02 marzo 2007

Cezanne: spietato Zola, mise a nudo le sue paure

Odore di sesso e morte. E un’opera non finita per incapacità
Di Alessandro Piperno
Chi risarcirà i grandi diffamati della letteratura? Parlo dei disgraziati la cui immagine postuma è stata rovinata da qualche nevrotico genio letterario. Pensate solo all’esercito di mamme: alla madre di Baudelaire, di Proust, di Gadda: brave donne che dall’aldilà hanno dovuto assistere alla propria capziosa demonizzazione. Il problema è che uno scrittore non ha alternative. La calunnia e l’auto-denigrazione fanno parte della sua deontologia. Perfino un genio epico come Tolstoj - per inventare coppie del calibro di Pierre-Natacha o di Levin-Kitti - dovette attingere alle proprie traumatizzanti esperienze coniugali. Tutto questo per dire che uno scrittore deve arrendersi all’idea che porterà scompiglio nella vita delle persone amate, che, nel caso migliore, condannerà a essere mistificate da una posterità pettegola. Chissà se Emile Zola, mentre scriveva il romanzo «L’opera», nel 1885, poteva sapere che quel libro avrebbe guastato i rapporti con il suo migliore amico: quel Paul Cézanne, alla cui vita di artista fallito Zola si era ispirato per creare il personaggio di Claude Lantier. Zola non faceva che lamentarsi della sua assenza di fantasia. Per lui la vita era importante proprio perché forniva gli spunti che la sua immaginazione non era in grado d’inventare. Scrivere un libro sul mondo degli artisti era una sua vecchia ambizione. Per molti anni li aveva frequentati, li aveva visti vivere, discutere, litigare, dipingere, sospesi, com’erano, in quel limbo lattiginoso che divide l’euforia dallo sconforto. Così scrisse «L’opera», la storia di Claude Lantier, pittore di formidabile insuccesso che si suicida per il sospetto di non avere talento. L’uscita del libro scatenò una vera bagarre. Monet, Renoir e soprattutto Cézanne si sentirono traditi dal quel vecchio amico, il quale, piuttosto che illustrare il successo dei loro esperimenti pittorici, aveva enfatizzato la deriva fallimentare delle loro esistenze. Lo accusarono di sciacallaggio: aveva dato in pasto ai filistei parigini i suoi amici di una vita. Cézanne non si riprese. Lui era Claude Lantier, il pittore pazzo e suicida de «L’opera». Conosceva tutto di quel libro. Aveva assistito alla sua gestazione. Sapeva quanto Zola si fosse ispirato a lui e una sua controversa storia d’amore. Ma ciò che lo insultava non era che la sua vita fosse stata usata per un romanzo, né che il personaggio di Claude fosse descritto come un perdente. Ciò che Cézanne non poteva perdonare a Zola era di averlo descritto come un artista incompleto che aveva inseguito tutta la vita una perfezione pittorica che gli era preclusa. Cézanne sentì nelle pagine di quel romanzo la pietà e il disprezzo dell’autore - le stesse che lui provava per sé - e si sentì smascherato. Era come se Zola avesse affondato l’unghia nella piaga purulenta della sua anima. È come se, con quel suicidio finale, avesse spettacolarizzato il senso d’inadeguatezza che aveva deciso della vita di Cézanne. Inadeguatezza, appunto. Perché, per quanto a noi possa sembrare ridicolo, Cézanne non sapeva di essere Cézanne. Perché se nessuno ti dice che sei Cézanne è difficile per te capirlo da solo. Anche se sei un genio, anche se stai rivoluzionando la pittura, anche se stai preparando l’avvento di una nuova era. E allora si capisce l’ultimo biglietto che Cézanne scrisse al suo ex amico: «Caro Emile, ho ricevuto ora "L’opera". Ringrazio l’autore dei Rougon-Macquart del buon ricordo e gli chiedo di permettermi di stringergli la mano, ripensando agli antichi anni». Il risentimento è perfettamente descritto dal passaggio dall’affettuoso «Caro Emile» al sarcastico «autore dei Rougon-Macquart». Era la fine dell’amicizia di una vita. E oggi? Cosa resta del compendio di tante sottese meschinerie? I quadri di Cézanne certo, ma anche quelle ultime pagine de «L’opera»: un atelier di pittore disgraziato, una notte fredda, un quadro che non viene completato per incapacità, che l’accanimento del pittore rende ogni pennellata più grottesco, una ragazza gelosa che vuole strappare il suo uomo alla schiavitù di quella tela assassina, e lo alletta mostrando le sue grazie, il letto in cui il pittore e la sua donna si amano col vigore della disperazione. E lei che, dopo questo amplesso terribile, lo fa giurare che brucerà il quadro e la farà finita con la pittura. Per poi addormentarsi sicura di averlo convinto e svegliarsi che lui si è già impiccato nello studio di fronte alla sua opera incompiuta. La scena odora di sesso e di morte. Con essa non solo Zola ha catturato il segreto di una stagione, ma anche l’ossessione di chi è stato fregato dall’arte, per sempre. Di chi darebbe tutto per compiacerla. Di chi s’ammazza perché non è stato attrezzato dalla natura a convivere con l’idea della propria mediocrità e della propria irrilevanza.
«Corriere della sera» del 1 marzo 2007

Nessun commento: