04 aprile 2007

Sirene: era il silenzio il segreto del loro canto

La leggenda delle donne-pesce ci segue dai tempi di Omero. Un nuovo studio di due antichisti sulle origini del mito
di Giorgio Ieranò
«Cosa cantavano di solito le sirene?», domandava l’imperatore Tiberio, che si divertiva a porre questioni bizzarre e impossibili agli eruditi di corte. Non conosciamo le risposte dei suoi malcapitati interlocutori, ma possiamo indovinarne l’imbarazzo. Perché quello delle sirene è, sotto tutti i profili, un mondo misterioso e ambiguo. Esse stesse creature ibride, la loro immagine si sdoppia e si moltiplica come in un infinito gioco di specchi, che inizia ai tempi di Omero. Per noi le sirene sono esseri fantastici metà donne e metà pesce, ma nella Grecia antica avevano il busto di fanciulle e il corpo di uccelli. Un po’ come le demoniache Arpie. E, come le Arpie, le sirene avevano un loro oscuro rapporto con il regno dei morti. Anche se esse sembrano appartenere un po’ a tutti i regni del creato: il mare, dove tendono agguati ai naviganti, e persino il cielo, dove Platone immagina che l’armonia delle sfere sia intonata sulle loro mirabili voci.
La lunga avventura delle sirene, dalla Grecia a oggi, è ora condensata in un libro, scritto a quattro mani dagli antichisti Maurizio Bettini e Luigi Spina (Il mito delle Sirene, Einaudi, pagg. 268, euro 22). Il volume compare in una collana dove già sono usciti altri saggi affascinanti, come quelli di Ezio Pellizer sul mito di Narciso e quello di Carlo Brillante sulla leggenda di Elena di Troia. Anche questa volta Bettini si è riservato la parte introduttiva, nella forma di un racconto che affronta la storia mitica da una prospettiva inedita: qui c’è Ulisse che racconta a un ragazzo misterioso cosa cantavano le sirene. Ma non vi sveleremo nulla perché il finale è a sorpresa. A Spina, invece, è affidata la parte propriamente saggistica, il lungo viaggio sulle tracce millenarie delle sirene. Che qualcuno giurava di avere visto: l’umanista Teodoro Gaza raccontava all’amico Giovanni Pontano di come un giorno, passeggiando su una spiaggia del Peloponneso, si fosse imbattuto in una fanciulla col corpo che finiva in una coda di aragosta e l’avesse poi ributtata in mare. Mentre Cristoforo Colombo, il 9 gennaio 1493, avvistò tre sirene presso le coste americane, lamentandosi poi che «non erano così belle come le si dipinge».
Le sirene sono da sempre creature marine. Anche quando erano mezze donne e mezze uccelli la loro postazione preferita era sempre uno scoglio o un’isola. Tutti i marinai, perciò, da Ulisse a Colombo, correvano il rischio di incrociarle nella loro rotta. Capitò anche alla nave degli Argonauti, i quali si salvarono perché avevano imbarcato con loro anche il sommo cantore Orfeo, che sfidò e batté in una gara di canto le mostruose cantatrici. Uno degli Argonauti, però, raccontava il poeta greco Apollonio Rodio, si tuffò in mare per raggiungerle. Era il giovane Butes: sarebbe morto nell’abbraccio assassino dei mostri, se Afrodite, la dea dell’amore non fosse accorsa a salvarlo. Le sirene, insomma, incarnano da sempre il fascino ambiguo delle acque, del mare che rifulge nella sua doppia luce: luogo di incanti, ma anche spazio di morte e dissoluzione.
A volte esse appaiono come nemiche di Afrodite, che le avrebbe trasformate in mostri perché erano fanciulle testardamente attaccate alla loro verginità e ostili all’amore. Ma, altre volte, è come se rappresentassero il lato oscuro e periglioso di Afrodite. Una funzione che sembra affiorare, in forma per così dire laicizzata, nella storia che fa delle sirene delle semplici rapaci prostitute. Così scriveva per esempio il mitografo Eraclito: «Erano, in realtà, delle etère di straordinaria abilità musicale, sia con gli strumenti sia con la dolcezza della voce, bellissime, i cui clienti dilapidavano con loro le proprie sostanze». Quella delle sirene prostitute è un’immagine ricorrente nella letteratura antica. D’altra parte, Afrodite, signora dell’amore, aveva anche un rapporto speciale col mare. Dalla schiuma del mare di Cipro era nata: e proprio a Cipro, nella località di Ascalona, essa era venerata nella forma bizzarra di una divinità metà donna e metà pesce. Si capisce, dunque, come le sirene possano essere diventate gradualmente, da donne-uccello, donne-pesce. Anche se la prima testimonianza sicura su questa seconda e nuova natura delle sirene risale a un Libro dei mostri dell’inizio dell’VIII secolo.
Creature del mare, le sirene erano anche demoni della morte. Alcune leggende narravano che fossero le ancelle di Prosperina, sposa del re dei morti. Alcuni ricollegavano il loro nome a Sirio, l’astro che porta la calura meridiana, e Roger Caillois le arruolò nella schiera di quei «demoni del mezzogiorno» che appaiono quando il sole è a picco e rubano il senno degli uomini. La loro seduzione si esercitava attraverso il canto, e perciò alcuni le consideravano figlie di una Musa. Ma, appunto, che cosa cantavano le sirene? Nell’Odissea abbiamo una parziale risposta. Esse dicono a Ulisse e gli dicono di conoscere tutte le sofferenze di greci e troiani e, ancora, «tutto quanto accade sulla terra ricca di frutti». Ma questa è una notizia parziale. In primo luogo perché è riferita dallo stesso Ulisse, unico uomo ad avere ascoltato il canto delle sirene e a esserne uscito vivo. E Ulisse, come sapevano già gli antichi, era un bugiardo. Non toglieremo al lettore il piacere di ricomporre tutti i misteri del canto delle sirene attraverso le pagine esemplari di Spina. Ma almeno bisognerà ricordare la soluzione di Franz Kafka: «Le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, ed è il loro silenzio». I mostri, in effetti, posseggono da sempre tutti i registri della sonorità, dalla voce ammaliatrice al grido orrido. Ma c’è qualcosa di più inquietante del silenzio dei mostri?
«Il Giornale» del 31 marzo 2007

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