07 maggio 2007

Satira: non c’è (più) niente da ridere

Da Cavour ad Andreotti, due secoli di sarcasmo e potere messo a nudo. Con un rimpianto: «“Cuore” l’ultima fiammata. La satira è morta, sorvoliamo sui comici tv...»
di Cristiano Gatti
Bergamo - Per celebrare adeguatamente i sessant’anni, ha deciso che fosse il momento di confezionarsi un bel pacco dono, con dentro tutti i sogni di una vita: la biblioteca che ospiterà nei secoli dei secoli la sua arguta collezione, un’associazione di amici che si occuperà della gestione, nonché una grande mostra nel cuore della Bergamo antica («Ludere et ledere», chiuderà il 10 giugno, finora un successone). Seduto alla scrivania della sua tana, circondato da scaffali colmi di ironia, sarcasmo, genio e perfidia, Paolo Moretti ha tutta l’aria di un uomo finalmente pago. Indica la raccolta più cara - in tutti i sensi - e il suo sguardo diventa languido come quello di una puerpera davanti al pupo: sono cent’anni del Punch, storica rivista satirica inglese, scovati nel Liechtenstein e qui da noi ormai un pezzo decisamente unico. Sposta l’osservazione su L’Asino, giornale anticlericale di fine Ottocento, e non esita a raccontarlo come il più geniale e il più innovatore, peraltro prontamente contrastato dal clericalissimo Il Mulo, arrivato appena un momento dopo e un gradino sotto.
Sto assistendo a un mezzo prodigio, per dire come i luoghi comuni abbiano limiti abissali: quest’uomo ha una laurea in legge, ha lavorato a lungo sui grafici e sulle cifre delle consulenze aziendali, ha insomma sviluppato una formazione tendenzialmente arida e ingessata, eppure coltiva da oltre trent’anni la passione pazzoide e svitata della satira, per di più qui, a Bergamo, un luogo d’Italia che brillerà pure per tante qualità, ma non certo per il senso dell’umorismo e la battuta al fulmicotone. Glielo faccio notare, Moretti sorride: «Vai a sapere: io questa insana passione, che mi è costata tantissimo tempo e tanti soldi, l’ho maturata come reazione all'impegno politico. Ci avevo provato nei primi anni Settanta, con i socialdemocratici: arrivai ad essere anche segretario regionale. Poi però compresi un sacco di cose, e mi chiamai fuori. Proprio in quel periodo cominciai ad osservare la storia e la politica da una visuale diversa, chiamiamola pure alternativa e dissacrante, ma sicuramente più divertente. Iniziai a collezionare materiale: raccolte, singoli giornali, vignette. Quello che vede attorno a lei è il risultato».
Vivere di satira. Meglio: da guardone della satira. In vita sua non ha mai provato a disegnare nemmeno la casetta col fumo che esce a spirale dal camino. Nessuna caricatura, nessuna battuta contundente. Ma della satira sa tutto. In Italia, ci tiene a ricordarlo, sono una decina i grandi collezionisti come lui. Racconta di quanto sarebbe importante che qualche università avviasse corsi specifici su questo genere storico, «ma finora, al massimo, abbiamo valorosi professori che organizzano qualche ricerca o qualche convegno, nonché qualche studente che ci fa la tesi». La verità, aggiunge, è che in Italia parliamo tutti di satira, ma poco facciamo per restituirle una dignità adeguata. Quando scoppia un caso, perdiamo giornate a stabilire se la satira debba avere limiti o non debba averne, senza però mai comprendere fino in fondo il ruolo di un’arte così sofisticata...
Parla a briglia sciolta, ne parlerebbe per ore. Lo interrompo però proprio lì, dove forse preferirebbe sorvolare: a proposito, Moretti, la satira deve avere limiti? «Il limite deve darselo l’autore. Un limite di gusto. Certo non possiamo appaltare la questione a un tribunale. Ma mi rendo conto che è una posizione troppo idealista, da amante fazioso...».
Preferisce continuare lungo altri percorsi. «Ho pensato anche di donare il materiale a enti pubblici, ma alla fine ho scelto la gestione privata. Da qui la decisione di trovare una “casa” alla collezione. Abbiamo aperto un anno fa: è tutto riunito e catalogato. Chi vuole, ricercatore o studente che sia, può prendere contatto diretto con noi e ha la porta aperta. L’indirizzo: www.fondopaolomoretti.it. Siamo qui».
Una satira a portata di mano. Tremila libri, quattromila almanacchi, sessantamila fogli singoli di oltre quattrocento testate. Una satira che non stia chiusa a chiave nel cassetto, o in un bunker antiatomico, ma che riviva tutti i giorni, genere prêt-à-porter. Gli chiedo: perché tutto questo? La risposta non è per niente satirica, siamo sul serissimo: «Studiare la storia attraverso questo genere è affascinante. Aiuta ad avvicinare ancora di più la verità, spesso più di quanto permetta la storia ufficiale. L’importante è avere ben presente che la satira non è soltanto contropotere: spesso, è essa stessa strumento di potere e di propaganda. Due esempi: Cavour e Andreotti. Il primo nell’800, il secondo nel ’900, si sono serviti astutamente della satira. Fingendo d’essere bersagli, in realtà ne hanno sempre usufruito per costruire il proprio carisma. Tutto il contrario di Giolitti: lui, non volendo avere niente a che fare con la satira, ne è diventato una vittima sacrificale. Credo che su Giolitti la satira abbia espresso il potenziale più crudele».
Altre curiosità in ordine sparso. «La satira vive le sue stagioni più fertili nei periodi di grande tensione morale, politica, religiosa. Cito i moti del 1848, il 1870 con Porta Pia e la questione clericale, poi l’entrata in guerra del 1915, quindi il secondo Dopoguerra, con le grandi questioni monarchia-repubblica e Dc-Pci, la bella stagione del Candido di Guareschi». Quanto alla satira di oggi, «non vive un’epoca felicissima: segno dei tempi abbastanza fiacchi che viviamo, con la politica sempre più scaduta e il costume sempre più svilito. Difatti, manca un grande giornale satirico. Per fortuna, ogni singola testata mantiene comunque uno spazio vitale, anche solo con la vignetta di prima pagina». Tra i contemporanei, i meriti maggiori vanno a Forattini: «Con Satyricon aprì una grande palestra per giovani di talento. E comunque negli anni Settanta-Ottanta caratterizzò la satira politica con uno stile e un linguaggio inconfondibili. Ricordo alcuni guizzi grandiosi: quel basco che galleggiava solitario tra le onde, quando morì Nenni... Più di recente, è cresciuto molto Giannelli: lo trovo raffinato». Meglio sorvolare, invece, sulla satira televisiva: «Hanno il vizio di esaurirsi. Gente come Crozza e come Cornacchione all’inizio ti conquista. Poi, alla lunga, diventa prevedibile e ripetitiva».
Si coglie un retrogusto di malinconia. La lunga storia che cominciò da noi nel 1848, con le prime vignette ispirate alla moda dei francesi, sembra come interrotta, senza un futuro, quasi smarrita nel vago. Moretti sorride e amaramente conferma: «Certo abbiamo ancora grandi vignettisti come Altan e ElleKappa, o caricaturisti di rango come Ardito e Bruna, ma la satira vera, feroce e spassosa, si è fermata già da tempo. L’ultima fiammata, tutto sommato, resta il Cuore di Michele Serra...».
Mostra un pezzo pregiatissimo: fine Settecento, libro del grande caricaturista Gillray, promotore di terribili campagne antinapoleoniche. Come per dire: altri tempi, tutta un’altra cosa. Non resta molto da aggiungere. La visita alla nobile casa delle geniali carognate, simbolicamente arroccata tra le antiche Mura di Bergamo, si chiude su questi puntini di sospensione. Brutto segno, quando persino la satira si scopre a vivere di rimpianti.

Aggrappáti a Dagospia
di Caterina Soffici
Dicevano gli antichi: castigat ridendo mores. Loro la satira la praticavano ad altissimo livello e ci hanno insegnato che non c’è niente di più efficace contro la retorica di una bella risata. Antidoto liberatorio anche contro il potere dei potenti veri e maggiormente contro quelli che si ritengono tali.
Negli anni Settanta si poteva ancora ridere di tutto, oggi si ride ben poco. La satira come genere politico e morale è morta e sepolta schiacciata sotto i seriosi schieramenti dello scontro di civiltà e del politicamente corretto. Gli islamici non si toccano, pena rivolte popolari e minacce di morte. I monsignori, bersagli prediletti della vivacissima satira anticlericale ottocentesca e risorgimentale, sono intoccabili pena accuse di laicismo. Gli immigrati, le donne e tutte le minoranze sono ormai specie protette pena accuse di scorrettezza politica.
Allora domandiamoci: perché non c’è un solo giornale satirico oggi in edicola? Perché non si vedono giovani disegnatori o battutisti di rango all’orizzonte? Qualcuno dice che la satira si è spostata dai fogli stampati alla televisione. Ma non vorremo mica chiamare satira quella dei comici in tv? Dai fratelli Guzzanti passando per le imitazioni di Crozza fino al Bagaglino la televisione fa casomai umorismo, ma non certo satira, ormai confinata nelle vignette sulle prime pagine dei giornali. Poche e circoscritte aree di sollievo in un plumbeo conformismo, dove tutti più o meno procedono con il freno a mano tirato.
Se la satira non si è spostata in televisione, dove è andata? Azzardiamo qui un’ipotesi spericolata: ha migrato su Internet nelle varie rubriche Cafonal e Stracafonal di Dagospia. Lì si castigano i mores e anche i tempora. Forse i personaggi messi lì alla berlina fanno più piangere che ridere. Ma questo è un altro problema.
«Il Giornale» del 5 maggio 2007

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