21 febbraio 2007

Br e nuove lotte, quale sindacato?

Il futuro degli operai tra incubo terrorismo e riscoperta dell'autorealizzazione. Parla Giorgio Caprioli, autore di un pamphlet
Di Edoardo Castagna
«Democrazia, salute, istruzione: è tutto ciò che riguarda le libertà quello che rende possibile una vita di lavoro migliore»; «Tra i metalmeccanici il rischio di infiltrazioni dei brigatisti c’è: si sono mimetizzati e trovano appigli nello scontro duro degli ultimi anni»
Come la catena di montaggio, come il reparto presse, come Mirafiori miraggio per gli emigranti dal Mezzogiorno: anche il sindacato appare ormai a molti un ferrovecchio dell'Italia industriale. Oggi, nell'età del terziario avanzato, della globalizzazione, della delocalizzazione produttiva verso il Terzo mondo, tanti pensano che prima archiviamo anche i sindacati, meglio è. Specie se salta fuori che tra le loro file si annidano ancora altri residuati del Novecento, i brigatisti rossi. Oggi come qualche anno fa, quando furono smantellate le «colonne» che avevano ucciso Sergio D'Antona e Marco Biagi. Ma, seppure ormai del benessere, la società italiana non è ancora il paradiso in terra, e spazio di manovra per il sindacato ce n'è ancora. Purché abbandoni i vecchi cliché della lotta di classe, e impari ad adattarsi ai tempi. Oggi vive in una sorta di «terra di mezzo», come riflette fin dal titolo il saggio di Giorgio Caprioli, segretario generale della Fim-Cisl, in uscita per Città aperta - Il sindacato è una terra di mezzo. Pensieri sparsi sugli orizzonti del sindacalismo negli anni Duemila (pagine 128, euro 10,00), che sarà presentato a Roma il 28 febbraio da Aris Accornero, Gian Primo Cella e Cesare Damiano (alle 18,00 all'Auditorium di via Rieti, 11) -. «Perché - spiega Caprioli - deve comunque avere come riferimento i grandi valori ideali, l'uguaglianza, la libertà, ma poi deve saperli ogni giorno coniugare con la realtà pratica e saper fare accordi che ne tengano conto. E quindi essere un'organizzazione responsabile, che tenga conto anche degli effetti immediati della sua azione e non soltanto dei grandi ideali».
Nel suo saggio lei si richiama ai valori non economici individuati da Amartya Sen...
«Sì: il diritto allo studio, alla salute, alla democrazia. Tutto ciò che riguarda la sfera delle libertà individuali è proprio quello che rende possibile una vita di lavoro migliore».
È questa la via per uscire dalla crisi del sindacato?
«Non dobbiamo più limitarci al tradizionale ruolo rivendicativo e salariale, ma cercare di dar voce - e quindi di tradurre in contratto - a tutti i bisogni legati all'autoaffermazione individuale; quindi, valorizzando molto di più di quanto siamo riusciti finora a fare la dignità del lavoro».
Ma in Italia i metalmeccanici, la categoria che lei rappresenta, non sono in rapida via d'estinzione?
«Questa è proprio una di quelle trasformazioni che, ormai da molti anni, ci interrogano. Ma per la verità il lavoro operaio, più che sparire, negli ultimi anni si è concentrato nelle aziende di piccole dimensioni, che spesso sfuggono alla nostra azione. Ecco una sfida nuova per il sindacato, che deve sia fare sforzi maggiori verso la contrattazione nelle piccole fabbriche, che richiede azioni di tipo territoriale, sia rivolgere maggior attenzione al piano normativo, a quella schiera di diritti individuali e collettivi che riguardano il lavorare bene, l'avere una vita di lavoro più soddisfacente. Il malcontento, che c'è, si esprime in via immediata attraverso le richieste salariali, ma ha anche un sottofondo più articolato e profondo, che richiede perciò interventi nella sfera dei diritti».
C'è chi questi «diritti» vorrebbe imporli con la cara, vecchia P38. Tra i brigatisti arrestati nei giorni scorsi si contando diversi militanti sindacali, e proprio metalmeccanici (anche se sul fronte Fiom-Cgil, non Fim-Cisl)…
«In generale, il sindacato è vittima del terrorismo, che si annida tra le nostre fila e le snatura. In più il clima di questi ultimi anni, che ha registrato scontri molto duri all'interno dei metalmeccanici, ha visto in alcuni casi degenerare il livello del confronto, che è passato dalla contrapposizione di idee diverse alle accuse personali: di tradimento, di collusione col padrone. È nato un clima negativo, dal quale qualche ragazzo debole di testa può cascare nelle maglie del terrorismo».
Che cosa può fare il sindacato per difendersi?
«Poco. La condanna e la vigilanza devono essere alte, ma è molto difficile individuare il potenziale terrorista. Anche perché, per esempio, nella vita sindacale quelli che sono stati recentemente arrestati erano - mi dicono da casa Fiom - moderati, non appartenevano all'ala più dura e rivendicativa. Forse perché quando uno abbraccia il terrorismo deve mimetizzarsi, e quindi diventa molto difficile individuarlo in base all'attività sindacale che conduce. Oltre alla vigilanza non possiamo fare molto: siamo costituzionalmente fragili rispetto a questo genere di minaccia».
«Avvenire» del 21 febbraio 2007

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