24 aprile 2007

Il nuovo codice Gramsci: ecco i segreti del Pci

Angelo Rossi e Giuseppe Vacca rileggono in un saggio il dramma del leader prigioniero
di Antonio Carioti
Citava Dante per criticare Togliatti ed Erasmo contro Stalin
Che c’entrano Silvio Spaventa, Erasmo da Rotterdam e il canto X dell’Inferno di Dante con le traversie del Partito comunista durante il fascismo? Apparentemente nulla. Ma pare che Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, utilizzasse simili allusioni in codice, nelle lettere inviate alla cognata russa Tania Schucht, per comunicare con i compagni, in particolare con Palmiro Togliatti. Lo sostengono Angelo Rossi e Giuseppe Vacca in un libro edito da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp. 246, 18), che getta nuova luce sulla prigionia del pensatore sardo e uscirà il 27 aprile, nel settantesimo anniversario della sua morte. L’autore dei Quaderni del carcere resta un riferimento importante non solo per i Ds, che gli renderanno omaggio in apertura del prossimo congresso, ma per larga parte della sinistra internazionale, come dimostrano le iniziative previste in tutto il mondo, da Pechino a Buenos Aires passando per Berkeley, in occasione di questo anniversario, che coincide con l’uscita del primo volume dell’edizione nazionale delle opere gramsciane. Il saggio di Rossi e Vacca parte da una vicenda cruciale nella storia del Pci: il dissidio esploso tra i due massimi dirigenti nell’ottobre 1926, quando Gramsci rivolse pesanti critiche a Stalin e Togliatti, allineato con Mosca, si dissociò nettamente da lui. In seguito i due leader comunisti non ebbero più contatti diretti, anche perché Gramsci fu arrestato subito dopo. Ma Rossi e Vacca ritengono che nelle sue lettere dalla prigione vi siano «riferimenti letterari» densi di significato politico, anche se «percepibili soltanto da intelletti allenati a cogliere le sottili sfumature del suo linguaggio». Una sorta di «codice Gramsci», non impossibile da decifrare. Ecco qualche esempio. Nel gennaio del 1930 il detenuto di Turi ricorda in una lettera il caso di Silvio Spaventa, patriota rilasciato nel 1859 dalle carceri borboniche grazie alle insistenze francesi e britanniche: suona come «un suggerimento al partito perché prema sul governo sovietico al fine di ottenere la sua liberazione». Sempre nel 1930, in dicembre, Gramsci parla della critica di Benedetto Croce al marxismo dogmatico e la paragona al modo in cui Erasmo deplorava le asprezze di Lutero: qui Rossi e Vacca leggono un invito a Togliatti perché dia all’azione del partito un respiro culturale alto, al di sopra delle pur inevitabili semplificazioni del Comintern staliniano, in modo da propiziare, come seppe fare la Riforma protestante, la nascita di una civiltà socialista nel solco della più raffinata tradizione europea. Poi ci sono le riflessioni sul canto X dell’Inferno, datate settembre 1931, con il richiamo ai due protagonisti Farinata degli Uberti, che fiero «s’ergea col petto e con la fronte», e Cavalcante dei Cavalcanti, molto più umanamente in assillo per la sorte del figlio Guido. Vacca e Rossi ritengono fosse una metafora usata da Gramsci per deplorare l’andamento del IV Congresso del Pci, tenuto mesi prima a Colonia, in cui lui stesso era stato celebrato come un’icona eroica, una specie di Farinata comunista. Invece il suo stato d’animo si avvicinava piuttosto a quello di Cavalcante, in apprensione per il partito, «la sua creatura presa nella morsa della repressione fascista e dell’avventurismo del Comintern», così come il personaggio dantesco era preoccupato per il figlio. Altri riferimenti riguardano sette lettere gramsciane del 1932 sul pensiero di Croce, in cui si possono cogliere indicazioni sul problema dell’egemonia che pare abbiano destato in Togliatti un notevole interesse. Ma il fatto che tra i due leader comunisti proseguisse un confronto a distanza risulta confermato anche da un importante inedito pubblicato in appendice al libro: il rapporto scritto per il partito dal fratello di Gramsci, Gennaro, dopo i colloqui avuti con il prigioniero a Turi, nel giugno 1930. Il testo, ritrovato da Silvio Pons negli archivi di Mosca, dimostra come il pensatore sardo, malgrado la lunga reclusione, «seguisse da vicino le vicende politiche italiane e mondiali». Infatti Antonio, parlando con Gennaro, esprime chiaramente il suo dissenso rispetto alla «svolta» decisa dal Comintern nel 1929, cui il Pci si era con riluttanza accodato. Quella nuova linea prevedeva un forte inasprimento dello scontro di classe in vista di uno sbocco rivoluzionario a breve termine. Invece Gramsci dichiara al fratello di non credere «che la fine sia così vicina». E aggiunge: «Anzi, ti dirò, noi non abbiamo ancora visto niente, il peggio ha da venire». Al rapporto si aggiunge una memoria riservata dello stesso Gennaro, in cui si affronta un tema delicatissimo, la lettera spedita nel 1928 a Gramsci, già detenuto, da un alto dirigente del partito, Ruggero Grieco, e intercettata dalla polizia fascista. Il leader sardo riteneva che quel documento, mostratogli con atteggiamento malizioso dal giudice istruttore Enrico Macis, lo avesse gravemente danneggiato. E lo dichiara al fratello: «Sono convinto che tale lettera è stata per me il più grave capo d’accusa». Si è detto che Gramsci deprecò la missiva di Grieco perché da essa traspariva il suo ruolo di leader del partito e quindi ne sarebbe risultata aggravata la sua posizione processuale. Ma Rossi e Vacca smentiscono tale interpretazione sulla base di un altro inedito, una lettera di Tania Schucht alla sorella Giulia, moglie di Antonio, del 9 febbraio 1933. Ne risulta che Gramsci era persuaso che la mossa di Grieco avesse fatto saltare una trattativa per la sua liberazione tra il governo fascista e quello sovietico. Egli pensava di poter uscire dal carcere solo in base a un negoziato «fra Stato e Stato», cioè tra Italia e Urss, senza alcuna partecipazione del Pci, che certo Mussolini non intendeva legittimare. Invece la lettera pareva sottintendere un contributo attivo del partito: «Tutto quello che ci è stato chiesto, per te, noi lo abbiamo fatto, sempre», scriveva Grieco. Gramsci giudicava quelle parole «un atto scellerato» o «una leggerezza irresponsabile». Ed era convinto di averne pagato le spese.
«Corriere della sera» del 15 aprile 2007

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