10 aprile 2007

Caduti i valori di Dio e della natura il diritto si basa sulla volontà umana

Claudio Magris e Natalino Irti a confronto sul rapporto tra gli istituti giuridici e il divenire storico
di Claudio Magris
La legge & il nulla
«Dimmi, Pericle - chiedeva Alcibiade duemilacinquecento anni fa - che cos’è la legge?». Forse solo un’efficace costruzione, fondata (almeno oggi) sul nulla, dice un maestro di diritto come Natalino Irti, ordinario nell’Università di Roma «La Sapienza» e accademico dei Lincei, autore di testi fondamentali della sua disciplina - una quindicina di studi strettamente specialistici - e divenuto un punto di riferimento culturale in senso più ampio in alcuni libri di vasto respiro, quali L’ordine giuridico del mercato, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Nichilismo giuridico e Dialogo su diritto e tecnica (con Emanuele Severino). Il suo recentissimo volume, Il salvagente della forma, si impernia su un tema fondamentale, analizzato con accanita passione e con classica distanza in una vasta gamma di aspetti giuridici, filosofici, morali, scientifici, politici, letterari: il nichilismo puro e assoluto che oggi caratterizza secondo l’autore il diritto, il quale non può più richiamarsi, come un tempo, a valori universali che lo trascendono né alla tradizione, né a Dio né alla natura; non può reclamare «verità», ma si fonda soltanto sulla volontà più forte, capace di imporre l’ordinamento giuridico e l’ordine del mondo ad essa congeniali, e si risolve dunque nella politica. Come aveva visto Nietzsche, pure il diritto è volontà di potenza, è «tecnica» - destino dell’Occidente, secondo Severino, con il quale Irti intrattiene un intenso dialogo. Dinanzi a questa realtà, Irti non indulge né alle deprecazioni moralistiche né alle garrule apologie cui siamo abituati: ne prende atto con fermezza intellettuale, rigore logico (che distingue i giudizi di fatto dalle proprie convinzioni personali e spesso spiazza il lettore con inattese posizioni politiche) e un senso di fraterna partecipazione alle vicende degli uomini abbandonati dagli dei. Il ritratto della nostra realtà offerto da questo libro ne fa uno dei testi più forti, insieme a quelli di Severino, sul nichilismo in generale. Quest’ultimo, gli chiedo, ha pervaso la filosofia e la letteratura sin dalla fine dell’Ottocento; perché il diritto - se non sbaglio - ne è stato coinvolto più tardi?
Irti: Non sbagli. Il nichilismo è giunto tardi al diritto. La «morte di Dio», cioè il declino dei fondamenti religiosi e metafisici, fu a lungo nascosta dietro surrogati terreni: Stati nazionali, secolare tradizione del diritto romano, energia unificatrice dei codici. Ma, nel giro di un secolo o poco più, anche questi surrogati, che sembravano garantire totalità e unità di senso, sono scesi al tramonto o hanno perduto forza di guida. Rimangono le forme, le procedure capaci di generare norme in ogni ora del giorno e in ogni luogo della terra. I contenuti sono determinati, di volta in volta, dalla volontà più forte ed efficace, che è in grado di possedere e dominare i congegni produttivi. Se nessuna norma è presidiata da verità, da un vincolo assoluto e oggettivo, allora tutte vengono dal nulla e nel nulla possono essere risospinte. Nichilismo è questo abbraccio del nulla, quest’assenza di un «da dove» e di un «verso dove». Né provenienza né destinazione.
Magris: Kant diceva che la domanda «cos’è il diritto?» pone il giurista nello stesso imbarazzo in cui si trova il filosofo quando gli chiedono «cos’è la verità?». Nel tuo libro la verità è bandita dal diritto; le leggi non sono più vere o più giuste di altre, bensì più valide, più adatte ad organizzare il mondo secondo la volontà del legislatore, che in quel momento è la volontà politica più forte. Non è certo la natura che può offrire dei valori assoluti: per l’universo, con le sue stelle che collassano e le sue specie che distruggono altre specie, le leggi razziali di Norimberga non sono né giuste né ingiuste. Nei valori - compresi i comandamenti di Dio per il credente, come sa la grande teologia moderna - si può credere, ma non si possono dimostrare. Ma noi viviamo - e non potremmo vivere altrimenti - tracciando una netta distinzione tra valori che consideriamo transeunti e comunque discutibili (per esempio certe norme di comportamento sessuale, la preferenza per un’economia dirigista o liberista) e altri che consideriamo - per noi - degli assoluti: non siamo disposti a discutere se sia lecito torturare un bambino o organizzare Auschwitz. Naturalmente anche le leggi razziali di Norimberga sono cadute perché chi vi si opponeva è stato più forte, ma possiamo dire che esse erano soltanto meno valide, espressione di una volontà politica che si è rivelata meno forte, o non dobbiamo invece dire che erano ingiuste e infami e che lo sarebbero anche se il Terzo Reich avesse vinto e dunque se fossero tuttora valide e operanti? Pure il conflitto fra Antigone e Creonte, ha scritto in un bellissimo saggio Gustavo Zagrebelsky, esige una soluzione non solo morale bensì politica, ma questa politica non prescinde dalla morale. Forse i due postulati dell’etica kantiana non si fondano su nulla (certo non sulla natura), ma noi li viviamo come assoluti; li abbiamo elevati a valori universali sottratti al divenire storico - almeno a quello dell’umanità che conosciamo. Quando tu parli di «esemplare onestà» di un tuo critico o di altri valori, non solo li professi come vuole il tuo demone (direbbe Max Weber), ma dai per scontato che siano valori in sé, per la nostra umanità.
Irti: Il diritto ha conquistato faticosamente la propria autonomia e laicità. Sciogliendosi da qualsiasi presupposto, si è consegnato per intero alla storia degli uomini, e perciò alle loro volontà, alle loro visioni del mondo, al loro istinto di potenza. Soltanto la fede, ossia la volontà di credere, erige «valori», i quali valgono appunto perché sono creduti e voluti. Questa è grandezza e tragedia dello storicismo. Tu stesso dici che i postulati dell’etica kantiana, noi «li viviamo come assoluti», noi «li abbiamo elevati a valori sottratti al divenire storico»: e, dunque, non li abbiamo accolti come dati oggettivi, vincolanti in sé e per sé, ma li erigiamo e sosteniamo con il nostro volere. La volontà, che li ha istituiti, è anche in grado di destituirli. Antigone è sublime figura della rivolta contro un certo diritto; ma a nessun diritto si può chiedere di prevedere e consentire la ribellione verso se stesso, cioè l’autodistruzione. La volontà contestata e la volontà contestante avanzano, ciascuna per sé, la pretesa di valere in modo esclusivo. Questa scissione segna tutta la storia del diritto. Se Antigone invoca un altro diritto, Creonte incarna il diritto come è, la dolorosa fermezza di chi manovra la barra nella tempesta. Jean Anouilh ha colto potentemente questo profilo.
Magris: Fra le tante pagine bellissime del libro, c’è l’inoppugnabile demolizione logica dell’attuale pretesa ideologica del mercato di essere, diversamente dall’economia dirigista, un dato «naturale», mentre tu dimostri che esso è il risultato, «artificiale» come ogni altro, di una volontà politica oggi più forte, che lo vuole e lo impone, senza che ciò implichi da parte tua una posizione negativa nei riguardi del mercato stesso. Ma smascherare un’impostura ideologica non significa credere che esista una verità, in questo caso appunto il carattere artificiale del mercato?
Irti: «Smascherare un’impostura» è soltanto proporre un’interpretazione delle cose, ed anche volere che il diritto sia la potenza regolatrice e l’economia la materia regolata. Verità? È forse un caso che ci troviamo oggi in dialogo un uomo di lettere e un uomo di diritto? Tu mi domandi proprio ciò che io domando a te, ciò che il diritto, chiuso nella gabbia del volere umano, non è capace di svelare. Forse la poesia, interrogando le menti e i cuori, e il cielo e la terra, può guidarci per qualche strada ancora ignota. Accogliamo anche noi l’estremo messaggio di Heidegger.
Magris: Il tuo libro si intitola Il salvagente della forma. È questo che fonda l’affinità tra diritto e letteratura, la quale ha dato grandi contributi alla fisionomia dell’homo oeconomicus, dal romanzo inglese e francese - per citare solo qualche esempio - a Goethe, uno fra i primi a intuire il nichilismo del consumo. Gottfried Benn, grande poeta di un radicale nichilismo, diceva di scrivere «strofe su catastrofi», strofe perfette, che in qualche modo arginano il caos e la distruzione. Ma quella perfezione della forma dice un senso che la trascende, l’asciutta e struggente malinconia per la vita fuggitiva, il desiderio di salvarla, nella forma ma non solo per amore della forma. Ogni nichilismo autentico è avvolto da questo alone terso e struggente, non detto e indicibile. E forse la forza del nichilismo sta pure nella seduzione di queste parole - nichilismo, nulla - che affascinano come una musica insieme dura e melodiosa, un canto di sirene cui piace abbandonarsi...
Irti: La salvezza è nella forma redentrice. Le tue parole sono già l’inizio di una strada comune.

Natalino Irti, accademico dei Lincei, insegna Diritto civile e Teoria generale del diritto presso l’Università «La Sapienza» di Roma ; il suo libro si intitola Il salvagente della forma, pp. 175, € 18, Laterza.
«Corriere della sera» del 6 aprile 2007

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