24 aprile 2007

«Nel ‘77 i futuri leader ds sapevano ma non fecero nulla»

di Dario Fertilio

Piero Fassino, certo, andrà in Russia. Ma il coraggio di denunciare la Grande Menzogna, dice Carlo Ripa di Meana, ci sarebbe voluto allora. Cioè trent’anni fa, nel 1977, durante quel fatidico novembre veneziano che sarebbe passato alla storia come Biennale del dissenso. Lui era, certo, il presidente, però il vero regista - ricorda - si chiamava Bettino Craxi. Che accerchiato dal grande fratello chiamato Pci, snobbato da tutti gli accomodanti sostenitori del compromesso e della consociazione all’italiana, osò l’inosabile: sfidare Mosca. Appoggiare lo svolgimento della Biennale, anche a costo di una crisi con l’Urss e i suoi fiancheggiatori. «E ce n’erano tanti, cominciando dai tre direttori della Biennale che si dimisero: Luca Ronconi, Vittorio Gregotti e Giacomo Gambetti. Ma se ripenso oggi a quella stagione, concludo che ha dato fierezza e combattività al dissenso, logorando e infine portando al crollo l’impero di Mosca. Da allora in poi, non è stato più possibile abbeverarsi al mito sovietico». Era quella la Grande Menzogna, e la Biennale la portò allo scoperto: «Tutto risultò documentato, e una bella scossa ci fu». Anche se le radici del problema - ricorda Ripa di Meana - erano antiche. Affondavano in terra sovietica, «là dove tanti comunisti italiani morirono su denuncia al Kgb di altri comunisti. Dunque, il viaggio di Fassino a San Pietroburgo non potrà essere soltanto un omaggio alla memoria, dovrà riconoscere quella tragedia». E anche, con il senno di poi, rendere l’onore delle armi a Bettino Craxi. «Su un lungo arco storico, dobbiamo concludere che aveva ragione lui, mentre Togliatti e Berlinguer erano nel torto. Non è sufficiente rivalutare Craxi per l’episodio di Sigonella: occorre riconoscere che sul più grande quesito della fine del secolo scorso, l’oppressione totalitaria comunista e il probabile crollo dell’impero sovietico, l’unico statista che ebbe la forza di investire le sue energie e fortune, non alla fine ma già negli anni Settanta e Ottanta, fu appunto Craxi». Erano tempi duri, ricorda Ripa di Meana. E cita Roberto Calasso, che sul «Corriere» ha definito la cultura italiana dominante di allora «una forma di alto sovietismo». Ancora nel ‘74 «l’Unità» pubblicava un articolo di Giorgio Napolitano «in cui si giustificava l’esilio imposto da Mosca a Solgenitsin per la pubblicazione all’estero di Arcipelago Gulag. Craxi fece ciò che né il tedesco Schmidt, né Mitterrand in Francia o Michael Foot o Tony Benn in Inghilterra osarono mai». E così quella Biennale del ‘77 cambiò la storia, «anche se oggi nei libri dedicati a quel periodo ci si ricorda di Lama, Bifo, Guattari, mentre non si descrivono neppure in una nota e pie’di pagina i trenta giorni veneziani di fuoco, tra novembre e dicembre, quando duecentomila persone visitarono la mostra sui samizdat, e il fiore dell’intellighenzia mondiale, da Brodskij alla Sontag, da Settembrini ai giovani Galli della Loggia e Flores d’Arcais, si schierarono al nostro fianco». Mancavano, però, i comunisti. «Non vennero, eccetto Boffa, che tuonò contro l’iniziativa e ripartì subito. Soltanto nel ‘94 si seppe perché: a Mosca si era svolta una riunione segreta del comitato centrale sovietico dedicato al boicottaggio della Biennale». Non c’era, dunque, «la generazione di sinistra che oggi è al potere. Anche se i coetanei di Massimo D’Alema avrebbero già dovuto essere in grado di cogliere la portata di un evento simile». «I leader di oggi sono pronti - continua - a considerare indifendibile quel periodo di ortodossia filosovietica. Ma poi si affrettano a scontornare con una forbicetta le icone di Togliatti e Berlinguer, come se fossero cammei, separabili dallo sfondo. Ora, io non dico di sbianchettarli, ma almeno, quando si parla di riconoscimenti a Craxi, propongo di non centellinare il rosolio e poi farci bere di nuovo l’amarone». Anche perché, conclude, la storia ha chiarito i paralleli e le affinità tra comunismo sovietico e totalitarismo nazista: «Io, oggi, quei morti non esito a chiamarli vittime di un Olocausto».
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007

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