mostrarsi forte. Costui nemmeno vorrà raccomandare e promuovere ineguaglianze.
Sono portatore di convinzioni, che difendo. Ma non si tratta di persuasioni preordinate né sensibili al potere. Questa è la mia sola ricchezza, e solo in essa trovo forza: forza per vivere , non per comandare.
Ricordo che una volta mi sono dedicato a un personaggio che è arrivato a occupare un'importante posizione, di averlo fatto dietro sua richiesta, gratuitamente e sobbarcandomi un impegno enorme poiché pensavo di fare cosa utile dal momento che consideravo nefasto il successo di un suo diretto rivale. Ebbene, dopo che costui aveva ammesso più volte di dovermi la sua posizione, passati due giorni dalla sua nomina sono andato a trovarlo e gli ho detto: «Da due giorni penso cosa chiedere per me o per la mia famiglia... e sai a che conclusione sono giunto? Che non ho nulla da chiedere». Posso dunque affermare in tutta sincerità che non ho usato la mia posizione per favorire qualcuno, e che non ho mai usato quella di conoscenti in ruoli di potere per trarne vantaggi.
Mi sono occupato professionalmente di una famiglia che abitava in una casa bellissima, forse nel luogo più artistico della mia città, Verona. Un giorno mi chiamarono per dirmi che avevano deciso di venderla e mi chiesero se volevo acquistarla. Un sogno. Risposi che non potevo acquistare la casa di un mio paziente perché non era corretto, mi sarei sentito per sempre a disagio per aver goduto di un privilegio che del resto mi era già stato anticipato esortandomi all'acquisto.
So che adesso quella casa è di proprietà di un tedesco, e mi dispiace, ma non ho il minimo rimpianto: la coerenza vale più di qualsiasi proprietà immobiliare.

GENTILEZZA. Credo di aver goduto di attenzioni e di gentilezze, e ne sono felice. Se posso, anch'io seguo nei confronti degli altri questo stesso comportamento fatto di cortesia e umanità, di voglia d'aiutare e di stare vicino a chi si trova in difficoltà.
Questi stati d'animo straordinari, che vanno promossi e diffusi non a parole ma attraverso gli esempi, non hanno niente a che spartire con i vantaggi ottenuti all'interno di un mercato che vende potere per acquisire altro potere. Molte di queste compravendite non sono pagate subito né in contanti, ma rimangono tra i debiti che prima o poi vanno saldati concedendo potere. Tutto ciò genera ineguaglianza e rischia di ammazzare definitivamente il principio d'uguaglianza, già cadavere nella nostra società.
«Avvenire» del 26 novembre 2006

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