10 aprile 2007

La fabbrica dei kamikaze

Europa culla del terrorismo islamico
di Magdi Allam
L’Europa è diventata la più pericolosa «fabbrica di kamikaze islamici» al mondo perché è stata incapace di integrare gli immigrati musulmani. L’accusa, pesantissima, è stata lanciata dagli Stati Uniti, aprendo un nuovo fronte di scontro con l’Europa (ancor più cruciale di quello sull’economia, sulla politica e sulla difesa) nel determinare il futuro della civiltà occidentale. Perché riguarda la sicurezza che tutela il diritto alla vita e il modello di convivenza sociale su cui si basa l’identità collettiva. L’ha fatta il ministro della Sicurezza americano, Michael Chertoff, nell’intervista al Daily Telegraph in cui confessa di temere che un nuovo 11 Settembre negli Stati Uniti potrebbe essere scatenato da terroristi islamici suicidi con cittadinanza europea. Ebbene, considerando i fatti, non si può che dargli ragione. Non è stata forse la «cellula di Amburgo» di Al Qaeda a preparare e dirigere il più clamoroso attentato terroristico suicida della Storia a New York e Washington nel 2001? Non sono stati forse dei cittadini britannici a inaugurare la figura del terrorista suicida islamico europeo, facendosi esplodere nel caffè Mike’s Place di Tel Aviv il 30 marzo 2003 e nella metropolitana e nel centro di Londra il 7 luglio 2005? Non è forse vero che nel corso degli ultimi 15 anni dall’Europa sono partiti migliaia di terroristi islamici, autoctoni e immigrati tra cui decine di kamikaze, per andare a fare la loro Jihad in Afghanistan, Algeria, Cecenia, Kashmir, Albania, Bosnia, Kosovo, Israele, Somalia, Marocco, Yemen e Iraq? Come non preoccuparsi del fatto che da un sondaggio del Pew Global Attitudes Project, della scorsa estate, emerge che un musulmano europeo su quattro legittima gli attentati terroristici suicidi contro i civili «per difendere l’Islam»? Ugualmente, se consideriamo il sostanziale fallimento dei modelli di convivenza sociale finora sperimentati in Europa, quello multiculturalista in Gran Bretagna e Olanda e quello assimilazionista in Francia, non possiamo che dar ragione a Chertoff. Sono fatti incontestabili la diffusione dei ghetti etno-confessional-identitari; il venir meno del sistema di valori che sostanzia l’identità nazionale; l’esplosione delle tensioni e delle violenze tra i musulmani e gli autoctoni. Tuttavia ciò che non convince è la diagnosi di Chertoff, secondo cui ci sarebbe un rapporto di causa ed effetto tra il fallimento del modello di convivenza sociale e l’affermazione dei terroristi islamici europei, nonché la terapia che individua la soluzione nel multiculturalismo. È lo stesso Chertoff a contraddirsi quando ipotizza, da un lato, una natura reattiva al terrorismo islamico europeo e, dall’altro, attribuisce una natura aggressiva al terrorismo islamico globalizzato negando che la guerra in Iraq sia la causa che l’ha scatenato. Così come Chertoff pecca di ingenuità immaginando che migliorando il tenore di vita e il livello di istruzione si sradicherà il terrorismo, perché in realtà la generazione più pericolosa dei burattinai e dei burattini del terrorismo islamico è formata da individui benestanti e altamente istruiti. Infine, ciò che sfugge a Chertoff, è che i modelli di convivenza sociale in Europa sono falliti non perché non si sia permesso ai musulmani di affermare la propria identità, ma perché non è stato richiesto loro di rispettare le regole e di condividere i valori che sono alla base della comune identità. Il difetto è nel fatto che l’Europa, a differenza degli Stati Uniti, ha una cultura dei diritti ma non dei doveri, si è limitata a elargire a piene mani i diritti senza esigere in cambio l’ottemperanza dei doveri.
«Corriere della sera» del 6 aprile 2007

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