20 marzo 2007

Dal blog ai reality, l’adolescenza scrive i suoi romanzi

di Chiara Zocchi
L'essere umano. Quel mistero con due braccia e due gambe. Quel groviglio di capelli, vene, arterie e pensieri. Quell'ombra perennemente alla ricerca della forma corrispettiva reale, della quale non è altro che un'immagine gonfiata, storpiata, ondeggiante. E che esiste solo grazie al fascio di luce che è in grado di autoproiettarsi - oltre che di proiettare - semplicemente per il fatto che è la metafora di Dio. L'essere umano, dicevo… mentre il suo involucro si involve, mentre la sua pelle si accartoccia, mentre i suoi capelli e i suoi peli sbiadiscono fino a perdere tutto il pigmento, fino a indebolirlo di un elemento descrittivo cardine, tanto che un uomo con i capelli rossi e un uomo con i capelli neri invecchiando diventano due uguali uomini con i capelli bianchi. Mentre l'invecchiamento del corpo ci avvicina le fisionomie, rendendoci descrittivamente più simili. Tanto che persino il colore degli occhi con l'età tende ad ingrigire, affievolendo la luce che gli permetteva sia di essere visti che di accedere al visibile. L'essere umano, dicevo… mentre in quanto materia si involve, in quanto essenza si evolve. Mentre il suo-nostro «fuori» cresce-cresce-cresce-cr e ad un certo punto si ferma, incominciando lentamente a degradare, a sfaldarsi, a corrodersi, a corrompersi; mentre il limite della crescita fisica risulta visibile e fotografabile, quello della crescita meta-fisica è invisibile e difficilmente fotografabile. Se penso che sulla mia carta d'identità da circa 10 anni permangono invariati i 164 centimetri di altezza, e che, invece, da quasi trent'anni il mio spirito si evolve continuamente, seppur con delle pause, che si rivelano poi essere momenti di rincorsa da fermi, dopo i quali ci si ritrova sempre molto più avanti che se si fosse proceduto con un'andatura costante, mi rendo conto del perché sulla carta d'identità vengano descritti elementi più o meno stabili della nostra identità fisica (il colore degli occhi, dei capelli, l'altezza, i «segni particolari») e trascurati gli elementi dell'identità interiore (i pensieri, le idee, il linguaggio…). Se si dovesse fabbricare anche una carta d'identità per il «dentro», essa dovrebbe essere rinnovata con una tale frequenza che il suo solo supporto possibile sarebbe l'immateriale, la pagina web. Una specie di carta d'identità interiore sono i sempre più diffusi Blog, ovvero «diari in rete», il cui «lucchetto» è costituito da una password personale con cui vi si accede e i cui contenuti sono aggiornabili (modificabili) in qualsiasi momento del giorno e della notte. Il termine Blog nasce dalla contrazione dei termini Web e Log, ovvero «traccia (di pensiero) su rete». E coloro che li utilizzano sono definiti «blogger». Il blogger è qualcuno che scrive e che, scrivendo, è come se fotografasse il suo stato interiore. Il diario è un mondo in cui sembra non avvenire nulla, in cui l'intorno può essere dissolto, in cui l'io è talmente messo a fuoco da sfocare il resto del mondo. Il diario è anche la nascita del romanzo moderno, in cui il protagonista è l'io, la cui presenza, la cui «voce» sono così potenti da rendere insignificanti l'azione e la descrizione. Leggere un diario è un po' come ascoltare la radio. È l'esigenza del nulla intorno. Ma il romanzo moderno pare giunto al suo funerale. E in Italia ne stanno decretando la morte i romanzi che conquistano gli occhi che amano andare da sinistra a destra, e poi giù, di riga in riga. Ultimo fra tutti il caso - che mi rifiuto di ignorare - di Federico Moccia. Autore di libri che non sono più paragonabili alla radio, ma piuttosto alla televisione e ai suoi reality show, il cui contenuto è il frutto di un'osservazione e di un ascolto di una parte cronologica della società (il mondo degli adolescenti), mostrato senza alcun filtro dell'autore, che sembra semplicemente trascrivere, come fosse un osservatore in trance davanti ad un mondo improvvisamente vuoto. Improvvisamente svuotato (di senso). Nel quale avvengono cose banali, che però rivendicano il loro diritto di essere raccontate.
«Avvenire» del 18 marzo 2007

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