21 febbraio 2007

L’insanabile ferita

di Eugenia Roccella
Contrariamente a quel che si crede, le femministe storiche non hanno mai teorizzato che l'aborto fosse un «diritto», e tantomeno «una conquista di civiltà». Questo linguaggio appartiene ad altri pensieri, per esempio a quello di un progressismo benpensante che per le donne vuole l'emancipazione, cioè una forma morbida di omologazione al modello maschile.
Al di là di quello che abbiamo potuto gridare nelle piazze, nel calore dello scontro degli anni Settanta, abbiamo sempre saputo che l'aborto è una ferita fisica e simbolica, non meno grave perché autoinflitta. Più che un diritto è un arbitrio arcaico, indissolubilmente legato al potere di dare la vita, qualcosa che non è facile ingabbiare nella razionalità rigida di una norma di legge. Ma la consapevolezza della natura lacerante e contraddittoria dell'aborto, della sua intrinseca violenza, mi pare si sia persa per strada, diluendosi fino a lasciare appena una debole traccia. Chi è che considera l'aborto come un vero, grande dolore, che lascia il segno e può restare acquattato in fondo all'anima, anche se riteniamo di averlo superato e cancellato? So bene che tutti, quando se ne parla pubblicamente, premettono l'omaggio di rito al luogo comune, ripetendo come una sorta di mantra obbligatorio: l'aborto è un dramma. Pochi però ci credono fino in fondo, tirandone le conseguenze. Così il caso della tredicenne di Torino, cui i genitori e il giudice hanno imposto di interrompere la gravidanza, diventa imbarazzante e sconvolgente. Chi lo commenta cerca di riportare la questione su binari più rassicuranti e consueti, come il rispetto della libera scelta della donna o l'inadeguatezza di un'adolescente di fronte alla maternità. Della sofferenza, però, si tace. Che una ragazza tanto giovane possa disperarsi e star male per aver perso il suo bambino, fino a desiderare di morire, fino a finire in un ospedale psichiatrico, fa saltare gli schemi usuali che orientano i nostri comportamenti. Un figlio, se non è programmato, inserito nella sequenza delle cose corrette da fare, rovina la vita: questo ci dicono ossessivamente i mezzi di comunicazione, gli esperti, le filosofie spicciole che tutti consumiamo. Un aborto, invece, non rovina la vita a nessuno. Ma l'aborto non è un semplice mezzo contraccettivo. È piuttosto il rovescio della maternità, intriso di desiderio, di corporeità ferita, di negazione di sé; avere o non avere un figlio non ha a che fare con la linearità razionale della pianificazione, ma con l'oscurità di pulsioni profonde e ingovernabili, spesso del tutto inconsapevoli. Non a caso il numero di interruzioni di gravidanza non diminuisce affatto nei Paesi in cui c'è un'ampia diffusione di anticoncezionali, anzi talvolta sale. Il corpo femminile si ribella alle pillole, cerca di vanificare la disciplina innaturale che gli imponiamo, fa emergere una voglia indicibile di essere madri che non sappiamo nemmeno di avere, e a cui non vogliamo dare ascolto. Ma a chi interessa, tutto questo? Quello di cui si dibatte è lo scontro tra laici e cattolici, il diritto al figlio e al non figlio, i presunti attacchi alla legge 194. Il desiderio materno rivelato da una ragazzina tredicenne è il vero scandalo, oggi, come nessuna trasgressione sessuale può esserlo.
«Il giornale» del 18 febbraio 2007

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