24 aprile 2007

Chi vuole il «partito del sesso»

Può l’«identità di genere» divenire programma politico? A sinistra già vari gruppi hanno accolto a fini elettorali persone dalla sessualità ostentata, perdendo così di vista il senso di un bene davvero comune
di Domenico Delle Foglie
Può la sessualità farsi partito? Ovvero, può la questione dell'identità di genere, così come viene posta da alcuni settori minoritari dell'opinione pubblica, assurgere a programma di partito, tanto da candidarsi a divenire un asset fondamentale di una futura forma-partito? Due domande buttate lì non per caso, dopo le ondate di polemiche che, ad andamento ciclico, si susseguono nel dibattito pubblico a riguardo soprattutto di due temi: il matrimonio omosessuale e l'ipotesi di adozione agli omosessuali. Quanto il tema sia di attualità in Europa, è ben testimoniato dalle recenti dichiarazioni di Nicholas Sarkozy, candidato gollista nella corsa all'Eliseo, che nella patria dei Pacs ha escluso apertamente sia l'una che l'altra possibilità. Evenienze tutt'altro che assenti dal dibattito pubblico italiano se solo si avesse il coraggio di ricordare quanto è stato affermato dai militanti omosessuali nel corso della loro manifestazione tenuta a Roma in piazza Farnese. In quella sede, infatti, gli esponenti delle diverse organizzazioni omosessuali sostennero apertamente che «i Dico sono solo il primo passo verso il matrimonio omosessuale» e che «essendo le famiglie tradizionali i luoghi della pedofilia e della violenza», loro invece sono «i genitori modello». Il tutto ben scandito alla presenza di un folto gruppo di politici, compresi due ministri, che nell'occasione non presero le distanze da queste affermazioni. Solo qualche giorno dopo, una dichiarazione preoccupata di Franco Grillini, messo alla strette dal montare delle polemiche sulla vera posta in gioco con i Dico: «Non chiediamo né il matrimonio omosessuale né l'adozione per le coppie omosessuali». Sin qui la cronistoria recente che va letta in chiave politica, se vogliamo dare risposta agli interrogativi iniziali. Proviamo a mettere in fila gli indizi che anche in politica, come spesso accade nelle migliori trame giudiziarie, finiscono per divenire una prova.

La leadership.
Chi può negare che alcuni partiti di si nistra abbiano espressamente ricercato persone caratterizzate da una sessualità ostentata, per catturare fasce di consenso marginali ma ritenute strategiche per conquistare una vittoria elettorale? Con queste scelte si è affermata una prassi propria del partito radicale, offrendo il destro, agli osservatori più smaliziati, per affermare che soprattutto il più grande partito della sinistra si è ormai incamminato sulla strada del partito radicale di massa.

La cultura.
Non è solo una scelta di immagine e di utilità elettorale quella messa in campo da alcuni partiti, ma più verosimilmente il tentativo di introdurre nel circuito culturale di massa, per via parlamentare, alcuni temi cari alle comunità omosessuali e transessuali italiane. E in particolare, quella cultura «dell'uguaglianza senza differenza» che ha mosso i suoi primi passi nel femminismo delle origini e che poi è stata cavalcata dal movimento omosessuale come strumento di lotta culturale. Ed ancora la questione del «genere», che in tempi di relativismo e di svuotamento di riferimenti certi, trascende la normale dimensione duale uomo-donna per appiattirsi sulla costruzione culturale dell'immaginario e della prassi sessuale. Ovvero la «liberazione» e la «legittimazione» di ogni variante sessuale, in un processo all'infinito, di definizione dell'umano sessuato.

La sfera dei fatti e dei diritti.
Dunque i fatti, ovvero i comportamenti sessuali diversi dal rapporto di coppia eterosessuale, assumono in questa costruzione culturale la dimensione dei diritti individuali. Il tutto a prescindere da quello che è il sentire comune di un popolo, nato e cresciuto nell'ottica della coppia eterosessuale e nella prospettiva della famiglia fondata sull'unione stabile di un uomo e di una donna, aperta all'accoglienza dei figli.

La tentazione di farsi
partito nei partiti.
La debolezza del sistema politico bipolare può spingere ad accettare, un po' per superficialità ma soprattutto per calcolo spregiudicato, compro messi sino a ieri inaccettabili. La forza di un partito post-moderno dovrebbe essere comunque quella di interpretare, da destra come da sinistra, il bene comune. È plausibile immaginare che a volte si debbano chiudere le porte ai desideri dei singoli per perseguire un orizzonte più ampio? È già accaduto in altre stagioni: cosa impedisce alle grandi forze storiche di farsi carico di queste responsabilità collettive? Se qualcuno ha voglia di farsi partito per assecondare i desideri di questa o quella categoria, si sottoponga autonomamente al giudizio della comunità e non si nasconda nelle pieghe dei grandi partiti di massa.
«Avvenire» del 18 aprile 2007

Nessun commento: