16 maggio 2007

Se la bioetica divide i filosofi

Accenti diversi in due enciclopedie
di Natalino Irti
«Enciclopedia» evoca, già nel fondo etimologico, un’educazione circolare, un sapere intero e compiuto. In essa dovrebbe esservi «tutto»: un tutto, che, disponendosi in circolo, viene raccolto e ordinato ad unità. È, questo, il modello delle grandi enciclopedie, in cui si esprime una visione del mondo, una dottrina filosofica, un’ideologia politica. Manifesto dell’Illuminismo europeo è l’Encyclopédie, che ha nome da Diderot e d’Alembert, e che trascende, mediante lo «spirito sistematico», la sequenza alfabetica delle voci. E così fu della Enciclopedia Italiana, venuta fuori, in trentacinque volumi, fra il 1929 e il 1936: la Prefazione all’opera - in cui non è difficile riconoscere il timbro emotivo e lo stile potente di Giovanni Gentile, ideatore e direttore dell’opera - rende omaggio al più largo e generoso metodo storico, ma pure s’intona alla coscienza nazionale e alla cultura dell’epoca. Nelle due grandi enciclopedie, la francese e l’italiana, non c’è un disperso schedario di voci, un empirico regesto di vecchio e nuovo, ma un criterio unificante, che regge insieme i contributi di singoli autori e li fa quasi discendere da un tronco comune. Che ne è di questo modello nell’età nostra, quando, declinate ideologie politiche e visioni unitarie del mondo, il sapere si scompone in molteplici e chiusi specialismi? Quando il cammino umano non più somiglia ad un circolo, dove principio e fine in ogni punto coincidono, ma ad una linea, diretta non si sa da chi e non si sa verso dove? Sono domande, suscitate da due opere, che - si risponda in uno od altro modo a quei dubbi - onorano la cultura italiana per liberalità d’impostazione e prestigio di contributi. Ci stanno dinanzi: la nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica (Bompiani, vol. 1-12), promossa dal Centro di studi filosofici di Gallarate, e affidata all’autorevole ed esperta direzione di Virgilio Melchiorre; e il primo volume della Enciclopedia italiana, XXI secolo (lettere A-E), che Tullio Gregory, in antica e operosa fedeltà all’omonimo Istituto, ha concepito e attuato con finezza intellettuale e audacia di scelte. Opere diverse e insieme concordi: diverse per la volontà di completezza dell’una (appunto, un sapere circolare e conchiuso), e per la selezione, propria all’altra, di lemmi significativi nel nuovo secolo. Concordi, come già si accennava, nello spirito liberale, nell’accogliere posizioni di dissenso e di critica, nel segnalare problemi piuttosto che nell’offrire pigre soluzioni. XXI secolo reca per sottotitolo «settima appendice», quasi che l’opera si rannodi alla Enciclopedia degli anni Trenta, e vi aggiunga, or qua or là, particolari elementi o curiose novità. Il vero è che XXI secolo sta a sé, sciolto dai vincoli della filosofia idealistica, e teso, non già a fissare e difendere un indirizzo di cultura, quanto a cogliere i sintomi del nuovo secolo ed a precorrerne i temi dominanti. Si spiega così la singolarità di talune voci: da acquacoltura ad antitrust, da autorità indipendenti a clonazione, da competitività a Costituzione europea, da derivati finanziari a doping. Lemmi di un secolo che ha appena consumato il proprio inizio, e che procede, come sempre nella storia, fra le tenebre del caso e dell’imprevisto, e tuttavia parole e concetti, già oggi penetrati nella nostra vita e capaci di guidare il nostro agire. Quell’essere diverse e insieme concordi si coglie nell’analisi di singole voci o gruppi di voci. Le due enciclopedie riservano largo spazio ai lemmi composti da «bio» (da bio-politica a bio-sfera etc.), e dunque riguardanti la struttura fisica e la corporeità dell’uomo. Ma la trattazione ne è svolta con accenti distanti; nell’Enciclopedia filosofica, emerge il profilo ontologico, la natura metafisica della persona; nell’altra, la libera fruizione del corpo, tutta consegnata alla volontà ed alle scelte dell’individuo. Prospettive lontane, che il lettore registra in consapevole autonomia e svolge in propria meditazione. Insomma, alle due cospicue opere non bisogna chiedere ciò che esse non possono dare, cioè soluzioni definitive e rimedi consolatori, ma attingerne lucidità di analisi e coscienza problematica, Che è di per sé ragione di schietta gratitudine.
«Corriere della sera» del 17 aprile 2007

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