23 dicembre 2006

Una vita con gli altri

«L’Io talora si allarga fino al piccolo clan, al club, agli amici stretti, ma escludendo tutti gli altri. Ci si rinchiude in una fortezza dove non solo nessuno può entrare, ma dove nessuno può sbirciare: gli altri sono esclusi. E non ci rendiamo conto che una fortezza non è altro che un luogo di paura e di guerra. I castelli servivano a proteggere il conte o il duca da chi aveva motivo per sentirsi sfruttato o non considerato; la fortezza richiama la lotta e il desiderio degli altri di distruggerla»

di Vittorino Andreoli
1 Il nemico coinvolge tanto quanto l’amico, anche se si attivano sentimenti di paura che fanno scattare comportamenti diversi
2 Oggi è il tempo dei nessuno, di chi non richiama su di sé l’attenzione della società, dell’emarginato che non ha nome
3 È ora che si imponga il «noi»: se non altro servirebbe a far sentire alla persona il suo vero ruolo. Soprattutto nel nostro Paese
4 Istruttivo il comportamento della gente nelle strade, questo teatro dell’orrore e dell’assurdo che va in scena quotidianamente
Lo studio della relazione tra uomini è il grande apporto del Novecento. Nel secolo che abbiamo alle spalle si è diventati consapevoli che alcune caratteristiche umane considerate indipendenti dall’ambiente in realtà erano frutto di un incontro tra soggetti e tra il soggetto e l’ambiente fisico o sociale (quest’ultimo in quanto comunità, con tutte le modalità che la regolano).
Tra le applicazioni di questa nuova visione – il cui impatto è come quello di inserire la terza dimensione, la prospettiva, in una rappresentazione piatta – spicca quella nello studio della follia.
Si riteneva, infatti, che essa fosse una caratteristica del singolo e che quindi per poterla studiare e curare si dovesse semplicemente guardare "dentro il malato", cioè nel suo cervello, per individuarne la lesione o la degenerazione che ne sarebbe all’origine, come sosteneva Cesare Lombroso (1835-1909). Era convinzione diffusa che a causare la follia fosse una rottura che poteva manifestarsi in qualsiasi luogo l’uomo si fosse trovato a vivere, e dunque a prescindere dal tipo di relazioni o di esperienze del soggetto (che potevano essere anche opposte tra loro). Oggi sappiamo invece che la relazione è fondamentale, e che non solo la salute mentale di una persona dipende dalle persone con cui vive e dalle esperienze che fa (attribuibili anche agli altri), ma che sovente la "follia" manifestata in un certo ambiente non si esprime in un altro. Sono i casi, per intenderci, di chi tiene un comportamento malato a casa ma non quando è sul lavoro, se è in città ma non se si trova in un luogo isolato. Alla radice di questa constatazione c’è la scoperta che la relazione è il fondamento – il punto da studiare – in qualsiasi caso di follia. Bisogna in primo luogo chiedersi quali siano le tensioni e i sintomi, e poi verificarli. Ma subito dopo occorre chiedersi dove e quando essi si manifestino, cioè in quali relazioni, in quale ambiente fisico, e con quali specifiche persone.
Ciò che vale per la foll ia si ritrova anche nell’educazione, nei comportamenti scolastici, sul lavoro: insomma, nelle relazioni quotidiane, quelle considerate "nella norma".
Il fondamento più recente di questa convinzione proviene dalle scienze biologiche e dalla scoperta che esiste una parte del nostro cervello – definita "plastica" – che si modifica e si struttura in base alle esperienze vissute. In pratica queste diventano struttura cerebrale, che può stabilizzarsi e quindi determinare comportamenti non più controllati ma sempre derivanti proprio da quella esperienza: se essa non ci fosse stata, quel determinato sintomo, quel certo comportamento non si sarebbe mai manifestato.
Questo richiamo all’importanza della relazione è necessario per affermare che la socialità altro non è se non relazione tra uomini e dell’uomo con un dato ambiente, poiché è indubitabile che anche le caratteristiche fisiche e dinamiche di un luogo hanno la loro importanza e siano quindi costitutive di relazioni: penso all’ambiente geografico, nel senso del clima e dell’altitudine, al Nord anziché il Sud del mondo, alla ressa delle città rispetto alla quiete di luoghi montani o desertici. Grande rilievo hanno però soprattutto le persone e la loro capacità di percepire l’altro, attivando una molteplicità di rapporti che portano il singolo a sentirsi come il nodo di una rete stimolabile da qualcosa che si muove anche lontano rispetto alla sua posizione.
Una società può essere considerata come una rete di relazioni che possono sussistere o meno, essere ricche o solo formali, avere una motivazione affettiva o semplicemente burocratica. È come se l’uomo fosse un meccanismo che, una volta stimolato, dà risposte verbali – o emotive – sostanzialmente scontate.
Personalmente sono affascinato da questa visione dell’uomo: l’uomo – intendo – come individuo che si sente legato ad altri, sia quando vi si relaziona direttamente sia quando non parla con essi, tuttavia percependoli poiché esistono comunicazioni silenziose, non verbali, che ci toccano e agiscono su di noi.
Pur nella drammaticità del tessuto relazionale che allora ci toccò di vivere, anche senza essere stati coinvolti direttamente da quell’evento, una delle esperienze più chiare di quanto vado dicendo fu quell’11 settembre in cui caddero le Torri gemelle di New York. Tutti fummo afferrati dapprima dalla paura e poi dal dolore per quanto era capitato in quel luogo fisicamente lontanissimo da noi.
Quell’evento ci coinvolse anche se si era verificato in un’area distante del tessuto sociale: il suo effetto raggiunse anche quel piccolo nodo che rappresenta ciascuno di noi.
Le relazioni devono essere intese soprattutto come legami interumani. È vero, ci sono anche relazioni fisiche che dipendono dall’ambiente: basterebbe constatare come ci sentiamo rilassati non appena raggiungiamo il luogo della nostra sicurezza, la casa in cui viviamo, quell’angolo, quella stanza – la tana – dove, una volta chiusa la porta, sentiamo di essere al sicuro, al contrario di quanto accade quando entriamo in un posto fisico diverso – ad esempio il nostro luogo di lavoro – dove spesso siamo subito colti dall’ansia. In altri termini esiste una comunicazione anche con gli ambienti fisici, una "relazione", al pari di quel che accade quando entriamo in contatto con le macchine che oggi invadono la nostra vita quotidiana – penso ai computer – e con le quali condividiamo ore e ore.
In definitiva ci sono molte ragioni per capire perché molti tra i princìpi di cui stiamo facendo l’anatomia e analizzando lo stato di salute nel nostro tempo appartengano proprio a quelle relazioni che – lo ripeto – sono il modo più esatto per parlare di socialità dell’uomo. Del resto, è evidente che dovrebbero trovare sempre più spazio quei princìpi che servono a garantire una vita giusta, o quantomeno serena, sia al singolo sia all’insieme della comunità, che oggi si è ormai allargata al punto da trasformare l’intero pianeta in un’unica società. Essi infatti espri mono una condizione fondamentale per poter vivere assieme agli altri. Questa affermazione è tutt’altro che teorica o utopica: bastano emergenze come l’influenza dei polli o il morbo della mucca pazza per mostrare come ciò che capita in un’altra parte del pianeta finisca per essere importante anche qui da noi, non solo per le conseguenze fisiologiche ma anche per motivi comportamentali. Da quanto accade in nazioni lontane dipendono i flussi migratori di milioni di persone che abbandonano il luogo in cui vivono e, superati pericoli infiniti, raggiungono Paesi che comunque appaiono loro migliori, anche se quando vi giungono sono poi costretti a vivere in clandestinità.
Ma per realizzare un simile obiettivo, legato a questa terra e alle attuali capacità di organizzare la società – la polis –, è necessario che siano attuati e rispettati alcuni princìpi.

L' ALTRO DA ME È IN RELAZIONE CON ME. L’espressione «altro da me» veicola al tempo stesso due significati. In primo luogo l’altro è staccato da me perché di me non ha nulla. Letta in questa chiave, è una locuzione di scarso significato sociale poiché allontana tutto ciò che io non sono, o che non mi appartiene. Tutto dunque mi risulta lontano. L’espressione «il prossimo» è invece più ricca poiché, pur sottintendendo che l’altro non fa parte di me, quantomeno me lo rende vicino: uno che si muove – appunto – "in prossimità" rispetto a me. Credo che una buona espressione possa essere «l’altro da me è in relazione con me», sia pure in una forma più o meno intensa e affettiva. In ogni caso, l’importante è che venga trasmesso il concetto che non c’è nessuno che in qualche misura non mi riguarda, nessuno che io possa considerare indifferente. E non solo perché devo constatare che esiste un legame "forzato" in quanto, per esempio, chiunque può trasmettermi una malattia anche se non sono mai stato in diretto contatto con lui, oppure aggredirmi e farmi del male: gli altri mi riguardano soprattutto perché io voglio quella relazione, sono motivato a essa, l’accetto, come quando una persona abita nell’appartamento accanto al mio o al piano di sopra, o divide lo stesso ufficio, o il luogo di lavoro.
Non c’è dubbio che in rapporto con me possa esserci un nemico (anche se in una relazione dalla quale si cerca di difendersi) così come un amico (in un rapporto che invece ricerco). Importante è sapere che con il nemico si intrecciano legami molto forti e altrettanto condizionanti, e che costui esiste realmente. Anche se lo pensiamo lontano da noi, egli è vicino poiché ha invaso la nostra mente, si è materializzato dentro una preoccupazione. Ciò esprime bene il rapporto che sussiste tra noi, e dunque anche la relazione.
Una società che si fondi sulla cultura del nemico, e che quindi consideri ogni estraneo un nemico fino a prova contraria – vale a dire fino a una dimostrazione che permetta di mutare tale giudizio e di considerarlo amico –, è fortemente spaventata poiché il legame dominante è la sfiducia.
Quanto sto dicendo non significa che vada sempre evocata la presunzione di amicizia, perché ciò equivarrebbe a teorizzare la certezza che tutti siano persone perbene, pronte ad aiutarsi reciprocamente.
Così si cadrebbe in un’utopica ingenuità, senza contare che il legame d’amicizia obbligato sarebbe altrettanto preoccupante rispetto all’allerta perpetua.
È certo comunque che il nemico coinvolge tanto quanto l’amico, anche se si attivano sentimenti di paura che fanno scattare comportamenti diversi, quando non opposti: ad esempio il forte desiderio di abbracciare l’amico, ma anche quello di cambiare marciapiede quando vediamo uno che amico non è.
C’è una terza possibilità, anche se solo teorica: quella dell’indifferenza, che induce a non considerare le persone amiche ma neppure nemiche. Come se non esistessero, esseri trasparenti che neppure vediamo.
In questo momento storico si parla tanto di indifferenza nella nostra società. Credo però che lo si faccia a sproposito, semplice mente perché un tale comportamento non è attuabile: non si può essere cioè del tutto indifferenti a chi vive nello stesso condominio, a chi prende lo stesso tram o la stessa carrozza della metropolitana, a chi potenzialmente può derubarti o farti del male, o persino far saltare in aria un intero caseggiato.
A riprova di questa mia affermazione invito a pensare alle paure del tempo presente, la più intensa delle quali è nei confronti dell’"anonimo": la paura dell’anonimo, cioè, che può colpire chiunque. Perciò anche ciascuno di noi.
La paura per un nemico dichiarato e individuato ci permette di porre in atto strategie difensive che, anche se non adeguate, trasmettono a chi le adotta la sensazione psicologica di poterlo combattere.
Di fronte al nemico anonimo che si scaglia contro anonimi non si salva invece nemmeno chi, seguendo la strategia dell’indifferenza, non vuole avere relazioni con nessuno.
C’è poi la paura dell’appartenenza: in un momento in cui purtroppo si parla di "guerra santa" il fatto di essere cristiani – per fare un esempio – può trasformare il credente in un bersaglio per l’integralista fanatico. Analogamente, il fatto di essere accomunati ai ricchi può rendere bersagli di coloro i quali, in quanto poveri, vogliono appropriarsi di ciò che non hanno sottraendolo a chi pensano lo possieda in eccesso.
Ci sono dunque relazioni mute che legano agli altri in quanto bersagli di qualche nemico che il singolo non solo non conosce ma nemmeno riesce a immaginare. Un simile approccio giunge a considerare la comune appartenenza al mondo occidentale in quanto nemico di quello orientale. Se guardiamo agli estremismi e al terrorismo i riferimenti di cronaca sono talmente espliciti da non richiedere ulteriori spiegazioni.
Tutto ciò dà forza al principio secondo il quale «l’altro da me è in relazione con me», suggerendo che la cosa più saggia sia far sì che una relazione mediata divenga diretta, partecipata, attiva: solo così ciascuno si sforzereb be di motivare l’interesse per l’altro e di avere con lui uno scambio tale da far approfondire la conoscenza reciproca e da permettere di valutarne le caratteristiche, considerando anche gli interessi personali che una relazione simile può creare. Si tratta quindi di trasformare la relazione da indiretta a diretta.
Sono sempre fortemente colpito dai casi in cui uno considera l’altro al pari di un nemico crudele e temuto. Se si va a indagare sulle motivazioni che stanno alla base di questo giudizio si scopre infatti, per lo più , che i due non si sono mai parlati, che uno non sa nulla dell’altro, che di lui ha magari solo informazioni indirette e inesatte. Nella relazione il vissuto personale è infatti fondamentale e non facilmente trasferibile, giacché in esso giocano le simpatie e le antipatie, le impressioni immediate, valutate sulla base di circostanze e di elementi sperimentati direttamente. In altre parole, si scopre che l’inimicizia è sovente precostituita. Altrettanto fortemente mi colpisce come si trasformino in inimicizia relazioni positive non appena si superano i preconcetti e si dà spazio all’esperienza, al contatto, alla relazione diretta, anche se non va dimenticato che esiste il caso di chi si presenta come amico ma si trasforma poi in lupo mannaro.
Non intendo certo suggerire di trascurare la prudenza e l’attenzione nella scelta degli amici e delle persone con cui si intende stabilire relazioni preferenziali.
Ciò che questo principio richiede è però un atteggiamento che non impedisca di considerare l’altro come chi è comunque parte della comunità – della nostra stessa comunità – e che dunque è dentro le relazioni, anche in quella limite, tra anonimo e anonimo: per cui è meglio conoscerlo, mostrare interesse per lui, non fingere che non esista, perché di fatto c’è ed è vicino a noi, con noi, nella nostra stessa rete relazionale.
Si può scegliere, ma non si può escludere nessuno: ecco un corollario di questo principio. E allora è meglio es serne consapevoli e far sì che le relazioni interumane si svolgano semmai con quel senso di fastidio che sovente esprimiamo solo alla vista dell’altro.
Bisogna inoltre considerare che chi si sente trattato come nemico da quel momento stesso lo diventerà. Si tratta dunque di una contrapposizione che anche dentro l’anonimato manifesta espressioni d’inimicizia: come quelle di nuocere e di voler nuocere.
Ognuno di noi ha una parte considerevole di "nemici" a causa del proprio atteggiamento scontroso, o di quel principio dell’indifferenza che a molti risulta offensiva mentre per altri è supponenza ingiustificata, orgoglio, superbia, che fanno sentire una nullità chi li subisce.
Oggi è il tempo dei "nessuno", di chi non richiama su di sé l’attenzione della società, del cosiddetto emarginato che vive nascosto nelle periferie delle città, che non ha nome né realisticamente alcuna possibilità pratica d’inserirsi. Proprio costui diventerà nemico di tutti e compirà gesti di inimicizia nei loro confronti, anche verso di noi: un nessuno, che ammazzando qualche altro anonimo, diventa eroe della cronaca nera. E che così comincia a esistere.
È elusivo invocare il vigile o il poliziotto di quartiere: serve solo a stimolare il potenziale nemico, inducendolo a cambiare strategia per fare del male a chi considera nemico. Il fatto che il nemico voglia sconfiggere il proprio nemico è una legge ben radicata nella nostra biologia e nei meccanismi di sopravvivenza descritti da Charles Darwin che, con certe varianti, sono ancora oggi validi e condivisi. Proprio per questo l’emarginato, l’invisibile, il dimenticato non solo non cessa di esistere ma esiste come nemico dotato di un potenziale aggressivo maggiore.

L ’IO E L’ALTRO NELLA NOSTRA SOCIETÀ. L’altro da te – chiunque egli sia – è sempre in relazione con te. Occorre allora una strategia diversa da quella che domina questa nostra società.
Oggi a prevalere è l’Io, in un vero e proprio delirio. Si pensa ancora ai grand i protagonisti dei romanzi, agli eroi, ai geni solitari, senza considerare che ogni traguardo raggiunto è il prodotto di un lavoro di gruppo, di una collaborazione.
È tempo ormai che si imponga il "noi": se non altro servirebbe a far sentire alla persona l’altro, il suo ruolo. Ciò assume un grande rilievo soprattutto in questo nostro Paese dove ciascuno pensa di poter salvare il proprio mondo, piccolo o grande che sia, naturalmente ritenendo che un simile sforzo dovrebbe essergli riconosciuto da tutti. Basta analizzare – ad esempio – personalità diffuse nella classe politica per rinvenire sintomi di delirio dell’Io, fino al paradosso di persone che in realtà non fanno nulla ma che ogni giorno sembrano salvare almeno un paio di volte il mondo – e ognuno di noi – dal baratro dell’apocalisse sociale.
L’Io talora si allarga fino al piccolo clan, al club, agli amici più stretti, ma con l’esclusione di tutti gli altri. Ci si rinchiude così in una fortezza dove nessuno può non solo entrare ma nemmeno semplicemente sbirciare: gli altri sono, appunto, esclusi. Così facendo non ci si rende conto che una fortezza è semplicemente un luogo di paura e di guerra. I castelli sono affascinanti, ma servivano a proteggere il conte o il duca da chi aveva motivo per sentirsi sfruttato o non considerato. La fortezza richiama solo la lotta, insieme al desiderio degli altri di distruggerla.
Con le barriere issate dalla supponenza e dall’arroganza, oggi questi fortini si sono moltiplicati. Ognuno di essi è avvertito come nemico e annovera le altre fortezze tra i propri avversari.
Il clima diventa quello di una guerra distruttiva, nel migliore dei casi di una lotta da cavalieri della Tavola rotonda, con tanti Rolando e don Chischiotte che progettano di annientare i nemici.
Nella nostra società si è giunti persino a teorizzare che l’inimicizia e la lotta – intesa nel senso di sconfiggere l’altro – siano tecniche per conseguire il successo, e che dunque l’agonismo (anche quello più esasperato) sia una strategia per conquistare i mercati e diventare potenti, sempre più potenti. Si instilla così il principio di "battere qualcuno", che può così essere sintetizzato: l’altro è un nemico da eliminare. Questo principio lo incontriamo nella scuola, che cerca di stabilire una classifica tra i più bravi e i "perdenti"; lo vediamo all’opera nel gioco delle alleanze per ottenere un posto di lavoro; lo troviamo nella possibilità di sconfiggere il merito imponendo il potere della raccomandazione.
Nella nostra società sono presenti autentiche "camarille": i vari potenti delle università, dei partiti politici, delle imprese, dei sindacati. Non pare esserci più nessuno che non appartenga a una fortezza in guerra contro un’altra o, addirittura, con tutte le altre. C’è persino una lobby dei poveri che, non avendo nulla da perdere, possono attaccare chiunque. E purtroppo anche le Chiese talora scendono in lotta tra loro.
Ognuna di queste affermazioni dovrebbe certo essere precisata e analizzata con attenzione. Ma è indubbio che l’atmosfera odierna sia conseguente alla morte di un principio continuamente negato quando si rifiuta di considerare l’altro come qualcuno che è relazionato a te, considerandolo invece uno che non c’entra nulla, che per te non esiste, che non è degno nemmeno di legare i lacci dei tuoi calzari. Prevale viceversa il principio del dominio, di una superiorità che tende a eliminare l’altra persona, antitetico a quello della cooperazione, dell’attenzione verso l’altro ma soprattutto nei confronti degli altri, quelli che non si conoscono direttamente, che pure s’incontrano ma è come non si fossero nemmeno visti.
Qui il principio richiama l’educazione: cioè salutare, capire la difficoltà di un momento che deve portare a un piccolo gesto di comprensione e di aiuto, di considerazione.
Questo è invece un campo in cui si può misurare il disastro delle relazioni esistenti tra persone che vivono nello stesso luogo. Basta osservare il comportam ento nelle strade, in questo teatro dell’orrore e dell’assurdo dei nostri tempi.
Passanti impossibilitati ad attraversare perché temono di essere travolti da auto impazzite che corrono a folle velocità, e se investiti vengono abbandonati morenti mentre il responsabile fugge per non tardare a un appuntamento che evidentemente gli sembra possa salvare il mondo. Gente che non ringrazia per un gesto di gentilezza ricevuto. Altri che se aiutano un automobilista in difficoltà sono insultati da quello dietro che ha fretta e – miserabile don Chisciotte – deve anche lui andare a salvare il mondo. Volgari improperi che escono dai finestrini perché qualcuno non ha visto un segnale che gli imponeva di dare la precedenza a lui, proprio a lui che ha commesso lo stesso errore solo pochi istanti prima ma che non tollera di subirlo e ti maledice per sette generazioni. Nello stesso istante ecco un’auto a sirene spiegate che trasporta di gran carriera un personaggio pubblico, atteso forse da un banale appuntamento, ma che ha il potere di bloccare tutto spargendo l’allarme. Anche in questo caso ogni cosa induce a pensare che si tratti di un salvatore del mondo e non di un semplice potente cretino che non vuole aspettare il verde al semaforo.
Questo è uno dei teatri dove si rivela il grado di educazione di ciascuno: qui infatti non si deve mostrare a nessuno chi si è, e proprio per questo si finge. Ma il quadro è spettrale: emerge come ognuno consideri l’altro che non lo conosce al pari di un nulla, un oggetto da combattere fino a scendere dall’auto e sparargli un colpo di pistola poiché – poniamo – gli risulta insopportabile essere superato a destra quando è già difficile accettare di esserlo in maniera regolare. Non solo: superato per di più da uno dotato magari di un corpo (la macchina) che non vale nulla e che possiede solo pochi centimetri cubici di cilindrata.

UN PRINCIPIO SENZA IL QUALE LA VITA È STRESS E PAURA. L’altro da me – chiunque egli sia – è dentro la rete in cui io mi trovo, si collega al mio nodo. È semplicemente folle pensare che il resto della rete, che non comprende il mio nodo, non esista affatto. Quel nodo ne è parte e ha un significato totalmente diverso se la rete è rotta dappertutto oppure è intatta e quindi ha relazioni con tutti, sia pure varie ma attive. Un sorriso infatti è un segno di rispetto con cui si riconosce che l’altro esiste, mentre un atteggiamento di sufficienza – quello di chi vuole essere visto da tutti ma non vuol vedere nessuno – non è un segnale neutro, ma di inimicizia.

IL LIBRO
Il problema dell’alterità
Dall’altro all’io
Nella storia della cultura occidentale del Novecento, Emmanuel Lévinas ha avuto il merito di spostare la riflessione filosofica dal problema dell'identità a quello dell'alterità. Il suo pensiero si è svolto prevalentemente su due versanti - di cui i saggi raccolti in questo volume, scritti tra il 1953 e il 1983 e tradotti per la prima volta in Italia con un'introduzione di Augusto Ponzio e un suo dialogo del 1988 con il filosofo, portano una testimonianza - costituendo il nucleo delle opere più mature: la fenomenologia, che Lévinas ha introdotto in Francia, e le letture talmudiche, ispirate a temi biblici ed ebraici. In queste pagine l'attenzione dell'autore è rivolta da una parte all'io in quanto libertà, fruizione, «cura di sé», dall'altra al suo pensare - non conoscitivo ma etico - all'altro, che non significa solo impossibilità dell'indifferenza, coscienza pacificata, ma anche ritrovarsi al posto dell'altro, sostituirvisi. Al problema dell'essere viene affiancato quello del fondamento della soggettività, che Lévinas individua nell'alterità. Ed è proprio su questo nucleo - sul problema della libertà e della responsabilità senza alibi - che si innesta il tema, centrale nel pensiero ebraico, della Legge e del suo significato per l'uomo.
Emmanuel Lévinas nacque a Kaunas, in Lituania, nel 1905. Iniziò gli studi universitari a Strasburgo e si trasferì quindi a Friburgo, dove conobbe Husserl e Heidegger. Direttore della Scuola normale israelita orientale, iniziò nel 1957 l'attività di lettura e commento del Talmud nel corso colloqui degli intellettuali ebrei francesi. Insegnò alle università di Poitiers, Paris-Nanterre e alla Sorbonne. Morì nel 1995. Tra le sue opere principali: Dall'esistenza all'esistente (1947), Il tempo e l'altro (1949), Difficile libertà: saggio sul giudaismo (1963); Etica e infinito(1982).

Emmanuel Lévinas, Editore Meltemi, Roma 2002, pp. 240, € 14,50


il personaggio
Pioniere della criminologia
Cesare Lombroso (Verona 1835 - Torino 1909) fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità. Il suo lavoro fu fortemente influenzato dalla fisiognomica, disciplina di antichissime origini, e da idee provenienti dalla teoria del darwinismo sociale, piuttosto diffusa a quei tempi. Nel 1876 Lombroso pubblicò L'uomo delinquente, che successivamente ampliò in un'opera in più volumi. Lombroso misurò la forma e la dimensione del cranio di molti criminali, concludendone che i tratti atavici presenti riportavano indietro all'uomo primitivo. In effetti, quella che Lombroso sviluppò fu una pseudoscienza che si occupava di frenologia forense: dedusse che i criminali portavano tratti anti-sociali dalla nascita, per via ereditaria. Il suo lavoro nella prima metà del ventesimo secolo venne chiamato in causa nel contesto dell'eugenetica e di altre forme di «razzismo scientifico», anche se è probabile che Lombroso non avrebbe approvato i fanatici movimenti xenofobi in questione, data la sua origine ebraica e la costante attenzione per le categorie sociali svantaggiate che si ritrova nei suoi libri. Da autentico uomo di scienza ottocentesco era molto attento ai dati sperimentali e disposto ad aggiornare le sue teorie basandosi sulle nuove evidenze della ricerca.
Lombroso sostenne la necessità di un trattamento umano per i criminali. Riteneva che la riabilitazione dovesse essere l'obiettivo principale della scienza penitenziaria ed era contrario all'uso abitudinario della pena capitale. Nel 1898 inaugurò a Torino un museo di psichiatria e criminologia (più tardi chiamato «di antropologia criminale»). Tra gli studi più importanti effettuati da Lombroso si ricordano La medicina legale dell'alienazione (1873), Il crimine, causa e rimedi (1899). Tra quelli più strani: La ruga del cretino e l'anomalia del cuoio capelluto, L'origine del bacio, Perché i preti si vestono da donne. Nel 1891 pubblicò in collaborazione con Filippo Cougnet un libro intitolato Studi sui segni professionali dei facchini, Il cuscino posteriore delle ottentotte, Sulla gobba dei cammelli, Sulla gobba dei zebù e nel 1896 un lavoro su Dante epilettico.

IL FILM
Il bene implicito: La Vita è Meravigliosa
Probabilmente è il capolavoro di Frank Capra, certamente uno dei film più belli e amati usciti dalla fucina cinematografica americana. Questa la trama: George Bailey per tutta la sua vita rinuncia a qualche cosa pur di servire gli altri. Da bambino salva il fratello caduto in uno stagno ghiacciato, ma prende un’otite che lo rende sordo da un orecchio. Da giovane rinuncia alla laurea per restare nella sua cittadina e far andare avanti la società fondata dal padre per fornire case ai meno abbienti. E così, di rinuncia in rinuncia, George tira avanti. Si sposa, va ad abitare in una vecchia casa umida, ha tre figli. Ma ecco che lo zio che lo aiuta perde ottomila dollari della società, esponendo questa al pericolo del fallimento. Soldi che vengono trovati dal perfido finanziere Potter, che non restituisce la somma e spinge così George al suicidio. È la notte di Natale e George si avvia verso il fiume per gettarsi nelle sue acque turbinanti. Ma arriva dal cielo un angelo che per convincerlo a non uccidersi gli fa vedere cosa sarebbe successo se lui non fosse mai nato. La città sarebbe in mano al perfido Potter, nessuna casa per i meno abbienti sarebbe mai stata costruita, sua moglie sarebbe rimasta zitella, sua madre sarebbe ridotta a gestire una pensione, suo fratello, morto da bambino perché George non avrebbe potuto salvarlo, non avrebbe a sua volta potuto salvare duemila uomini durante un’azione bellica che gli ha fruttato la massima onorificenza militare. George si convince che la vita è meravigliosa e torna ad affrontare le sue responsabilità. Nel frattempo la popolazione della cittadina ha raccolto gli ottomila dollari per aiutare George che ha sempre aiutato tutti. In uno straordinario finale, allegro e patetico insieme, il film si chiude con il suono di un campanello. È l’angelo custode che, compiuta la missione, ha ottenuto da Dio le ali, diventando angelo di prima categoria.
I film successivi di Capra non furono all’altezza dei suoi migliori, ad eccezione de Lo stato dell’Unione (1948), che è un po’ il suo testamento spirituale. Capra si dimostrò però coerente ai suoi principi e, quando la sua libertà di autore si rivelò incompatibile con le leggi di Hollywood, si rassegnò a un lungo esilio dal set, realizzando con modestia e passione una serie di documentari didattici per la televisione.

Frank Capra, 1946, Milliennium store (2006), durata 130 minuti, € 18,99
«Avvenire» del 5 novembre 2006

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