05 aprile 2007

Una firma per non curare il feto nato vivo

Tre mesi fa un caso simile a quello fiorentino. Ora il modulo per il consenso informato al San Camillo di Roma
Di Margherita De Bac
Anche lui non sarebbe dovuto nascere. Anche i suoi genitori avevano scelto di rinunciare a lui, colpito da due gravi malformazioni cardiache che, secondo chi le aveva diagnosticate durante la gravidanza, erano incompatibili con la vita. Invece il bambino quando ha lasciato l’utero della mamma si muoveva, era vitale. Aveva poco più di 23 settimane. A quel punto i ginecologi hanno dovuto curarlo con tutte le terapie disponibili: tubi, farmaci per spalancare i polmoni e favorirne la maturazione, culle speciali. E’morto dopo circa una settimana. Senza quegli aiuti se ne sarebbe andato in poche ore. Un precedente molto simile al caso Careggi, avvenuto tre mesi fa al San Camillo-Forlanini di Roma. E per questo, da allora, a chi chiede un aborto terapeutico tardivo si chiede di firmare il consenso informato per rinunciare alle cure intensive nel caso il piccolo sopravviva al parto. In questo modo riceve solo le cure cosiddette compassionevoli. Niente tubi, né macchinari, né accanimento farmacologico. «Quel giorno non ero in ospedale, quando ho saputo sono rimasta sconvolta, non ho dormito quattro notti», racconta Giovanna Scassellati, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza della grande azienda romana, una che alla legge 194 ha sempre creduto e l’ha applicata con convinzione. Il risultato della sua insonnia è stato appunto il modulo per rinunciare alle cure intensive. Iniziativa unica in Italia con cui si è cercato di trovare una soluzione per i casi estremi, fornendo un supporto scritto al neonatologo e al ginecologo: «Per noi è una grande responsabilità - continua la Scassellati -. Il nostro è diventato un mestiere difficilissimo. La tecnologia oggi consente di rianimare feti molto prematuri. Non vorrei mai trovarmi nei panni del collega di Firenze. Nel ‘78 quando è arrivata la legge lo spirito era diverso. Non piace a nessuno fare questo mestiere ora che ogni giorno il Papa parla di tutela della vita. Anche i non obiettori hanno sentimenti. Quando ho cominciato, il mio primario mi chiamava Attila. Oggi ho dei cedimenti». La necessità di formulare un consenso informato per l’aborto terapeutico le è apparsa chiara soprattutto dopo aver parlato col papà di quel bimbo che non avrebbe dovuto nascere: «Mi ha raccontato che dopo il parto i medici gli hanno messo sotto gli occhi un modulo dove dichiarava di accettare le cure intensive per il figlio. Mi ha detto che in quel momento non capiva niente e che ha firmato». Femminista, attiva nella Fiapac, l’associazione internazionale operatori dei servizi per l’aborto, in prima linea quando si tratta di sostenere la battaglia per la pillola Ru486, la Scassellati testimonia la durezza della sua professione: «Negli ospedali del Nord per essere sicuri che il bimbo malformato non sopravviva praticano il feticidio, somministrando cloruro di potassio attraverso il cordone ombelicale, come in Francia. A Roma non lo facciamo, ma che sofferenza poi trovarsi di fronte a queste storie. Non c’è da stupirsi se ci sono tanti obiettori di coscienza...».
«Corriere della sera» del 9 marzo 2007

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