01 marzo 2007

Globalizzazione consumista e impero della tecnica? La vera resistenza viene solo dalla famiglia

di Francesco Botturi
Ci sono momenti in cui ridiscutere di "massimi sistemi" non è astratto, ma permette di comprendere che cosa è in gioco nelle cronache quotidiane. Giovanni Paolo II soleva dire che il nostro tempo è caratterizzato da un'inedita "disputa sull'humanum". Siamo, infatti, in un passaggio d'epoca in cui sono messi in discussione i fondamenti della nostra civiltà, di cui il dibattito su matrimonio e famiglia è momento essenziale.
È incontestabile che la famiglia sia stata, entro le variegate e molteplici forme della sua storia, una modalità essenziale del vivere umano come luogo fondamentale e privilegiato della sua formazione. Ed è altrettanto inoppugnabile che il cristianesimo abbia apportato un contributo fondamentale alla famiglia nel suo impianto occidentale, pur nelle sue notevoli varianti sociali e culturali. Ma questo vale solo fino ad oggi - così argomentano in molti -, perché la crisi della cultura borghese moderna, che aveva recepito a suo modo l'eredità classico-cristiana, e il conseguente esito nichilista della secolarizzazione impongono ormai di relativizzare l'istituto familiare, riducendolo a uno dei modelli possibili di convivenza sessualmente connotati (tra i quali quello - mai finora proposto - della convivenza omosessuale) e proponendo il matrimonio come istituto giuridico polivalente, che può essere riempito di qualsiasi tipo di convivenza (cfr. il modello spagnolo).
In gioco non sono solo il riconoscimento della funzione sociale della famiglia fondata sul matrimonio (garanzia nei figli della prosecuzione della società) e delle sue superiori qualità etiche (assunzione di responsabilità). Ciò che è in gioco è molto di più, perché l'idea occidentale (si potrebbe dire latino-cristiana) di famiglia incorpora un'idea di uomo che costituisce oggettivamente (cioè comparativamente) un vertice di ogni possibile umanesimo. Non si tratta insomma di un modo più nobile e impegnativo di organizzare la convivenza sessuale, che, valida per i tradizionalisti, oggi chiede per i più di essere alleggerita e riorientata. Si tratta piuttosto di una fisionomia umana e di una dinamica d'esistenza, la cui perdita non significa una sconfitta "politica" per la Chiesa, ma la perdita di un patrimonio e la dissipazione di una risorsa essenziali per la conservazione e la fruttificazione di tutto ciò che vi è di più prezioso della civiltà occidentale.
Di quale idea si tratta, dunque? Che l'uomo ha un'identità relazionale generativa, un'identità che si esercita e si costruisce concretamente come relazione generatrice d'altra identità. Si parla dunque di una generatività che non si limita alla fecondità procreativa, ma consiste in un certo modo d'essere in relazione che accoglie l'altro nella reale e piena sua differenza e in questo senso lo genera e consegna a se stesso: il rilievo della differenza sessuale, il valore della durata del legame in cui l'altro permane significativo nel tempo, l'apertura alla corposa alterità del figlio sono caratteri tipici di questa concezione dell'identità umana che si costruisce facendo esistere in molti modi l'altro accolto nelle sue irriducibili differenze.
Le alternative a tale idea dell'uomo, d'altra parte, ne sono la frantumazione: identità senza relazione, relazione senza generatività, cioè relazione proiettiva e possessiva; in cui non sono tanto i modelli di convivenza che si moltiplicano, quanto è un intero antropologico che si disfa, una desertificazione delle relazioni che avanza, una frammentazione senza senso che si espande, una sofferenza affettiva che si diffonde, una capacità educativa che si rarefà, una deriva dei rottami umani ai bordi delle strade dell'esistenza che sia aggrava.
Quanti osservano che in un mondo in continuo cambiamento anche le relazioni di coppia non possono che essere instabili, ecc., costoro compiono una corretta descrizione della realtà, ma sono umanamente rinunciatari; spesso anche incapaci - e ciò è più grave - di valutare la portata di una posizione culturale che con determinazione ed aggressività si propone oggi come alternativa globale all'umanesimo famigliare. Stiamo parlando della cultura omosessuale (da distinguere con chiarezza dalla condizione esistenziale dei soggetti omosessuali), il cui paradigma si regge sulla contrapposizione esplicita all'idea antropologica dell'identità relazionale generativa e punta programmaticamente al cambiamento sostanziale dell'idea di famiglia, pur mantenendone il nome. A questo livello non è affatto in gioco il rispetto dovuto per i soggetti omosessuali, ma un confronto drammatico non tra "orientamenti" individuali e "costumi" sociali diversi, ma tra due concezioni alternative di uomo e di civiltà.
Non si tratta, per converso, di santificare astrattamente la famiglia, che fatica non poco ad essere se stessa, ma di comprendere che la famiglia proprio in quanto istituzione porta in grembo un'idea vivente, che è una riserva di umanizzazione del mondo, di cura stabile della vitalità primaria, di accoglienza della differenza reale, che sono essenziali affinché il mondo della tecnologia e della globalizzazione (con i loro inevitabili corollari di funzionalismo, produttivismo, instabilità, ecc) non precipitino nella barbarie.
Certamente una tale idea dell'uomo e della famiglia ha nel cristianesimo la sua ispirazione fondamentale. È evidente che lo sguardo del magistero di Benedetto XVI rivolto all'idea cristiana di Dio, come Logos-ragione e come Agape-amore, di Dio come «ragione [che] ha un cuore» (Ai Vescovi svizzeri, 9.11.06), ha a che fare con l'uomo che è legame-che-fa-nascere. Ma questo significa che tale idea di uomo è confessionale, buona per il credente e senza stringenza per l'uomo secolarizzato? O, piuttosto, che questo è uno dei casi in cui anche il "laico" può comprendere che il cristianesimo, dando del suo alla storia occidentale, ha portato alla luce qualcosa di umanamente fondamentale, un vero e proprio bene dell'umanità?
«Avvenire» del 28 febbraio 2007

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