13 febbraio 2007

Libertà: perché quell’ideale non si può esportare

Le analogie fra epoca greca ed età contemporanea in un saggio anticonformista di Luciano Canfora
di Dino Messina
Si può esportare la libertà? Questo interrogativo che percorre la storia della civiltà occidentale, da Erodoto e Senofonte a Ugo Foscolo e Benedetto Croce, da Napoleone Bonaparte a Giuseppe Stalin, viene ora ripreso in un saggio veloce e brillante da Luciano Canfora, il grecista che un paio d’anni fa ha animato il dibattito culturale europeo con il suo saggio sulla democrazia. «Una citazione d’obbligo - spiega Canfora - perché questo nuovo Esportare la libertà è un po’figlio del precedente libro. Dopo le polemiche che si svilupparono alla fine del 2005 per la mancata pubblicazione dal tedesco Beck del saggio sulla democrazia, venne a trovarmi un editore della Albin Michel chiedendomi di scrivere un testo sulla libertà. Pochi giorni dopo una richiesta simile arrivò dalla Mondadori». Ecco spiegata la genesi di questa opera, che doveva uscire in Francia un paio di mesi fa, ma ha visto la luce prima in italiano per via di alcuni errori di traduzione. La tesi dello studioso è che dai tempi dell’antica Grecia ai giorni nostri esista una forte continuità nella politica degli Stati e nei rapporti di potere, riscontrabile non soltanto negli avvenimenti, ma anche nell’uso delle parole. Sicché Senofonte poteva ben dire nell’aprile del 404 avanti Cristo, quando si concluse la trentennale guerra del Peloponneso e furono abbattute le mura di Atene, «che in quel giorno cominciava la libertà». Eppure era in nome della libertà che la grande città-Stato greca aveva condotto con successo la guerra contro i persiani, conclusa nel 478 a. C., e stretto una serie di alleanze che non tollerava defezioni. I cittadini dell’isola di Samo, protagonisti nel 441 avanti Cristo della più significativa ribellione al sistema di alleanze ateniese, non ottennero come speravano la solidarietà di Sparta, ma vennero massacrati in una feroce repressione condotta da Atene con i suoi alleati. Un’azione corale, del tipo di quella intrapresa dall’Unione Sovietica nel 1956 contro i ribelli ungheresi, che contrariamente alle speranze di molti furono lasciati al loro destino dai governi dell’Europa libera e degli Stati Uniti. Siamo alla regola ferrea che fa dire a Canfora: Budapest è come Samo e Atene somiglia più a Mosca che a Washington. La logica imperiale è più forte delle parole e quando qualcuno vuol far coincidere retorica e potere va incontro a un errore quasi certo, se non al ridicolo. È quanto capitò a Ugo Foscolo, autore nel 1802 dell’Orazione a Bonaparte per il congresso di Lione («Te dunque, o Bonaparte, nomerò con inaudito titolo liberatore di popoli e fondatore di repubblica»...). Peccato che nel 1797, con la pace di Campoformio, il realista Napoleone avesse consegnato la repubblica democratica di Venezia all’Austria. Ma in Foscolo la passione ideologica era più forte della realtà stessa, come sarebbe avvenuto a tanti intellettuali del Novecento. Luciano Canfora si diverte a sottolineare le contraddizioni della storia. Per esempio il fatto che l’interventismo in nome della libertà fu promosso durante la Rivoluzione francese dal partito girondino e all’inizio avversato da Robespierre, il quale lo considerava una contraddizione in termini: non è possibile imporre qualcosa in nome della libertà. Ma con gli sviluppi della rivoluzione il nuovo comitato di «salute pubblica» ereditò con il governo la politica di guerra: quindi i giacobini, e poi i termidoriani, divennero i maggiori fautori dell’esportazione, con la violenza, della libertà. Una politica che si basava sul coinvolgimento delle minoranze giacobine locali e non di rado suscitò il malcontento della maggioranza popolare che si richiamava alla tradizione: avvenne a Napoli nel 1799, in Spagna, nel 1808, in Russia nel 1812, in Germania nel 1813. Dall’antica Grecia alle guerre ideologiche del Novecento, passando per la Rivoluzione francese, le tesi di Canfora si possono più o meno condividere, ma sempre si apprezzerà la chiarezza dell’esposizione e l’ironia sapiente nella scelta di certi episodi narrati. I capitoli conclusivi sono dedicati al «grande gioco» condotto dalle superpotenze tra Ottocento e Novecento in Afghanistan, per usare un’espressione di Rudyard Kipling. Una storia, commenta Canfora, «che è necessario ripercorrere per non fermarsi alla verità superficiale che farebbe comodo oggi agli Usa in seguito al recente intervento militare». Dopo aver ricordato lo scontro ottocentesco in quell’area fra Russia e Gran Bretagna, l’autore si sofferma sulle contraddizioni nell’ultimo scorcio del Novecento che cominciò nel 1979 con il colpo di Stato comunista a Kabul e l’invasione sovietica. Ad essi, in nome della libertà e del diritto dei popoli all’autodeterminazione si contrapposero il capo dittatoriale della neonata repubblica islamica iraniana, Khomeini, e il presidente democratico degli Usa, Jimmy Carter, che decise il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca. Si sa che la storia andò a finire con la sconfitta degli imperialisti sovietici e la vittoria degli integralisti appoggiati inizialmente dagli Stati Uniti, i quali poi li avrebbero dichiarati, sempre in nome della libertà, il nemico numero uno. «Tutto sommato - conclude Canfora - credo che aver puntato sull’esplosione dell’Urss sia stata per gli Stati Uniti una vittoria di Pirro. Perché l’Unione Sovietica rappresentava una sponda che avrebbe potuto evitare la deriva integralista come nuova forma in cui si manifesta la ribellione. So che questa mia analisi scandalizzerà molti, non so dove porterà l’ondata di fanatismo religioso. Del resto questi dubbi sul divario fra realtà e parole della politica furono ben altrimenti espressi in un momento difficile della storia italiana, l’immediato secondo dopoguerra, da Benedetto Croce. Il filosofo metteva in contraddizione, in un dimenticato intervento giornalistico che cito all’inizio del volume, da un lato le dure condizioni che si volevano infliggere all’Italia con il trattato di pace e dall’altro lo strumentale ricorso al principio di non-intervento per lasciare indisturbato il dittatore Francisco Franco, pur nella mutata situazione del dopoguerra. Flessibilità dei princìpi. Tutti ricordano il regime di Pol Pot universalmente e giustamente additato come il male assoluto. Pochi però ricordano che ancora una volta in nome del principio di non-intervento e in polemica con l’invasione vietnamita proprio gli Stati Uniti conservarono a Pol Pot il seggio all’Onu».

Un testo polemico «Esportare la libertà. Il mito che ha fallito» è il titolo del nuovo libro di Luciano Canfora, nella foto (Mondadori pp. 112, 12) Il libro dà seguito al saggio di Canfora, «La democrazia», edito da Laterza
« Corriere della Sera » del 7 febbraio 2007

Budapest ricorda l’antica Samo
I rivoltosi alla fine restarono soli
di Luciano Canfora
Pubblichiamo un brano del saggio di Luciano Canfora, «Esportare la libertà. Il mito che ha fallito», appena uscito da Mondadori. Il testo, tratto dal terzo capitolo, intitolato «Da Stalingrado a Budapest», istituisce un paragone tra i ribelli ungheresi del 1956 contro l’oppressione sovietica e i ribelli dell’isola di Samo del 441 avanti Cristo contro l’imperialismo ateniese. I democratici di Samo, nella rivolta del 441 a. C. contro l’oppressione ateniese, furono letteralmente massacrati, tranne beninteso quelli che trovarono scampo fuggendo. Esattamente come i comunisti ungheresi nei giorni della rivolta popolare, tra il 23 ottobre ed il 3 novembre del 1956, mentre il cardinale Mindszenty veniva liberato e chiedeva, nelle sue prime, sconcertanti anche per i sostenitori occidentali, dichiarazioni pubbliche, il ritorno di un Asburgo sul trono di Ungheria. Nella guerra contro Samo Atene si impegnò con una flotta comprendente anche forze alleate (per dare l’impressione che tutta la «lega» puniva l’alleato ribelle) ed inviò alla testa di quella grande flotta che penò non poco a sopraffare i ribelli tutto il collegio degli strateghi, compreso il poeta Sofocle che in quell’anno ricopriva tale carica. L’intervento contro l’Ungheria fu anch’esso «corale», per le stesse ragioni propagandistiche; ed era stato preventivamente avallato sia dalla Cina, pur dissenziente dal XX Congresso in avanti, sia dalla Jugoslavia. E scattò nel momento stesso in cui il nuovo ministro della Difesa del governo formatosi il 24 ottobre, Pal Maleter, dichiarò ufficialmente l’uscita dell’Ungheria dal «Patto di Varsavia», cioè dall’alleanza sorta a Est l’anno precedente in risposta alla formazione a Ovest, nel 1949, del «Patto Atlantico». E come Sparta non si mosse per Samo mentre tutte le speranze della nuova leadership samia erano rivolte a quell’aiuto, così l’Occidente e in primo luogo le truppe Nato di stanza in Europa non si mossero, sebbene il passo spericolato di Maleter mirasse appunto a propiziare una qualche forma di intervento. Non era un folle Maleter, aveva - come tanti - creduto alla martellante opera di «sollecitazione» puramente propagandistica di «Radio Europa Libera» e delle emittenti per l’Est Europa favorite dalla nuova amministrazione Usa. (Dal 1952 Eisenhower era presidente, e John Foster Dulles, il teorico del «roll back», del ributtare indietro il comunismo in Europa, segretario di Stato).
« Corriere della Sera » del 7 febbraio 2007

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