04 aprile 2007

Le illusioni non sono mai perdute

di Mario Santagostini
Ragioniamo delle illusioni, anche se sembra un ossimoro. Affermando per prima cosa che, da sempre, la cultura ha tentato di farsi una ragione del loro nascere, di indagarne gli effetti straordinari o perversi, stabilirne statuti, limiti. E ha indicato (da Platone a Wittgenstein) ricette per abolirle. E ha proclamato, ciclicamente, la necessità di ritornare a quelle che i filosofi chiamano «le cose stesse». Eppure, testarde, le illusioni si ripresentano.
Così, il vero padre della coscienza moderna, Rousseau, dichiara che il paese migliore in cui vivere è proprio quello delle chimere. L’illusione possiede una storia, una porzione della quale conosceremo nel gran libro di Lionello Sozzi Il paese delle chimere (Sellerio, pagg. 416, euro 24). E il suo spettro semantico ammette infinite varianti: si chiama inganno, utopia, speranza, fantasma, proiezione, ideale effimero, compensazione metaforica di mancanze. E volta per volta ha uno statuto diverso. In fondo è strano: l’illusione sembra affermarsi in tutta la propria potenza se e solo se contrapposta a qualcosa che ci si ostina a definire realtà. Ed è altrettanto strano osservare come sia stato, in fondo, il momento di massima esaltazione della razionalità europea, l’Illuminismo, a mostrare le più alte quote di tolleranza: non la considerò né diabolica né maligna né abbagliante e, in taluni casi, neppure conoscitivamente o moralmente fuorviante.
Nella galassia del Razionalismo, nelle tesi kantiane essa altro non è se non un movimento spontaneo dell’intelletto quando oltrepassa i confini dell’esperienza. Autoprodurre chimere, praticarle, oltre che gradevole o consolatorio o da disperati o idealisti, è una sorta di «atto dovuto» della natura umana. Nemmeno dei peggiori. Anzi, forse ai momenti più alti di quella stessa natura appartiene il riconoscimento d’uno slancio verso le idealità archetipe, ancora indistinte e certo irreali ma da perseguire sempre e comunque. «Che tutto sia vano e che tutto sembri reale»: così scriveva Foscolo e l’affermazione oggi, alla luce del libro di Sozzi, mi sembra memorabile, perché è il manifesto di un pathos politico radicale, preideologico, assoluto. Del quale Rousseau, Chénier, Foscolo stesso potrebbero rappresentare gli annunciatori in ombra.
C’è stato, insomma, nella storia della cultura, un momento topico in cui la fabbrica delle immagini toccò un culmine mai più raggiunto allorché intravide la necessità di slanci, di sogni tanto alti da obbligare a un agire guidato non da necessità materiali ma da una sorta di «sublime etico» astratto. E può essere che proprio la trasformazione di quel sublime, di quel «regno dei fini» trascendentale in progetti politici concreti rappresenti già una decadenza, una perversione o un’occasione perduta dalla storia. Il disingannato Leopardi, a suo modo, se ne era già accorto. E coniugava l’illusione alla sua caduta, non al suo possibile realizzarsi. E ne aveva immensa nostalgia. Come noi.
«Il Giornale» del 29 marzo 2007

Nessun commento: