27 febbraio 2007

Contro il pensiero unico scientista

Parla il filosofo Adriano Fabris: «Il sapere scientifico ha un approccio parziale, eppure punta all'egemonia»
di Andrea Galli
«È decisivo riconoscere la legittimità delle tante domande di senso che salgono dall'uomo»
Uno degli stimoli recenti più suggestivi per quanto riguarda la riflessione sul concetto di "ragione" viene dal discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Ne parliamo con Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all'Università di Pisa.
Professore, cosa pensa della denuncia dei limiti di un una scientificità ridotta a «sinergia di matematica ed empiria» fatta a novembre dal Pontefice?
«Credo che quel passo evidenzi con chiarezza il pericolo di cadere in una sorta di "pensiero unico", unilaterale e uniforme, che verrebbe a caratterizzare il nostro rapporto con il mondo e con gli uomini. Si tratta, come viene ben detto, di un pensiero che mira ad acquisire certezze e che fa dipendere queste certezze dal rapporto sinergico di matematica ed empiria. È indubbio che esso è espressione di un progetto di egemonia da parte del sapere scientifico, nonostante la parzialità del suo approccio. Di conseguenza la filosofia, la psicologia, la sociologia e le altre discipline che si occupano dell'uomo si trasformano, appunto, in "scienze umane" e devono uniformarsi a un modello di "scienza" ben determinato. C'è il rischio però, in questa prospettiva, di ridurre all'irrilevanza questioni fondamentali, di cui queste discipline si sono sempre occupate. Fra di esse, decisiva è la questione del senso. E se gli uomini sempre di più, in questo tempo, si rivolgono con grandi aspettative alla filosofia, alla psicologia, alla sociologia e via dicendo, è perché nelle spiegazioni scientifiche, per quanto sofisticate che esse siano, non trovano risposta agli interrogativi di senso che sono propri della loro vita».
Benedetto XVI, oltre che a riflettere sui limiti, invitava a «mettere in questione», attivamente, la «riduzione del raggio di scienza e ragione». Come, secondo lei?
«Conseguenza dell'interpretazione unilaterale della ragione di cui parlavamo è anche la riduzione del problema Dio a qualcosa di "irrazionale". È questo, fra l'altro, lo sfondo ideologico che sembra legittimare tutta un a serie comportamenti sociali e di decisioni politiche perlomeno discutibili. Anche perciò vanno allargati i confini della razionalità, risemantizzando le nozioni di "ragione" e di "intelligenza", come peraltro stanno facendo oggi alcune scienze umane. Non bisogna dimenticare, infatti, ciò che ha mostrato il filosofo della scienza Paul K. Feyerabend: che l'indagine scientifica, anche quella delle scienze esatte, non può fare a meno, per il suo sviluppo, di ricorrere a presupposti ben precisi».
Potrebbe essere, questo ampliamento del raggio della scienza, la via per superare quelli che appaiono due errori contrapposti: l'esplosione della sfera magico-irrazionale e l'esaltazione della potenza trainante e taumaturgica della tecnica?
«Lo è senz'altro. Né bisogna dimenticare che il termine "scienza", così come la parola "metodo" e altre categorie del pensiero, hanno anch'essi molti significati. E su questa ricchezza semantica, precisamente articolata, bisogna far leva contro il "pensiero unico". Con un'importante avvertenza, però. È necessario elaborare un concetto di "ragione" che sia capace davvero di esprimere le esigenze vitali degli uomini. La domanda che s'interroga sul "perché" è la domanda di chi è alla ricerca di un senso: una domanda che si ripropone anche quando vengono date tutte le spiegazioni che, in una data epoca, le scienze possono avanzare. Credo che proprio recuperando uno spazio di legittimità per la domanda di senso e rivendicando a pieno titolo la razionalità dei tentativi di dare a essa una risposta, sia non solo possibile individuare la condizione per un vero dialogo fra le religioni».
La Chiesa, lo si deduce anche dalla semplice lettura del discorso di Ratisbona, difende la nobiltà e l'altissima capacità della ragione umana. Si batte contro chi la vuole appiattire, sminuire o amputare. Eppure questa posizione viene ancora rovesciata dai suoi critici in una caricaturale accusa di oscurantismo. Come spiegare questa mistificazione?
«Viviamo pu rtroppo in un momento in cui, più che il desiderio di dialogare, prevale la volontà di contrapporsi. Ma, al di là di quest'aspetto specifico, io credo che la tesi dell'irrazionalismo religioso sia la conseguenza di un più generale tentativo ideologico di ridurre la tradizione religiosa a qualcosa di marginale, o addirittura di ghettizzarla nel privato. Salvo poi concedere al credente, con mossa politically correct, la facoltà di esprimere, beninteso solo entro questi limiti, le proprie convinzioni. Ritengo invece che proprio nella rivendicazione di una ragione aperta e allargata nei suoi spazi possa essere mostrato che l'impegno della Chiesa, anche sul piano della riflessione teorica, non è finalizzato alla prevalenza di una parte, ma si pone, una volta di più, al servizio di tutti gli uomini».
«Avvenire» del 267 febbraio 2007

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