15 maggio 2007

Polonia: la nuova inquisizione

Jaruzelski incriminato
di Piero Ostellino
In un bel libro sulle rivoluzioni americana e francese, Hannah Arendt scrive che i regimi che le rivoluzioni generano assomigliano a quelli che hanno abbattuto. Gli americani avevano lottato contro l’Inghilterra colonialista, non contro il costituzionalismo inglese; così, il sistema politico americano è quanto di meglio il liberalismo britannico di Hume e di Smith, permeato di scetticismo, aveva espresso con l’Illuminismo scozzese. I francesi, con la loro rivoluzione democratica permeata di razionalismo utopico, avevano trasferito al «popolo» gli stessi poteri assoluti del re che avevano abbattuto, dando forma alla filosofica «volontà generale» di Rousseau che molto avrebbe finito con assomigliargli se non fosse stata mitigata dal costituzionalismo di Montesquieu, mutuato dal sistema inglese. Ora, la Polonia democratica - in un rigurgito di furore anticomunista - sembra voler riproporre, a diciotto anni dalla fine del comunismo e sia pure nella misura dell’autodenuncia, una sorta di moderato Terrore giacobino analogo a quello che aveva divorato in Francia gli stessi figli della grande Rivoluzione del 1789. Persino Walesa, Kuron, Micnik e Geremek, gli uomini che avevano messo in ginocchio il regime filosovietico, hanno rischiato di passare per «collaborazionisti». Così, la richiesta di una «confessione di massa», che coinvolge oltre 700mila polacchi, finisce con assomigliare, non del tutto accidentalmente, alle purghe staliniane, minacciando di far precipitare il Paese nell’incubo di un lungo e drammatico «buio a mezzogiorno». La Polonia pacifica e europea sta scrivendo, sotto la direzione non propriamente liberale dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynsky, una pagina che - per dirla con la Arendt - sembra più un riflesso, più una specie di lascito totalitario che una corretta e democratica esigenza di giustizia. Nella rete dell’Istituto per la memoria nazionale di Katowice è caduto - né avrebbe potuto sottrarsene - il generale Wojciech Jaruzelski, accusato di «crimine comunista» per aver decretato la legge marziale nel 1981. L’atto di accusa è ampiamente comprensibile, persino giustificabile allo stato degli atti, certamente condiviso da milioni di polacchi che, in quegli anni, soffrirono persecuzioni e condanne in nome della libertà, della democrazia e, soprattutto, dell’affrancamento dall’Unione Sovietica. Ma è proprio sulla base di questa storica aspirazione all’indipendenza e all’autonomia dalla Russia - patrimonio secolare della nazione polacca - che all’accusa di «crimine comunista» andrebbe associato il riconoscimento al generale Jaruzelski di «contributo alla causa nazionale». Ne avevo parlato con lui, anni fa, nel corso di una lunga conversazione - in russo, la sola lingua, oltre il polacco, che parla - girando intorno nel cortile della casetta dove abitava. «So - mi aveva detto - che i miei compatrioti mi odiano per quello che ho fatto e non posso dar loro torto. Ma, se non avessi "invaso" io stesso il Paese con le nostre forze armate e imposto la legge marziale, lo avrebbero fatto i russi con i loro carri armati e sarebbe andata peggio. I polacchi hanno perseguitato e a volte ucciso altri polacchi, e per me è il dolore più grande». Erano gli stessi sentimenti che - durante una cena a due di qualche anno dopo, in Vaticano - mi aveva espresso il «Papa polacco», usando l’espressione «imperialismo russo» invece di Unione Sovietica. Jaruzelski aveva conosciuto l’inquisizione staliniana. Sarebbe davvero paradossale se rivivesse ora lo stesso incubo nella Polonia indipendente.
«Corriere della sera» del 18 aprile 2007

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