11 marzo 2007

Terrorismo, il silenzio degli scrittori

Un romanziere trentenne denuncia le reticenze dei letterati
Di Mario Desiati
Violenza e mondo del lavoro: la solidarietà mancata a Pietro Ichino
Gentile professor Pietro Ichino, sono con lei, con chi ha studiato, con chi ha un pensiero, con chi lo ascolta e chi lo dibatte, con chi rischia la vita per una propria idea, e soprattutto con chi ha capito quale realtà lugubremente enigmatica viviamo. Le ragioni per cui scrivo questa lettera aperta sono per esprimerle solidarietà. La mia è una solidarietà arrabbiata. Dopo la notizia riguardo le minacce da lei ricevute (e la notizia ulteriore della serietà di queste minacce), ho creduto che vi sarebbe stata una forte presa di coscienza degli scrittori italiani. Innanzitutto di coloro che si sono occupati del tema lavoro negli ultimi anni (tra questi ci sono anche io). Devo prendere atto che la loro reazione a ciò che è avvenuto è stata quanto meno blanda. Un intellettuale italiano, studioso di diritto del lavoro, viene minacciato dal residuato bellico di un passato luttuoso. Solidarietà da molte parti politiche, dai suoi colleghi, da numerosi studiosi. Gli scrittori? Può essere che questo fantasma ancora affascini piuttosto che indignare? In letteratura confesso che convivere con i demoni è per me necessario, ma nella vita questi demoni non devono toccare le altre persone. Nel 2007 certi linguaggi, certe ipotesi sovversive sembrano essere ancora considerate memoria politica, una memoria adombrata da un’aura romantica. Ho deciso di scriverle pubblicamente proprio perché avverto quanto questo sia insopportabile. Negli ultimi mesi c’è stato un profluvio di libri sul lavoro, forse il più grosso tema dell’attuale società italiana. Il cambiamento del mercato del lavoro, dovuto alla flessibilizzazione dei rapporti lavorativi, sta trasformando la nostra comunità, le relazioni umane, gli stili di vita. Si parla ancora di fabbrica come luogo di decantazione politica (ma anche di focolai pseudorivoluzionari), quando invece ormai sono di più, molto di più, i precari dei call center, delle case editrici, degli stage a tempo, delle istituzioni pubbliche, del terziario avanzato. Il grande nodo oggi è la percezione dei propri diritti sul luogo di lavoro da parte di questi precari. La dignità. «Lavoro quaranta ore alla settimana, guadagno 600 euro, ma mi ritengo fortunato, grato». Quante volte ho sentito questa frase modellata in vari modi dai miei colleghi in questo decennio di precariato. Chi rinuncia a una porzione dei propri diritti, spesso non si rende conto che farà rinunciare anche gli altri. La precarietà a mio avviso genera questa inettitudine, ma genera anche odio e disperazione, un odio e una disperazione autodistruttiva, il precario italiano è un individuo socialmente innocuo, pericoloso solo per se stesso. Non percepisce i propri diritti perché è plasmato da quella che Pasolini chiamava la «cultura corruttrice». Sa accedere al mercato del lavoro, ma nella provvisorietà si disumanizza, davanti alle prime difficoltà non ha i mezzi per affrontarle, ed è proprio in quel brodo che certi «sovversismi» crescono. Ed è per questo che non sono d’accordo con Erri de Luca: non «si sta ingrandendo» nessun topolino come ha detto sul «Corriere». Sono proprio quelli che de Luca chiama topolini, i più pericolosi, coloro che diventano forsennati cani sciolti pronti a tutto. È possibile sminuire ancora oggi dove le notti non sono ancora finite? Sono con lei, gentile professore, con chi ha studiato, con chi ha un pensiero, con chi lo ascolta e chi lo dibatte, con chi rischia la vita per una propria idea, e soprattutto con chi ha capito quale realtà lugubremente enigmatica viviamo. Ho trent’anni e ho solo pena per chi si vanta dei passati eversivi, delle violenze verbali (e poi fisiche). Ho pena di chi ancora magnifica una stagione di delitti come sbagli di gioventù. Gentile professore, è il momento di opporsi seriamente ai distinguo, a chi con barocchi giri di parole vorrebbe dire («Se la sta cercando»); a chi ha simpatia per chi parla di «Colpirne uno per educarne cento»; a chi pontifica «ripristiniamo l’odio di classe». Opporsi da scrittori o studiosi, è soprattutto opporsi ai linguaggi che vanno sempre contro qualcuno e mai in favore di qualcosa. In un Paese come l’Italia e in una comunità come quella degli scrittori italiani, tutto ciò non di rado viene mitizzato come forma di dissenso e si sottovaluta che è solo il sintomo di un umanesimo in crisi. Una memoria sovversiva, dove esiste chi si vanta di aver sbagliato, chi si pente o chi finge di farlo, dove c’è chi ha concimato quella terra dove sono cresciuti gli attuali rivoluzionari (ma rivoluzionari di cosa, di chi, a nome di chi?), oggi è solo un luogo fuori dalla realtà. Sto con lei, gentile professore, sto con chi ha studiato, con chi ha un pensiero, con chi lo ascolta e lo dibatte, con chi rischia la vita per una propria idea, e soprattutto con chi ha capito quale realtà lugubremente enigmatica viviamo.

L’autore Mario Desiati è nato nel 1977. Con il suo secondo romanzo, Vita precaria e amore eterno (Mondadori), ha vinto il Premio per la letteratura e l’impegno Paolo Volponi 2006.
«Corriere della sera» dell’8 marzo 2007

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