13 febbraio 2007

Cervetti: così noi del Pci arrivammo al negazionismo

di Gianna Fregonara
Oggi, a 73 anni, Gianni Cervetti, non ha reticenze ad ammettere: «Sento la responsabilità di non aver affrontato il problema a suo tempo. Ma è una responsabilità collettiva, nazionale. Fu un errore gravissimo, ma preferimmo rimuovere». Lui che nel Pci si occupava degli Affari esteri, che negli Anni Settanta entra nella direzione nazionale del partito di Enrico Berlinguer e alla fine degli Anni Ottanta è tra i miglioristi insieme a Giorgio Napolitano non cerca giustificazioni: «Il tema delle foibe diventò una parte della questione dei rapporti al confine orientale, cioè dei rapporti con la Jugoslavia». Il «Partito» ne discusse, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ne discusse, racconta Cervetti, «soprattutto a Trieste e in modo molto acceso. Ma poi si fece un gran lavoro per stabilire rapporti di buon vicinato sul confine» con lo stato titino. E così ideologia e diplomazia si fusero e «queste due cause portarono a un errore gravissimo che fu quello di rimuovere il dramma delle foibe, di stendere non un velo ma una vera e propria coperta, per nascondere quello che non si voleva vedere. E non se ne parlò più». Copertura, «negazione, direi», continua Cervetti: «La questione non fu mai più posta in termini aperti. Né dal Pci ma neppure dalle forze che allora governavano», cioè i democristiani innanzitutto. Certo a sinistra, oltre alla questione di politica estera «c’era anche l’ideologia», perché è vero che «a Trieste gli storici di sinistra, gli storici comunisti, da parecchi anni studiano la questione delle foibe. Soprattutto l’Istituto di storia della Resistenza ha fatto delle ricerche ben fatte: dunque non si può accusare la storiografia di non aver indagato. Non si può dire non sapevamo». Oggi secondo Cervetti non si può indulgere più. Neppure dire come fa Enzo Collotti sul Manifesto, che le foibe possono essere strumentalizzate dai fascisti e postfascisti «per omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili». O come fa Maria Rosa Calderoni su Liberazione fare la contabilità delle vittime, «un numero compreso tra 500 e 700, non certo uno sterminio di massa»: «Queste non sono mai questioni di numeri», replica Cervetti, che oggi è presidente dell’Isec, l’istituto di storia dell’età contemporanea a Sesto San Giovanni, che giovedì scorso ha dedicato un convegno proprio alle foibe. «Si parla di migliaia di persone scomparse, ci sono anche degli elenchi, ma il numero è secondario. Né ha senso dire che le foibe o l’esclusioni della popolazione italiana da quelle zone fossero in qualche modo giustificate dalle azioni degli italiani nel periodo della guerra». E poi c’è chi dice, il contesto, quegli anni, il caos, la guerra: «Il contesto serve per spiegare storicamente gli avvenimenti nel loro susseguirsi, non per giustificare o dimenticare. Si può dire che il dramma delle foibe fu generato dalla guerra, ma questo non giustifica il dramma stesso. Né si può dire che il silenzio dei comunisti si può giustificare con un altro silenzio dei fascisti». Bene dunque, conclude Cervetti, «ha fatto il presidente Napolitano con il suo discorso di sabato». Non è un po’tardi, che se ne parli oggi a quasi vent’anni dalla caduta del Muro? «Sì, è tardi».
«Corriere della sera» del 12 febbraio 2007

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