31 luglio 2007

Il risveglio del sublime

Dalla Grecia al '700: storia di un'idea presente ancora in Rothko e Newman
di Glenn W. Most
nato nel 1952 è professore ordinario di Filologia Greca alla Scuola Normale di Pisa
Quando si parla del sublime (1), si tende a seguire un modello di narrazione che può essere equiparato al funzionamento di un meccanismo a due tempi – per esempio, un motore diesel o un congegno termonucleare. Una prima esplosione, ridotta, crea le condizioni necessarie alla grande conflagrazione successiva.
Questo procedimento, applicato alla storia del sublime, mostra dapprima il bagliore di una stella solitaria nella notte oscura dell’antica teoria della retorica: il Trattato sul sublime erroneamente attribuito a Longino, un testo di cui non si conosce l’esatta datazione né il contesto culturale né l’identità dell’autore (2) . Nessuno scrittore antico cita il testo, vi fa riferimento o sembra essere al corrente della sua esistenza; dopo la sua fulminea apparizione, sembra essere ripiombato nell’oscurità per il resto dell’epoca antica, sopravvivendo al Medio Evo in un unico manoscritto incompleto risalente al X secolo, attualmente conservato a Parigi. Non ci sono prove che il manoscritto sia stato mai letto prima del XV secolo, quando venne per la prima volta copiato e fatto lentamente circolare. La sua diffusione fu dapprincipio assai modesta: nel XV secolo furono fatte una dozzina di copie del manoscritto di Parigi e fino al 1600 il testo greco fu dato alle stampe non più di tre volte, sebbene se ne contassero già traduzioni in latino e in italiano.
Nel 1674, però, la situazione mutò improvvisamente grazie alla traduzione di Nicolas Boileau-Despréaux, che consisteva perlopiù in una parafrasi esplicatoria del testo di Longino; e nel corso del secolo successivio, il Trattato divenne infatti non solo uno dei testi più noti nell’ambito della filologia e della retorica greche, ma una delle opere più conosciute dai ceti colti in tutta l’Europa. Il concetto di sublime divenne cardinale in tutte le forme di letteratura d’invenzione, nell’arte, nella teoria estetica e per di più influenzò profondamente la filosofia morale, la psicologia e molte altre discipline affini. Durante il XVIII secolo furono pubblicate almeno quattordici edizioni integrali del testo greco e fino alla fine del secolo l’opera di Boileau-Despréaux era stata ristampata diciotto volte in Francia ed era stata tradotta in Inglese in tre differenti versioni. Ma verso la metà del XIX secolo sembrava ormai esaurita anche la seconda fase del ‘meccanismo’ del sublime. Le arti figurative non s’interessarono più alle scene di valanghe montane e tempeste marine; l’idea del sublime cessò di giocare un ruolo centrale nella teoria estetica; se poeti come Heinrich Heine invocarono il sublime, fu solo per ridicolizzarlo o per prenderne ironicamente le distanze; il termine stesso sembrò essere caduto in disuso e raramente venne utilizzato senza virgolette. Queste sarebbero dunque le fasi di manifestazione del sublime: prima un’apparizione improvvisa e limitata ad un singolo istante, poi una vasta conflagrazione, che durò quasi due secoli prima di giungere a termine.
La versione della storia del sublime fin qui riportata segue il modello classico degli innumerevoli studi di storia dell’estetica. Si potrebbe dire molto in merito a questo resoconto, che costituisce ancora il punto di riferimento di buona parte degli studi attuali sull’argomento (3). Esso è però certamente manchevole in alcuni punti essenziali e, a mio parere, è possibile offrirne una versione significativamente modificata, che tenga conto di almeno due delle principali obiezioni a cui si presta il resoconto tradizionale. La prima riguarda un rilevante paradosso storico: in base a quanto detto finora risulta infatti incomprensibile come abbia potuto sopravvivere fino alla nostra epoca una certa versione del sublime. Un secondo problema è costituito dall’errore metodologico che sta alla base del paradosso, più precisamente dall’identificazione restrittiva tra il concetto di sublime e il trattato di Longino, come se non possa darsi una nozione di sublime propriamente detta che non faccia esplicito riferimento ai suoi contenuti.
Il sublime ha davvero cessato di esistere alla metà del XIX secolo?
Da una parte, non c’è dubbio che a quell’epoca una certa forma di sublime abbia perlopiù smesso di essere in voga in Europa (lo stessa dinamica si è verificata un po’ più tardi anche in America). Per quanto riguarda la teoria estetica, infatti, gli ultimi filosofi per i quali il sublime fu una categoria rilevante furono Hegel e la sua prima generazione di allievi. Nella poesia lirica, la grande stagione del sublime romantico di Wordsworth, Shelley, Coleridge, Hölderlin e Leopardi, alla metà del secolo cedette il passo ad una poetica dai toni più dimessi o più ironici. Per parlare del romanzo, autori come Stendhal e Flaubert analizzarono con passione e spassionatamente allo stesso tempo gli errori fatali verificatisi nel tentativo di trascendere la realtà sociale costituita, in favore di una sorta del miraggio del sublime, mentre altri grandi romanzieri del XIX secolo, come Balzac e Dickens, si dedicarono invece alla precisa osservazione di quello stesso mondo sociale. Nel campo delle arti belle, infine, le ambizioni alte e drammatiche di Delacroix, Friedrich e Turner lasciarono il passo al mondo del Biedermeier, del Vittorianesimo e, in un secondo tempo, dell’Impressionismo. Il nome stesso di Longino cessò di essere familiare ben prima della metà dell’ ‘800, da quando, con Burke, il concetto di sublime iniziò a rendersi autonomo dal Trattato. Fa eccezione in questo quadro generale solamente il campo della musica sinfonica e operistica, in cui il sublime continuò a regnare fino al principio del XX secolo; tuttavia, la musica rappresenta un’eccezione fra le arti, perché la sua peculiare forma, priva di discorsività, sembra aver privilegiato le emozioni del sublime che non avevano più altra occasione di essere sperimentate pubblicamente.
Si potrebbe forse dissentire sul momento preciso in cui il sublime tramontò in ciascuna disciplina, ma sembra impossibile negare che, alla seconda metà dell’ ‘800, la cultura europea nel suo insieme aveva compiuto il piccolo passo che, a detta di Napoleone, separava il sublime dal ridicolo.
D’altra parte, sembra egualmente impossibile negare che in un certo numero di campi il sublime abbia beneficiato di una notevole reviviscenza durante la seconda metà del XX secolo. Per quanto riguarda le arti figurative, Barnett Newman e Mark Rothko dipinsero a colori forti tele non rappresentative che raggiungevano efficacemente lo scopo di produrre sensazioni di disagio oceanico e di agitazione ansiosa nello spettatore (4). Nel saggio Il sublime oggi, Newman sostenne che l’arte americana a lui contemporanea stava tentando di far rivivere la tradizione del sublime, in voluto contrasto con il gusto artistico europeo che amava l’opera piccola, graziosa, fastidiosamente rappresentativa. Il sublime sembra essere ritornato anche nella teoria estetica e psicologica, con autori come Harold Bloom, Jean-François Lyotard e Slavoj Zizek: sebbene si possa sollevare qualche dubbio sulla legittimità del loro tentativo di utilizzare la categoria di sublime per spiegare l’irrappresentabile proprio dell’arte e del pensiero, tuttavia non sussiste alcun dubbio sull’esistenza di una diffusa necessità culturale a cui essi stanno cercando di dare risposta. Nel campo della letteratura, Don De Lillo e altri romanzieri inglesi e americani hanno riportato notevole successo con opere che rintracciavano aspetti del sublime nell’odierna civiltà pragmatica e tecnologica. Anche per quanto riguarda il cinema, è stata adottata da molti generi di film – film dell’orrore, thriller, polizieschi - la particolare combinazione di terrore estremo e di dolce sollievo che riesce nell’intento di suscitare e di sedare l’emozione di milioni di persone, ma che nei secoli scorsi apparteneva solo al genere del sublime.
La scomparsa del sublime nel XIX secolo e la sua diffusione nel XX secolo sono fatti altrettanto evidenti e, proprio per questo motivo, rappresentano un problema teorico di notevole importanza e difficoltà. Si deve dire: il sublime è morto, è vivo - o nessuna delle due? ‘Le sublime est mort, vive le sublime!’, si potrebbe rispondere, ma non è chiaro in che modo si possa sostenere la teoria della sua sopravvivenza. Non sarebbe comunque accettabile dal punto di vista storico negare il forte declino del sublime nel XIX secolo, ma per lo stesso motivo non è più possibile, come invece poteva sembrare qualche decennio fa, ridurre il suo clamoroso ritorno nel XX secolo ad una moda passeggera.
L’unico modo per risolvere questa difficoltà consiste, a mio parere, nel fare un distinguo fra il concetto di sublime e l’opera di Longino, riconoscendo che nel trattato viene discussa solo una delle possibili specie del concetto, il quale, col passare del tempo, si presenta sotto forme differenti. A questo proposito, il tradizionale sublime di Longino può essere riesaminato, per chiedersi quali delle sue caratteristiche lo rivelino come una delle possibili varianti del sublime, piuttosto che come la sua sola espressione possibile.
Si consideri quindi non tanto la grandezza del sublime, non il suo richiamo emotivo, non il terrore che da questo è generato, bensì il suo legame con l’idea che il mondo sia governato da una sorta di volontà divina. È facile che il terrore che sempre accompagna il manifestarsi sublime induca erroneamente l’osservatore a pensare di trovarsi di fronte alla storia della distruzione dell’umanità ad opera di un universo indifferente. Ciò che il sublime intende significare, invece, è tutt’altra cosa: non parla solo di pericolo e di distruzione, ma soprattutto di elevazione spirituale, morale e intellettuale al disopra della quotidianità e della bassezza dell’individuo. Esso permette all’uomo di accedere ad un livello dal quale guarda a distanza le proprie limitazioni e si identifica con il punto di vista del dio, che è responsabile ultimo del mondo e del ruolo che in esso è assegnato all’umanità. Infatti, il sublime descritto da Longino suscita non solamente terrore, ma anche una particolare ebbrezza d’elevazione. Questa è provocata dalla dissonanza cognitiva, a volte fatale, che segue all’abbandono della dimensione umana e all’adozione del punto di vista divino sul mondo. Come scrive Longino nel par. 35 del suo Trattato:
Qual è dunque il divino segreto dei grandi scrittori? Cos’è che, spingendoli alla grandezza, li solleva dalle minuzie dei pedanti? Fra molte altre cose, questa convenzione: che la natura non ha giudicato l’uomo una creatura ignobile e di poco conto, ma, introducendoci nella grande e festosa adunanza della vita e dell’ordine cosmico affinché, allo spettacolo dei suoi cimenti, potessimo ambire a competervi, ha subito infuso nelle nostre anime il desiderio irresistibile di ciò che è sempre grande e che ci sovrasta con la sua divinità. Perciò agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo intero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del creato; e se qualcuno gettasse uno sguardo d’insieme sulla nostra vita considerando quanta influenza abbia, in ogni sua fase, ciò che eccelle, che è grande e bello, capirebbe subito per che cosa siamo nati.
(Ps.-Longinus
De sublimitate §35, trad. it. G. Lombardo)

Per Longino, il sublime non è solo una categoria letteraria o retorica: le grandi opere della letteratura classica greca fanno riferimento ad un modello antropologico e cosmologico che naturalizza il sublime, così da permettere di interpretare l’ordinaria insoddisfazione della vita come prova della destinazione dell’umanità a forme di realtà più alte e più nobili. Percepire e comprendere il sublime non è esattamente come farsi dio, poiché ciò è precluso ai mortali, ma comporta il massimo avvicinamento possibile per l’uomo al livello della divinità. Questa dimensione idealistica rimane costante nelle teorizzazioni del sublime delle varie epoche storiche ed è infatti una delle caratteristiche che permettono di distinguere il sublime da concetti correlati, come il brutto, lo spaventevole, il terrificante. Anche Kant ammette che gli oggetti esterni e la divinità stessa possano essere assunti nella grandezza del soggetto umano, che è conscio di essere sublime e percepisce quindi il mondo dello spirito come la propria dimora naturale.

Di fatti, allo stesso modo che nell’immensità della natura e nell’incapacità nostra a trovare una misura adeguata per la valutazione estetica della grandezza del suo dominio, scoprimmo la nostra propria limitazione, ma ci fu rivelata nel tempo stesso, nella facoltà della ragione, un’altra misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura, – trovammo per conseguenza nel nostro animo una superiorità sulla natura considerata anche nella sua immensità; così l’impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo dalla natura esterna; perchè in virtù di essa l’umanità della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere all’impero della natura. In tal modo la natura, nel nostro giudizio estetico, non è giudicata sublime in quanto è spaventevole, ma perchè essa incita quella forza che è in noi (e che non è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), e perciò a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siam sempre sottoposti relativamente a tali cose) un duro impero su di noi e sulla nostra personalità, al quale dovremmo piegarci, quando si trattasse dei nostri principii supremi, della loro affermazione o del loro abbandono.
(I. Kant,
Critica del Giudizio § 28, A103-4 = B104-5: trad. it. A. Gargiulo)

Anche secondo Kant, il sentimento del sublime ricorda all’uomo che la sua autentica dimora è un luogo dello spirito che non può essere toccato in alcun modo dalle vicissitudini dolorose a cui è sottoposto il corpo. La trasformazione schilleriana della teoria di Kant, poi, non farà che rinvigorire la sua interpretazione ottimistica e in fondo teologica del sublime.
Il sublime secondo Longino si regge dunque sul presupposto dell’amministrazione provvidenziale del mondo ad opera di un dio. L’uomo soffre perché possiede un corpo, ma il suo spirito è in grado di sollevarlo dalla condizione animale e condurlo al posto che gli spetta fra gli dei – anche se, talvolta, a prezzo della vita.
In questo modo diventa facile comprendere perché una tale concezione del sublime non abbia potuto prosperare dal XIX secolo in poi. Innanzitutto, è lecito ritenere che una siffatta idea di sublime non sia mai riuscita ad emanciparsi pienamente dalle sue origini, radicate nella tradizione della retorica greco-romana, e che fosse quindi condannata a subire la stessa eclissi che toccò ai precetti retorici nell’epoca romantica, entusiasta per l’originalità del genio spontaneo. Soprattutto, però, il declino generale del senso della trascendenza religiosa che si registra nella società occidentale a partire dalla metà del XIX deve aver reso assai difficile l’affermazione di questa versione teologica del sublime. Se i limiti del reale vengono a coincidere con i limiti di ciò che è umano, o di ciò che l’uomo può manipolare - e che quindi almeno conosce - , non si comprende più come possa sopravvivere un’esperienza del sublime simile a quella di Longino. Quando poi la manipolazione della natura diviene un fatto usuale per la maggior parte degli abitanti delle società occidentali, com’è avvenuto di recente, gli oceani tempestosi e le cime montuose, che turbavano l’immaginazione di turisti e lettori di ieri, divengono interessanti anzitutto agli occhi di un ingegnere civile, di un meteorologo marino, del proprietario di una centrale idroelettrica o di un Club Mediterrané. In un mondo dove il progresso tecnico, i disastri della guerra e la secolare ideologia umanista hanno reso sempre più remota l’idea della provvidenza divina, il sublime di Longino non può più suscitare terrore, ma neppure elevare l’uomo o portargli conforto: l’artista che tentasse di emulare i potenti effetti che aveva un tempo verrebbe oggi bollato come kitsch.
Si potrebbe dunque concludere forse che la possibilità di elevazione insita nel sublime dipenda dall’assunzione di esistenza di una divinità ordinatrice del mondo. Senza la provvidenza, l’esperienza del sublime non si rivelerebbe una catastrofe senza scampo?
Che tale convinzione sia errata, è provato dall’opera di almeno un celebre autore antico, che si presenta profondamente debitrice all’ethos e alla retorica del sublime, pur restando del tutto priva di ottimismo teologico o di una qualsiasi fede nella provvidenza divina. Sto pensando a Lucrezio, autore del poema didattico epicureo De rerum natura. Come ha mostrato Gian Biagio Conte in un importante articolo sull’argomento, il De rerum natura può essere visto come una serie di impressionanti esempi di sublime (5). Si consideri, ad esempio, il famoso incipit del secondo libro:

suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli.
sed nil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quodcumquest!
(Lucretius De rerum natura 2.1-16)

Le parole usate da Lucrezio non sfigurerebbero nel catalogo di una mostra d’arte sul sublime del XVIII secolo: descrivono infatti una nave in preda alla tempesta, un campo di battaglia gremito di truppe e straziato dalla carneficina. Il piacere che viene evocato da Lucrezio non deriva in prima linea dalla soddisfazione sadica di assistere alle sofferenze altrui, ma dalla coscienza della distanza dalla quale si osservano gli errori nei quali incorre la maggior parte degli uomini. Questa elevazione cognitiva salva l’Epicureo dalla miseria umana e lo avvicina alla saggezza divina.
Secondo Epicuro e Lucrezio, certamente, gli dei esistono; ma non concorrono in alcun modo all’ordinamento del mondo né si occupano di punire, di ricompensare, di provocare eventi o di agire in qualunque modo che possa turbare la loro perfetta beatitudine o scalfire la loro assoluta indifferenza. Riconoscere la dottrina di Epicuro, secondo la quale gli dei non hanno alcun ruolo al di fuori della determinazione dei paradigmi morali, è sufficiente per assicurare agli uomini quella combinazione di terrore e di gioia, emozioni incompatibili eppure interdipendenti, che ha sempre costituito il segno distintivo del sublime.

nam simul ac ratio tua coepit vociferari
naturam rerum, divina mente coorta,
diffugiunt animi terrores, moenia mundi
discedunt, totum video per inane geri res.
apparent divum numen sedesque quietae
quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis
aspergunt neque nix acri concreta pruina
cana cadens violat semper innubilus aether
integit, et large diffuso lumine ridet.
omnia suppeditat porro natura neque ulla
res animi pacem delibat tempore in ullo.
at contra nusquam apparent Acherusia templa
nec tellus obstat quin omnia dispiciantur.
his ibi me rebus quaedam divina voluptas
percipit atque horror, quod sic natura tua vi
tam manifesta patens ex omni parte retecta est.
(Lucretius
De rerum natura, 3.14-30)

Il mondo di Lucrezio è costituito interamente di atomi che interagiscono fra loro nel vuoto secondo il solo criterio della casualità. Gli dei esistono, ma sono tutti rivolti al godimento della loro beatitudine cosmica e non si occupano dell’ordine morale o della catena causale del nostro o di altri mondi. Non esiste alcuna idea di provvidenza divina o di ordine provvidenziale del mondo: esso è così non perché gli dei l’abbiano voluto tale, ma solo in seguito alla casuale collisione degli atomi.
La mancanza dell’idea di provvidenza non priva tuttavia Lucrezio del concetto di sublime. Al contrario, l’appassionata fede nella verità delle dottrine di Epicuro permette al poeta di considerarlo un guerriero sublime ed eroico in grado di liberare l’umanità dall’oppressione della superstizione, restituendola alla luce della verità.

humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tendere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
(Lucretius De rerum natura 1.62-71)

Il poema è denso di episodi che descrivono con stile maestoso la sublimità di grandiosi spettacoli, come le stellate o i terremoti.

nam cum suspicimus magni caelestia mundi
templa super stellisque micantibus aethera fixum,
et venit in mentem solis lunaeque viarum,
tunc aliis oppressa malis in pectora cura
illa quoque expergefactum caput erigere infit,
nequae forte deum nobis immensa potestas
sit, vario motu quae candida sidera verset.
(Lucretius De rerum natura, 5.1204-10)

est haec eiusdem quoque magni causa tremoris,
ventus ubi atque animae subito vis maxima quaedam
aut extrinsecus aut ipsa tellure coorta
in loca se cava terrai coniecit ibique
speluncus inter magnas fremit ante tumultu
versabunda portatur, post incita cum vis
exagitata foras erumpitur et simul altam
diffindens terram magnum concinnat hiatum.
(Lucretius De rerum natura, 6.577-84)

Lucrezio non formula mai esplicitamente una teoria del sublime – allo stesso modo, la forma aggettivale sublimus - (non sublimis) ricorre solo quattro volte nel poema, mentre il sostantivo non viene mai utilizzato. Tuttavia il linguaggio e la retorica da lui impiegati non possono non indurre il lettore a portare la sua teoria alla luce. Infatti non è per nulla difficile definire un sublime specificamente lucreziano, distinguendolo dall’ormai usuale sublime di Longino. Mentre il sublime longiniano è una forma di teodicea che giustifica la sofferenza umana richiamandosi alla logica superiore della saggezza divina, il sublime di Lucrezio venera una forma di eroismo umano, che si rivela possibile in un universo abbandonato a se stesso dagli dei. Il sublime di Longino inquadra la benevolenza divina in una struttura teleologica dell’esistenza umana e vede nell’accettazione del disegno divino da parte dell’uomo una forma di consolazione alla sua sofferenza. Secondo Lucrezio, invece, il sublime muove dalla constatazione dell’indifferenza degli dei e della fondamentale casualità e insensatezza dell’universo, e rappresenta un coraggioso gesto di sfida, che, restituendo senso all’essere umano, lo compensa dell’assenza della provvidenza divina. Il sublime longiniano magnifica il dio, di cui si sperimenta il potere e la benevolenza anche attraverso la sofferenza e il rischio di distruzione, mentre si supera la propria piccolezza. Il sublime di Lucrezio, invece, magnifica l’uomo, che raggiunge la grandezza proprio in assenza di una divinità effettiva e diviene perciò egli stesso una specie di dio entro un mondo spogliato di significato ultimo.
Poiché Lucrezio, a differenza di Longino, non formulò esplicitamente la propria teoria del sublime e poiché Longino non venne comunque letto nell’antichità, sarebbe errato sostenere che i due autori rappresentarono antiche tradizioni alternative del sublime. Si può considerarli, piuttosto, come autori che propongono nell’antichità due modelli di sublime che hanno generato nel mondo attuale concezioni differenti. L’importanza di Lucrezio ai fini della presente argomentazione non sta nel fatto – pur rilevante – che egli rappresentò un punto di riferimento per quanti vollero considerare il sublime da un punto di vista differente da quello di Longino. Piuttosto, la sua esistenza dimostra già di per se che non era necessario credere nella teologia ottimistica di Longino per essere attratti dalla sublimità. Longino, tuttavia, attrasse tutta l’attenzione degli storici – la sua opera aveva un titolo inequivocabile e le sue idee, grazie alla traduzione di Boileau, fecero veramente esplodere una moda in Europa.
Sarebbe altresì errato pensare che il sublime di Lucrezio non abbia accompagnato quello di Longino durante il periodo in cui fu in auge. Inoltre, negli ultimi decenni, buona parte degli studiosi di letteratura inglese del XVIII secolo ha riconosciuto la rilevanza di una concezione scettica o comica del sublime in autori come Pope e Sterne, che, come il sublime lucreziano, lascia cadere lo sguardo sulla perdizione umana senza vincolare il narratore ad uno specifico paradigma morale (6). In una recente tesi di dottorato della John Hopkins University, inoltre, Eric R. Baker, ora docente all’università del Minnesota, applica questi risultati a teorici del sublime quali Burke, Kant e Schiller (7). Sarebbe dunque utile andare non solo in cerca delle tracce di Longino, ma anche di quelle di Lucrezio.
Nonostante la notorietà del sublime di Longino, la versione di Lucrezio continua a rappresentare una minacciosa corrente rivale capace, anche nei momenti di maggiore ottimismo teologico, di insinuare il dubbio che gli dei abbiano ormai abbandonato l’uomo da lungo tempo e che nell’universo non sia rimasto null’altro che abbia senso, al di fuori della presunzione e della grandezza umane.
Si prenda ad esempio la figura del Monte Bianco, punto di riferimento per tutto il discorso romantico sul sublime. Una serie di cinque testi scritti in un periodo di non più di 27 anni mostra come quella che cominciò come una figura che provava incontrovertibilmente la gloria di Dio diventi alla fine un monumento all’empia arroganza dell’uomo. Si comincia con un inno poetico composto nel 1791 da Friderike Brun e tipicamente rivolto al più sublime di tutti i poeti del tempo: Klopstock.

Wer zeichnet dort dem Morgensterne die Bahn,
Wer kränzt mit Blüthen des ewigen Frostes Saum?
Wem tönt in schrecklichen Harmonieen,
Wilder Arveiron, dein Wogentümmel?
Jehovah! Jehovah! Kracht’s im berstenden Eis;
Lavinendonner rollen’s die Kluft hinab:
Jehovah! Rauscht’s in den hellen Wipfeln,
Flüstert’s an rieselnden Silberbächen.
(Friderike Brun, “Chamouny beym Sonnenaufgange. An Klopstock. (Im Mai 1791)” 13-20)

Brun si sofferma sulla grandezza sovrumana della montagna che appare nell’alba; quando si domanda chi mai possa aver avuto il potere di plasmare tale figura, riceve la sola risposta possibile: la natura grida, ringhia, bisbiglia ‘Jeovah, Jeovah’.
Poco più di dieci anni dopo, Coleridge produce (senza confessarlo) una versione ampliata del breve inno di Brun, dando alla luce uno dei grandi poemi lirici del Romanticismo inglese.

Ye ice-falls! ye that from the mountain’s brow
Adown enormous ravines steeply slope,
Torrents methinks, that heard a mighty voice
And stopp’d at once amid their maddest plunge,
Motionless torrents! silent cataracts!
Who made you glorious, as the gates of heaven,
Beneath the keen full moon? Who bade the sun
Clothe you with rainbows? Who with lovely flowers
Of living blue spread garlands at your feet?
Ye azure flowers, that skirt the eternal frost!
Ye wild-goats bounding by the eagle’s nest!
Ye eagles, playmates of the mountain storm!
Ye lightnings, the dread arrows of the clouds!
Ye signs and wonders of the element –
Utter forth, God! And fill the hills with praise!

And thou, thou silent mountain, lone and bare!
Whom as I lift again my head, bow’d low
In adoration, I again behold!
And to thy summit upward from thy base
Sweep slowly with dim eyes suffused with tears!
Rise, mighty form, even as thou seem’st to rise! Rise,
like a cloud of incense, from the earth!
Thou kingly spirit throned among the hills,
Thou dread ambassador from earth to heaven
Great Hierarch! tell thou the silent stars,
Tell the blue sky, and tell the rising sun,
Earth with her thousand voices calls on God!
(Samuel Taylor Coleridge, Mont Blanc, The Summit of the Vale of Chamouny, An Hour Before Sunrise – An Hymn, 1803, 46-72)

Anch’egli ripete la domanda della poetessa, su chi abbia potuto tanto da creare il monte possente – e non può trovare altra risposta che quella che par giungere dalla natura stessa: God!. Ma già in quest’occasione, non è più sufficiente per Coleridge limitarsi a descrivere la natura e ad ascoltare la sua voce: il poeta prorompe in lacrime, e solo allora solleva lo sguardo alla montagna, e la invita: ‘Rise, mighty form, even as thou seem’st to rise’. Se la montagna non compierà l’azione che le attribuisce la stessa immaginazione del poeta, il poeta non potrà diventare capace di intendere la sua voce.
Proprio nello stesso periodo o soltanto poco più tardi, questa graduale usurpazione delle prerogative di dio ad opera dell’immaginazione del poeta compie un progresso significativo, nel famoso luogo del passaggio delle Alpi nel sesto libro del Preludio scritto da Wordsworth, amico di Coleridge:

That day we first
Beheld the summit of Mont Blanc, and grieved
To have a soulless image on the eye
Which had usurped upon a living thought
That never more could be. The wondrous Vale
Of Chamouny did, on the following dawn,
With its dumb cataracts and streams of ice,
A motionless array of mighty waves,
Five rivers broad and vast, make rich amends,
And reconciled us to realities […]

Whate’er in this wide circuit we beheld,
Or heard, was fitted to our unripe state
Of intellect and heart. By simple strains
Of feeling, the pure breath of real life,
We were not left untouched. With such a book
Before our eyes, we could not choose but read
A frequent lesson of sound tenderness,
The universal reason of mankind,
The truth of young and old. […]

Hard of belief, we questioned him again,
And all the answers which the man returned
To our inquiries, in their sense and substance,
Translated by the feelings which we had,
Ended in this, that we had crossed the Alps.

Imagination! lifting up itself
Before the eye and progress of my song
Like an unfathered vapour – here that Power,
In all the might of its endowments, came
Athwart me; I was lost as in a cloud,
Halted without a struggle to break through;
And now recovering to my soul I say –
‘I recognize thy glory’: in such strength
Of usurpation, in such visitings
Of awful promise, when the light of sense
Goes out in flashes that have shown to us
The invisible world, doth greatness make abode,
There harbours, whether we be young or old.
Our destiny, our nature, and our home
Is with infinitude, and only there;
With hope it is, hope that can never die,
Effort, and expectation, and desire,
And something evermore about to be.

[…] The immeasurable height
Of woods decaying, never to be decayed,
The stationary blasts of waterfalls,
And everywhere along the hollow rent
Winds thwarting winds, bewildered and forlorn,
The torrents shooting from the clear blue sky,
The rocks that muttered close upon our ears,
Black drizzling crags that spake by the wayside
As if a voice were in them, the sick sight
And giddy prospect of the raving stream,
The unfettered clouds and region of the Heavens,
Tumult and peace, the darkness and the light –
Were all like workings of one mind, the features
Of the same face, blossoms upon one tree;
Characters of the great Apocalypse,
The types and symbols of Eternity,
Of first, and last, and midst, and without end.
(William Wordsworth, The Prelude, 1805-6, 6.453-61, 469-77, 520-42, 556-72)


Qui, l’episodio dell’incontro con il sublime è tramutato nel resoconto di una serie di delusioni e frustrazioni nelle quali la disillusione sul mondo naturale è compensata dalla scoperta delle risorse creative dell’immaginazione del poeta. Il primo sguardo alla realtà del Monte Bianco, anziché inebriare i viaggiatori, li lascia delusi, poiché impone una mera veduta naturalistica, che soffoca l’immaginazione dell’anima. Poi la speranza dei viaggiatori di sperimentare la grande emozione dell’attraversamento delle Alpi è frustrata dal fatto che, persi e confusi, essi l’hanno già fatto. Wordsworth evoca, con accenti miltoniani, la provvidenza divina, l’Apocalisse, il libro della natura - The types and symbols of Eternity/ Of first, and last, and midst, and without end – ma l’infinità che rappresenta la natura, la dimora e il vero destino dell’uomo non è Dio, ma, da ultimo, l’immaginazione umana che sorge dalle rovine dell’esperienza sensibile. Non è al creatore divino, quanto alla propria anima che Wordsworth dice: ‘I recognize thy glory’.
Ancora dieci anni più tardi, Shelley riprende e sviluppa quest’idea nel suo poema sul Monte Bianco.

Dizzy Ravine! and when I gaze on thee
I seem as in a trance sublime and strange
To muse on my own separate fantasy,
My own, my human mind, which passively
Now renders and receives fast influencings,
Holding an unremitting interchange
With the clear universe of things around;
One legion of wild thoughts, whose wandering wings
Now float above thy darkness, and now rest
Where that or thou art no unbidden guest,
In the still cave of the witch Poesy,
Seeking among the shadows that pass by
Ghosts of all things that are, some shade of thee,
Some phantom, some faint image; till the breast
From which they fled recalls them, thou art there!
[…] Mont Blanc yet gleams on high: – the power is there,
The still and silent power of many sights,
And many sounds, and much of life and death.
[…]The secret Strength of things Which governs thought,
and to the infinite dome
Of Heaven is as a law, inhabits thee!
And what were thou, and earth, and stars, and sea,
If to the human mind’s imaginings
Silence and solitude were vacancy?
(Percy Bysshe Shelley, Mont Blanc. Lines written in the Vale of Chamouni, 1816, 34-48, 127-29, 139-44)

Shelley guarda il monte, ma quel che vede è in realtà la propria facoltà di immaginazione ed è capace di sostenere la vista del sublime solo perché si tratta di un prodotto della propria creatività.
Nelle ultime righe del poema, Shelley sostiene che esiste un potere segreto che abita la montagna, ma conclude suggerendo che tali oggetti non hanno esistenza vera e propria e che è solo grazie all’abilità della mente umana che è possibile dare significato ad un mondo privo di senso e farlo entrare in relazione produttiva con il soggetto.
L’ultimo passo fu compiuto due anni più tardi dalla moglie di Shelley, Mary Wollstonecraft Shelley, autrice del romanzo Frankestein.

It was nearly noon when I arrived at the top of the ascent. For some time I sat upon the rock that overlooks the sea of ice. A mist covered both that and the surrounding mountains. Presently a breeze dissipated the cloud, and I descended upon the glacier. The surface is very uneven, rising like the waves of a troubled sea, descending low, and interspersed by rifts that sink deep. The field of ice is almost a league in width, but I spent nearly two hours in crossing it. The opposite mountain is a bare perpendicular rock. From the side where I now stood Montanvert was exactly opposite, at the distance of a league; and above it rose Mont Blanc, in awful majesty. I remained in a recess of the rock, gazing on this wonderful and stupendous scene. The sea, or rather the vast river of ice, wound among its dependent mountains, whose aerial summits hung over its recesses. Their icy and glittering peaks shone in the sunlight over the clouds. My heart, which was before sorrowful, now swelled with something like joy; I exclaimed, “Wandering spirits, if indeed ye wander, and do not rest in your narrow beds, allow me this faint happiness, or take me, as your companion, away from the joys of life.”
As I said this I suddenly beheld the figure of a man, at some distance, advancing towards me with superhuman speed. He bounded over the crevices in the ice, among which I had walked with caution; his stature, also, as he approached, seemed to exceed that of man. I was troubled; a mist came over my eyes, and I felt a faintness seize me; but I was quickly restored by the cold gale of the mountains. I perceived, as the shape came nearer (sight tremendous and abhorred!) that it was the wretch whom I had created. I trembled with rage and horror, resolving to wait his approach and then close with him in mortal combat. He approached; his countenance bespoke bitter anguish, combined with disdain and malignity, while its unearthly ugliness rendered it almost too horrible for human eyes. But I scarcely observed this; rage and hatred had at first deprived me of utterance, and I recovered only to overwhelm him with words expressive of furious detestation and contempt.
(Mary Wollstonecraft Shelley, Frankenstein, 1818, Capitolo 10)

Il romanzo di Mary Shelley conta due sezioni in forma epistolare che racchiudono la sezione centrale, in cui il mostro narra in prima persona la sua vita all’uomo, affascinato e terrificato, che l’ha creato. Lo scenario che Mary Shelley sceglie per la narrazione centrale è proprio il Monte Bianco: la sublime montagna che solo qualche decina d’anni prima era parsa il simbolo della benevola onnipotenza divina, ora si presenta agli occhi della scrittrice come lo sfondo più appropriato per un racconto di ciò che accade quando l’uomo si sostituisce a dio e si arroga il diritto di creare la vita. Nel giro di qualche decennio, quindi, ciò che appariva come la prova della sublimità del disegno divino si trasforma nel simbolo della sublime arroganza umana, in un mondo ormai privo di dei. Anche se i Romantici continuano a deprecare l’empietà umana, risulta evidente che erano affascinati dalle capacità dell’uomo e che ne stavano saggiando i limiti: dietro la tradizionale maschera del sublime di Longino, si intravedeva con chiarezza il ghigno del sublime di Lucrezio.
Per di più, quando si considerano le caratteristiche del sublime che si afferma nella seconda metà del XX secolo, si ritrovano, a mio parere, proprio le caratteristiche del sublime lucreziano. Ciò non significa certo che artisti come Newman e Rothko abbiano tratto ispirazione diretta dal De rerum natura! Quel che si intende sostenere, invece, è che anche in un mondo in cui non si è più in grado di rintracciare segni della provvidenza divina e in cui si inclina a credere che gli atomi, il vuoto e il caso abbiano fatto tutta la storia dell’universo, è possibile riconoscere una sorta di sublimità e ricondurla non più alla benevolenza di dio, ma al coraggio sprezzante dell’uomo. Dove un tempo l’uomo aveva guardato attonito alla potenza di un ente sovrumano che avrebbe potuto distruggerlo a suo piacimento, ora egli guarda con la stessa meraviglia alle proprie capacità di fare il bene e il male, di conoscere, di creare, di distruggere. Il sublime di Lucrezio, in particolar modo nelle sue espressioni contemporanee, vede eventualmente nella maestà della natura solo uno specchio o un pretesto della grandezza della forza creatrice e distruttrice del soggetto.
Ma si può forse esser certi che la lezione del sublime di Longino fosse del tutto diversa?
Sembra utile, a questo punto, richiamarsi ad alcune opere pittoriche, poiché queste hanno una sorta di immediatezza viscerale che manca invece agli esempi testuali e possono quindi meglio servire allo scopo di rendere più comprensibile il ragionamento astratto fin qui costruito. Se il sublime si risolve nella rappresentazione del soggetto incarnato che considera il mondo materiale che lo circonda, è inoltre evidente la maggiore efficacia del mezzo visivo rispetto al mezzo linguistico.
Le opere pittoriche ispirate al sublime di Longino seguirono tutte lo stesso schema concettuale durante il secolo della loro fioritura, dalla metà del XVIII secolo alla metà del XIX secolo (8). Tali opere si presentano perlopiù in formato orizzontale e sono in genere molto ampie: grazie a questo accorgimento, vengono enfatizzate sia la vastità della veduta sia le grandi differenze di altezza. L’osservatore è inoltre indotto a prendere possesso del panorama da una posizione di relativa immobilità nella quale non viene chiamata in causa la verticalità del suo corpo: lo spettatore è ridotto ad un occhio che può vedere tutto attorno a sé. Se si tratta di un punto di vista dal basso, come nel caso dell’opera di Turner Waterfall of Rhine at Schaffhausen, si è indotti all’ammirazione di una forza che minaccia di distruggere l’osservatore; se da sopra, come nel quadro di Moran, il soggetto osserva dall’alto di una posizione di potere, come quella di un’aquila che sorvola il paesaggio. Le opere rappresentano scenari di natura inumana e selvaggia: luoghi creati non per essere abitati, ma per essere osservati da una prudente distanza. Montagne, cascate, oceani, che separano fra loro le comunità umane, sono però immersi quasi senza eccezione in una superba luce solare, che a tutte le ore del giorno crea armoniose varietà di colori e complicati giochi di chiaroscuro.
Spesso, il punto di osservazione dello spettatore è inglobato nel quadro stesso, che riproduce una piccola forma umana vista da dietro e posizionata perlopiù al margine inferiore dell’opera. La sua piccolezza rende l’idea delle grandi dimensioni della scena naturale a cui assiste, ma la sua presenza suggerisce che il luogo rappresentato, per quanto inospitale, non è stato inaccessibile allo sguardo penetrante e all’audacia del viaggiatore. Per quanto inumano, dunque, lo scenario viene in qualche modo umanizzato e ricorda che, nonostante la sua ostilità apparente, la natura è stata prodotta dallo stesso creatore che ha reso l’uomo padrone del creato. Questo implicito ottimismo teologico è talvolta reso assai più immediato dalla presenza di una croce, che, piantata in mezzo al nulla e senza scopo pratico apparente, sta ad indicare simbolicamente la religiosità naturale (9). Il paesaggio inospitale viene dunque trasformato in tempio, anzi, in una grande cattedrale gotica i cui pilastri tornano ad essere alberi e i cui altari sono i monti, che guardano l’uomo dall’alto, con gli occhi del dio creatore. Altre volte, la relazione fra la grandezza dello spettacolo e la piccolezza dello spettatore non viene rispettata, ma la scena è incentrata sullo spettatore stesso, mentre ciò a cui questi assiste funge solamente da stimolo per la grandezza dell’anima dello spettatore, che costituisce il vero soggetto dell’opera (10). In altri casi ancora, lo spettatore viene soppresso di proposito, mentre diviene ancora più efficace l’idea della grandezza dello sguardo implicito che è riuscito a posarsi su una scena tanto terribile, rispetto a quelle opere in cui viene rappresentato il corpo di una spettatore. Dunque, pur sempre enfatizzando gli oggetti naturali, i dipinti sul sublime possono talvolta riguardare lo spettatore almeno tanto quanto lo spettacolo. Come il tema della teodicea del Monte Bianco, di matrice longiniana, si trasformava gradualmente nell’esaltazione lucreziana dell’audacia dell’uomo, allo stesso modo nei quadri che intendono esprimere il sublime, il mondo esterno può talvolta ridursi a poco più che un pretesto per l’autore che intende esprimere il proprio senso del ritmo e del colore. Per la verità, poche sono le opere precedenti al XX secolo che si avvicinano alla pura astrazione più di quanto facciano alcuni studi di Turner sulla luce montana (11). Si prenda ora in considerazione una delle espressioni più astratte di un paesaggio sublime – per esempio, l’opera Der Mönch am Meer di Casper David Friedrich (12). Ritrae in primo piano una spiaggia dalla quale un monaco solitario osserva il mare in tempesta, ma il limite a cui si spinge la sua rappresentatività potrebbe farla considerare non più che un pretesto per lo studio tecnico delle relazioni reciproche tra grandi macchie di colore. Il passo per trasformare l’opera in un quadro astratto è tanto breve, che potrebbe compiersi nello sguardo di un osservatore miope che si avvicinasse alla tela senza occhiali. Ci si potrebbe forse chiedere che cosa avrebbe visto il notoriamente miope Mark Rothko se avesse guardato ad occhio nudo, senza i suoi occhiali spessi, il monaco sulla spiaggia del quadro di Friedrich: senz’altro qualcosa di non molto dissimile dalla sua opera Senza titolo del 1969 (13).
Senza voler certo sostenere che lo sviluppo dell’arte contemporanea sia dovuto alla miopia dei suoi protagonisti, quest’immagine può aiutare a suggerire che la straordinaria originalità dell’arte di Rothko deriva dalla sua radicale rielaborazione della tradizione della pittura sublime fiorita almeno un secolo prima di lui. Rothko utilizza a questo scopo tre ingegnosi espedienti. Innanzitutto, rifiuta di rappresentare oggetti identificabili – si tratti di monti o di spettatori; di conseguenza, richiama l’attenzione di chi osserva non più sulla scena rappresentata, rispetto alla quale la tela svolgerebbe la funzione di un vetro trasparente, ma sulle qualità pittoriche della tela stessa, sulla grande brillantezza dei colori, sulla cura del dettagli e sulla sottigliezza della pennellata. Le altre innovazioni sono meno evidenti, ma non per questo meno significative. La prima è la verticalizzazione della tela, che permette allo spettatore di prendere coscienza della propria corporeità nel momento in cui si pone davanti al quadro: invece di muovere semplicemente gli occhi a destra e a sinistra, è costretto a far spaziare lo sguardo in alto e in basso e ad entrare quindi in modo più dinamico e più fisico nel processo di osservazione. Infine, Rothko volle che questi quadri fossero osservati molto da vicino, più esattamente dalla stessa distanza dalla quale erano stati dipinti: in questo modo, l’osservatore viene circondato da larghe bande di colore che fuggono in tutte le direzioni dai limiti del proprio ristretto campo visivo. Questi quadri sul sublime parlano davvero del loro sublime autore, Mark Rothko, il quale, invitando l’osservatore ad identificarsi con lui, lo rende quasi coautore delle sue opere. In un mondo senza dio, come quello attuale, il solo sublime possibile è quello incarnato dal soggetto umano eroico, o tracotante che sia.
Rothko condusse altresì vari studi sulla tradizione pittorica che lo aveva preceduto: è significativo rilevare che, proprio secondo la sua interpretazione implicita, il quadro di Friedrich sopra ricordato non intendeva rappresentare un monaco sulla riva, ma la relazione reciproca tra macchie di colore. In realtà, una parte dei più straordinari lavori di Rothko può essere ricondotta alla rielaborazione da parte del pittore della tradizionale raffigurazione paesaggistica, che presenta due o tre strisce di colore in corrispondenza del cielo, del mare (o del paesaggio lontano) e della spiaggia (o della terra più prossima) (14). Ciò non significa, senza dubbio, che autori come Friedrich e Turner abbiano rivolto la loro attenzione solamente al contrasto fra luminosità o fra bande di colore; ma, dal punto di vista del sublime lucreziano di Rothko, qualunque soggetto dipinto da tali artisti è stato al più un pretesto per esperimenti sul colore e semmai un equivoco sulle vere possibilità dell’arte. Se, infatti, come ebbe a sostenere Kant nella sua terza Critica, la mente umana andava riconosciuta come il luogo d’elezione del sublime, che utilità poteva esservi nella rappresentazione di qualsivoglia oggetto esterno? Al più, manteneva ragion d’essere solo un gioco di colore nel quale l’osservatore umano potesse spaziare e perdere quasi se stesso, per poi riscoprirsi.
Mark Rothko indicò una via che il sublime artistico di Longino sarebbe stato in grado di seguire solo trasformandosi in una versione lucreziana, cioè, più precisamente, portando la tendenza all’astrazione di Turner oltre il limite per emanciparsi altresì dal vincolo della rappresentatività, puntando sulla pura luminosità e sulla qualità pittorica del colore, negando all’osservatore una comoda estraneità all’opera.
Una tale operazione risulta assai più semplice da realizzare nel campo pittorico che in quello fotografico, dove la preponderanza dell’oggetto rappresentato si è rivelata molto più difficile da intaccare. Tuttavia, l’artista svizzero Jean-Pascal Imsand ha mostrato come lo stesso intento possa essere messo in pratica con il mezzo fotografico.
Tradizionalmente i dipinti del sublime potevano rappresentare montagne e oceani nella stessa opera (15), ma, per timore di confondere lo spettatore, avevano cura di tenere ben separati i due ambienti, pur giocando a volte sulla somiglianza visiva e metaforica tra la cresta dei monti e la cresta delle onde. Wordsworth potè parlare di dumb cataracts and streams of ice, / a motionless array of mighty waves, ma si trattava pur sempre di poesia, che, al contrario della pittura, non era obbligato di tenere distinte le due realtà. Tuttavia, l’opera di Imsand qui riprodotta (Svizzera, 1990) testimonia un tentavo riuscito di immediata identificazione metaforica tra cresta d’onda e cresta del monte, per mezzo di un ingegnoso montaggio che sfuma le discontinuità tanto efficacemente che, sebbene si possa continuare ad indicare dove c’è l’acqua e dove c’è il monte, non si potrebbe dire con certezza dove l’una e l’altro comincino. Ne risulta un’immagine perfettamente intelligibile, che non corrisponde però a nessun oggetto esterno possibile al di fuori dell’atelier del fotografo, ma solo a qualcosa che esiste nell’immaginazione dell’artista: gli oggetti non mantengono alcuna realtà in sé, ma vengono percepiti come fittizi per divenire subito un sostrato che lo spirito umano trascende. Lucrezio ne sarebbe andato fiero.
Sarebbe troppo semplice, tuttavia, concludere senza nemmeno un cenno ai pericoli insiti nella concezione del sublime di Lucrezio. Un mondo abbandonato dai dei offre facile sponda all’artista umano che voglia prendere il loro posto: non bisogna abbattere alcun rivale per prendere il comando. Tuttavia, non è facile dare un senso alla vita se si dispone solo di atomi, di vuoto e di casualità, né se si considera che i più grandi successi non sono più duraturi della collisione casuale di due microparticelle. Essere liberi dal giogo di un dio apre grandi spazi alle ambizioni del soggetto, ma provoca allo stesso tempo un senso di instabilità e di solitudine tale da privare l’uomo di qualunque felicità duratura. Life at the top is lonely, recita un adagio americano.
La malinconia è la malattia professionale di chi pratica il sublime di Lucrezio. Secondo la testimonianza pur non pienamente affidabile di Geronimo, il poeta latino stesso diventò folle per aver abusato di un filtro d’amore e scrisse il De rerum natura durante brevi intervalli di lucidità, prima di darsi la morte. Sono certe, invece, le notizie biografiche sugli artisti più vicini a noi. Mark Rothko si tolse la vita tagliandosi le vene nel suo studio, a New York, il 25 febbraio 1970. Jean-Pascal Imsand si suicidò gettandosi sui binari il 29 marzo 1994 (16).
Traduzione di Margherita Redaelli

Note
(1) Sono molto grato a James Chandler (University of Chicago) e a Stephen Halliwell (University of St. Andrews) per i loro suggerimenti preziosi.
(2) Il riferimento al nome di Longino è adottato nel testo per mera convenienza.
(3) Fra questi figurano anche i precedenti contributi alla materia ad opera dell’autore stesso, cfr. ad es. Most 1984 e Most 2002.
(4) Fra i più noti quadri di questo tipo, vi sono B. Newman, Vir heroicus sublimis, 1950, 2,4x5,4m, New York, e M. Rothko, Orange and red on red, 1957, 1,57x1,68m, Washington, DC.
(5) Conte 1991. Su Lucrezio e il sublime cfr. di più recente Porter 2003 e Porter in corso di stampa.
6) Cfr Lamb 1981; Noggele 2001; Fanning 2005.
(7)Baker 2001. Dello stesso autore dovrebbe uscire anche un libro sul medesimo argomento, Toward a genealogy of the sublime: the legacy of Lucretius in 18th-century aesthetics.
8) Cfr. ad es. J. Turner, Waterfall of Rhine at Schaffhausen, 1806, Boston; T. Moran, The Badlands of Dakota, 1901, Lugano.
(9) Cfr. ad es. l’opera di C. D. Friederich, Morgen am Riesengebirge, 1810-11, Berlino, e F. E. Church, The cross in the wilderness, 1875, Lugano.
(10) Cfr ad es. C. D. Friederich, Der Wanderer über dem Nebelmeer, c.1818, Hamburg.
(11) CCfr. ad es. J. Turner, Mountain passage, c. 1835-40, London; J. Turner, Sun setting over a lake, c.1845, London..
(12) C. D. Friederich, Der Moench am Meer, 1809-10, Berlino.
(13) M. Rothko, Senza titolo, 1960, coll. Christopher Rothko.
(14) A questo proposito si considerino, fra le altre, i seguenti confronti: C. D. Friedrich, Winterlandschaft mit Kirche, 1811 Dortmund, confrontato con M.Rothko, Senza titolo, 1969, coll. Kate Rothko Prizel; Friedrich, Neubrandenburg, c. 1817, Kiel, con Rothko, Violet bar, 1957, collezione privata; Friedrich, Mondaufgang am Meer, 1822, Berlino, con Rothko, No. 5, 1962, Teheran; Friedrich, Meereküste bei Mondschein, c.1830, Berlino, con Rothko, Senza titolo, 1949, New York; J. Turner, Sailing near the promontory of East Cowes, 1827, Londra, con Rothko, Senza titolo, 1950, coll. Kate Rothko Prizel; Turner, Sunset: Rouen?, c. 1829, Londra, con Rothko, No. 10, 1952, Seattle.
(15) Cfr. ad es. J. Turner, Morning on the heights of Coniston in Cumberland, 1798, Londra; Shipwreck, 1805, Londra.
(16) A determinare il metodo di suicidio concorrono, insieme alle circostanze immediate, strutture mentali e ossessioni durevoli dell’individuo. Rothko, circondato da grandi macchie rosse sul pavimento del suo studio, si trasformò così nell’ultimo dei propri quadri. La passione di Imsand per i treni e i binari ferroviari è evidente in tutta la sua opera.


Bibliografia
Baker 2001 = E. R. Baker, Atomism and the sublime; on the reception of Epicurus and Lucretius in the aesthetics of Burke, Kant, and Schiller, Diss. John Hopkins University 2001 (University Microfilms 2001)
Conte 1991 = G. B. Conte, Insegnamenti per un lettore sublime: Forma del testo e forma del destinatario nel De rerum natura di Lucrezio, in id., Generi e lettori: Lucrezio, l’elegia d’amore, l’enciclopedia di Plinio, Milano 1991, pp. 9-52
Fanning 2005 = C. Fanning, The Scriblerian sublime, Studies in English Literature 45.3 (2005), pp. 647-667
Lamb 1981 = J. Lamb, The comic sublime and Sterne’s fiction, English Literary History 48.1 (1981), pp. 110-143
Most 1984 = G. W. Most, Sublime degli Antichi, Sublime dei Moderni, Studi di estetica 12:1-2, N.S. 4/5 (1984), pp. 113-29
Most 2002 = G.W. Most, After the Sublime: Stations in the Career of an Emotion, The Yale Review 90 (2002), pp. 101-20
Noggele 2001 = J. Noggele, The skeptical sublime: Aesthetic ideology in Pope and the Tory satirists, Oxford 2001
Porter 2003 = J. I. Porter: Lucretius and the Poetics of Void, in Le Jardin romain: Epicurisme et poèsie à Rome. Mélanges offerts à Mayotte Bollaci, a cura di A. Monet, Lille 2003, pp. 197-226
Porter in corso di stampa = J. I. Porter, Lucretius and the Sublime, in The Cambridge Companion to Lucretius, a cura di S. Gillespie e P. Hardie, Cambridge in corso di stampa (pubblicazione prevista 2007)

«Corriere della sera» del 19 luglio 2007

Il silenzio sul ‘92

Politica e «rivoluzione giudiziaria»
di Angelo Panebianco
A quindici anni di distanza dalla «rivoluzione giudiziaria» del 1992 (l’avvio dell’inchiesta detta di Mani Pulite e il terremoto che ne seguì) la politica non è stata ancora capace di trovare, sul piano istituzionale come su quello simbolico, le risorse necessarie per riportare a fisiologica normalità i rapporti fra potere giudiziario e poteri rappresentativi. Questa incapacità della classe politica non è dipesa da una sua generica e presunta «debolezza» ma dal fatto che essa è sempre stata profondamente divisa sul che fare. L’origine di quella divisione va ricercata nel diverso atteggiamento che le varie frazioni della classe politica assunsero nei confronti degli eventi del ‘92-93 e dei differenti vantaggi e svantaggi che (a breve termine) ne ricavarono. Molte delle attuali difficoltà che la dirigenza dei Ds incontra nel fronteggiare la bufera da cui è stata investita per il caso intercettazioni-Unipol hanno lì la loro radice. Nel ‘92, l’allora Pds scelse compattamente (gli scrupoli garantisti di qualche singola personalità non ebbero alcuna rilevanza politica) di appoggiare fino in fondo l’azione dei magistrati. Anche, bisogna ricordarlo, gli aspetti meno commendevoli, più censurabili, di quella rivoluzione giudiziaria ricevettero allora il suo incondizionato appoggio. Il Pds, poi Ds, divenne il «partito delle procure», la lobby parlamentare più sicura e affidabile su cui i gruppi di magistrati più attivi potessero contare al fine di impedire interventi non graditi del potere politico. Non c’è nulla di strano, sia chiaro. La politica è fatta di convenienze e ai Ds conveniva (o così a loro sembrava) essere schierati con la rivoluzione giudiziaria e i suoi protagonisti. Per due ragioni. Perché così facendo consolidavano il loro rapporto di buon vicinato con la più potente (e temibile) corporazione del Paese e perché, in secondo luogo, la rivoluzione giudiziaria aveva effetti assai più devastanti per i loro nemici politici che per loro stessi. Ogni colpo di maglio, ogni avviso di garanzia, che ricevevano gli avversari politici avvicinava o sembrava avvicinare il momento in cui il Pds avrebbe ereditato il governo del Paese. Quando poi sulla scena irruppe Berlusconi distruggendo i sogni di gloria affidati alla «gioiosa macchina da guerra» (Occhetto), i diessini non trovarono alcun motivo per cambiare atteggiamento, per assumere una posizione più equilibrata, più attenta alle garanzie, meno disponibile a blandire acriticamente il potere giudiziario. Fin quando i colpi di maglio continuavano a riguardare soprattutto gli avversari politici non c’erano serie ragioni di ripensamento. Per amor di verità va ricordato che, in tempi non sospetti, ci fu un’autorevolissima voce diessina che a un certo punto si levò a stigmatizzare certi eccessi: quella di Luciano Violante. Una cosa meno sorprendente di quanto potesse apparire a prima vista: per il suo passato, il suo ruolo a cavallo fra magistratura e politica e la sua competenza, Violante era in realtà l’unico fra i diessini che potesse davvero permetterselo. Ma nemmeno le sue parole ebbero alcun seguito. Da qui tutto il resto. Intercettazioni selvagge? Certo. Ma mai una volta nei lunghi anni in cui il fenomeno colpì tanti altri (compresi moltissimi che con la politica non c’entravano affatto) i diessini, timorosi dei veti di fonte giudiziaria, mossero un dito per porre fine a certi sviluppi patologici. Oppure si prenda il caso della famosa (e irraggiungibile) separazione delle carriere. * * * La politica e il silenzio sul ‘92 In privato, non c’è quasi nessuno, anche a sinistra, che non ne riconosca la decenza, prima ancora che la coerenza con la deontologia della democrazia liberale. In pubblico, però, è sempre stata tutta un’altra musica. Oggi, i diessini si trovano a vivere sulla propria pelle le conseguenze delle loro scelte passate. Devono difendersi e c’è un solo modo per farlo: usare le parole e gli argomenti che tutti gli altri hanno sempre usato per difendersi. Si trovano così, spiacevolmente, in contraddizione con se stessi. E’la consapevolezza dell’esistenza di questa contraddizione, probabilmente, a spiegare anche certi attacchi alla stampa. Non avendo ancora maturato un cambiamento di linea - e non potendo comunque farlo nel bel mezzo di una bufera giudiziaria - sulla questione che davvero conta (i rapporti fra potere giudiziario e potere rappresentativo), devono trovarsi un capro espiatorio. Esistono, in politica, come nella vita in generale, due tipi di convenienze: a breve termine e a lungo termine. Talvolta essi entrano in conflitto. I diessini stanno oggi sperimentando gli effetti di quel conflitto.
«Corriere della sera» del 28 luglio 2007

Povero Piero:pensava di avere un giornale

di Mario Cervi
Il battibecco tra il Corriere della Sera e Piero Fassino, arricchitosi d'un nuovo episodio, potrebbe essere catalogato tra le piccole bufere che punteggiano le storie d'amore (incluse le storie d'amore politico e giornalistico). Ma per gli argomenti usati, e per il ruolo importante che il segretario dei Ds ha nella vita pubblica italiana, quel battibecco diventa lo specchio d'una situazione inquietante.
Riassumo l'antefatto. Molto seccato dal rilievo che anche il Corriere aveva dato al caso Forleo, ossia alla richiesta d'utilizzare per fini di giustizia le intercettazioni telefoniche riguardanti le scalate bancarie, e coinvolgenti i massimi dirigenti della Quercia, Fassino aveva chiamato in causa nientemeno che Luigi Einaudi: il quale, in uno scambio di lettere del 1916 con il mitico direttore di via Solferino Luigi Albertini, gli aveva suggerito - contro gli speculatori ma anche contro i «Catoni da strapazzo» - il silenzio, pur con il rischio di vederlo male interpretato. Fassino sostiene che la citazione era scienza sua, da nessuno suggerita. Si può credergli o no. Sicuro è invece che, con l'accorata invocazione d'un silenzio d'oro, il segretario diessino esprimeva l'amaritudine angosciosa di chi s'era illuso di trovare ancora sostegno nella stampa amica.
Alla rampogna il Corriere aveva reagito con una paginata storico-politica di Ernesto Galli della Loggia mirante a dimostrare, insieme all'indipendenza mirabile del Corriere d'antan, anche quella del Corriere d'oggi. Ecco allora - siamo a ieri - una lettera di Fassino che, tributati gli omaggi di rito a Einaudi, ad Albertini, a Galli della Loggia, veniva tuttavia al dunque: e ribadiva che il Corriere ha rappresentato la vicenda Unipol-Bnl in un modo «che travalica abbondantemente il diritto di cronaca e d'informazione assecondando invece e talora sollecitando una pulsione distruttiva largamente diffusa nell'opinione pubblica, quasi un desiderio vendicativo di travolgere la politica». Più avanti Fassino affermava che i giornali sono attualmente «organica parte del sistema politico istituzionale», non solo testimoni ma «competitori nel sistema politico».
Dunque, non un oscuro signore ma il leader d'un grande partito sottolinea l'intreccio tra la politica e i quotidiani, a cominciare dai maggiori. Non ci sono Vestali illibate a custodire il tempio dell'imparzialità. Allora tante tonanti polemiche contro la stampa schierata perdono senso, perché non l'ultimo venuto ma Fassino riconosce al Corriere della Sera un ruolo competitivo e attivo nelle manovre di palazzo, e evidentemente si duole per il fatto che questo ruolo, esistendo, non sia stato svolto a dovere. Con molta lealtà e chiarezza la direzione del Corriere ha due volte preso posizione, in vista delle elezioni politiche, e sempre a favore dello stesso schieramento. «Abbiamo un giornale», gongolava Fassino. Figuratevi come rimase.
«Il Giornale» del 31 luglio 2007

Fassino e i «Silenzi» di Albertini

A proposito di una recente polemica aperta dal segretario dei Ds verso il nostro giornale. Einaudi, Albertini e gli inviti al silenzio. Contrariamente alle allusioni di Piero Fassino lo «stare zitti» non è nella storia del «Corriere»
di Ernesto Galli Della Loggia
L’immagine della storia del Corriere della Sera che Piero Fassino ha cercato di dare nei giorni scorsi per polemizzare con l’attuale direzione del giornale e l’uso che a questo fine ha fatto di uno scambio epistolare del 1916 tra Luigi Albertini e Luigi Einaudi credo che abbiano prodotto non poca meraviglia in chiunque conosca anche per sommi capi la vicenda del foglio di via Solferino. Dalle parole di Fassino - davvero mal indirizzato da chi molto probabilmente gli ha suggerito la citazione einaudiana - sembra quasi che Einaudi, sollecitato dall’allora direttore del Corriere a intervenire su un tema politico caldo del momento, lo inviti alla cautela e al silenzio per non attirarsi le ire dell’opinione pubblica. Ammesso ma per nulla concesso che sia questo il vero significato delle parole di Einaudi - in realtà esse non sono altro che una banale considerazione sul carattere spesso inevitabilmente impopolare della verità, sicché a volte può convenire restare zitti -, la storia del Corriere di Albertini e della collaborazione ad esso di Luigi Einaudi ne sarebbero certamente la smentita più clamorosa. Infatti, come tutti sanno, se ci fu un carattere peculiare del Corriere albertiniano, una sua evidente cifra storica e giornalistica, fu non solo il parlare sempre fuori dai denti e, direi, una programmatica, ancorché sempre argomentata, mancanza di riverenza verso il potere, ma addirittura proprio il suo schierarsi costantemente in posizione assai critica nei confronti, sia degli equilibri politici dominanti, sia della classe dirigente che li incarnava. Durante i primi quindici anni del Novecento Albertini rese il Corriere il grande giornale europeo che è rimasto fino ad oggi facendone, come si sa, la maggiore voce di opposizione contro Giovanni Giolitti e quello che si chiamò il giolittismo, cioè il sistema di potere da lui costruito durante il suo lunghissimo periodo di governo. All’austero liberalismo conservatore di Albertini non piacevano la spregiudicatezza manovriera del presidente del Consiglio, l’uso politico che spesso e volentieri egli faceva degli apparati dello Stato particolarmente in periodo elettorale, la sua inclinazione ad accondiscendere alle richieste dei socialisti a spese del bilancio dello Stato, nonché quella che egli giudicava una sostanziale mancanza di iniziativa in politica estera. Il Corriere di Albertini diventò così un vero e proprio giornale-partito (altro che asettica neutralità e cautela!): praticamente la vera opposizione, in ambito costituzionale, alla «dittatura parlamentare» di Giolitti. Basti pensare al rilievo nazionale, all’eco nel Paese, che Albertini diede ai metodi violenti adottati da Giolitti per manipolare le elezioni in molte zone del Mezzogiorno attraverso l’azione dei prefetti e della polizia, quando nel 1913 mandò (caso unico, non riservato né prima né poi a nessun altro uomo politico) uno dei più prestigiosi inviati del giornale, Ugo Ojetti, a seguire la campagna elettorale di Gaetano Salvemini nei collegi di Molfetta e di Bitonto, dove lo storico pugliese, fiero avversario di Giolitti, venne fatto oggetto delle intimidazioni e delle aggressioni da parte dei «mazzieri» giolittiani, le quali furono puntualmente riferite con grande evidenza dal quotidiano milanese. Anche per effetto di questa coraggiosa linea politica, la terza pagina del Corriere si trasformò in quegli anni nel punto di raccolta della migliore, nuova, cultura italiana, che proprio in quel torno di tempo andava sempre più schierandosi su posizioni di antigiolittismo militante (si pensi a espressioni pur tra loro diversissime come il futurismo o l’idealismo crocio-gentiliano, ma anche alla Voce di Giuseppe Prezzolini). La collaborazione al Corriere di Gabriele d’Annunzio in occasione della guerra di Libia, che Albertini appoggiò - per settimane il giornale pubblicò pagine intere con le Canzoni della gesta d’oltremare del poeta, raggiungendo tra l’altro vendite vertiginose - è un’ottima testimonianza della capacità della direzione albertiniana di accordare cultura e politica, sensibilità per i gusti del pubblico ed esigenze commerciali. Nell’orientamento complessivo di quel Corriere il ruolo di Luigi Einaudi fu assolutamente decisivo. Lungi dal rappresentare, come potrebbe apparire dalla citazione di Fassino e dall’uso che egli ne ha fatto, una specie di freno dell’esuberanza di Albertini, Einaudi ne fu per venticinque anni un ispiratore-collaboratore e insieme, se così si può dire, uno strumento imprescindibile. Einaudi, infatti, fu colui che rappresentò instancabilmente la linea liberista del giornale, la radicale avversione ad ogni corporativismo e statalismo, ad ogni protezionismo, ad ogni monopolio, che denunciò il malcostume politico ogni volta prodotti da questi fenomeni, dando così voce ad uno dei temi più insistiti della polemica antigiolittiana del direttore. Fu soprattutto grazie ad Einaudi che il giornale divenne l’espressione organica di un ambiente economico come quello lombardo, allora legato soprattutto all’industria manifatturiera leggera e al commercio, e dunque incline più di qualunque altro in Italia al libero scambio e ai principi della concorrenza. Fu così che il Corriere acquistò un’autorevolezza e un’influenza politica sempre crescenti. Dalla guerra di Libia all’instaurazione della dittatura fascista nel 1925, quando Albertini fu estromesso dalla direzione e dalla proprietà, non vi fu in pratica svolta importante della vita del Paese che non lo vide in un modo o nell’altro protagonista. A cominciare dall’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale, fortemente voluto dal giornale, in certo senso a coronamento del proprio antigiolittismo, alla campagna a favore di Leonida Bissolati e contro i nazionalisti nel 1919, all’iniziale simpatia verso il fascismo per finire con l’opposizione senza quartiere nei confronti del nuovo regime. E tutto ciò fece, naturalmente, a volte con l’appoggio dell’opinione pubblica che lo seguiva, ma a volte anche contro. Non rinunciando mai però a quella assoluta libertà nella scelta dei temi, nell’impostazione delle notizie, negli obiettivi da perseguire, nella scelta dei collaboratori, e dunque non rinunciando a quella funzione in senso lato di guida politica del pubblico, senza di che non esistono autentici giornali ma solo fogli d’ordini o bollettini parrocchiali. Come si vede, contrariamente a quel che ha voluto dire Fassino con la mal consigliata citazione einaudiana, la linea che ha fatto del Corriere ciò che il Corriere è diventato, la linea di Albertini fatta costantemente propria da Einaudi, non è stata mai la linea dello «stare zitti». Al contrario. Naturalmente è fatale che ciò possa qualche volta dispiacere agli esponenti della politica. I quali però dovrebbero capire che se essi pensano, come pensano, che il sostegno di un giornale è importante, è solo perché quel giornale conta, e quel giornale conta solo se è autorevole: ma l’autorevolezza un giornale la conquista e la mantiene presso i lettori (che alla fine sono quelli che decidono di tutto) solo in un modo: mostrandosi libero da influenze esterne nelle proprie scelte, giuste o sbagliate che possano rivelarsi. La lezione di Albertini e del suo Corriere è questa, e solo questa.

Le citazioni di Einaudi e Albertini sono tratte dal volume delle loro Lettere (1908-1925), edito dalla Fondazione Corriere della Sera
Il leader: Luigi Albertini guidò il «Corriere della Sera» dal 1900 al 1925 e lo portò al rango di più importante quotidiano italiano
«Corriere della sera» del 29 luglio 2007

Visioni: l’incubo del disastro futuro

Un libro ripercorre le «distopie» del Novecento da Kafka a Orwell, da Huxley a Bradbury Un viaggio letterario sugli scenari apocalittici di un’epoca che ha perso la speranza nel lieto fine
di Giuseppe Iannaccone
Con buona pace di Tommaso Moro, all’utopia sembra non credere nessuno. Nella letteratura, ma anche nel cinema, nelle fiction o nei fumetti, il luogo ideale e illusorio dell’«isola che non c’è» affascina sempre meno. Forse perché oggi c’è ben poco da stare allegri, l’happy end non è più verosimile e la fantasia è sempre più attratta dalla catastrofe, dal terrore e dalla paura. Si può pensare che questo piacere del tragico imminente contenga una buona dose di esorcismo: evocare ciò che ci spaventa è anche un modo per scacciarlo. Resta però il fatto che, superata la soglia del Duemila, le isole sognate da Defoe o Stevenson sono sostituite da universi crudeli e senza speranze o da regimi oppressivi e alienanti. Superato il sogno idilliaco dell’esotico e dell’avventuroso, prolifera invece la moda letteraria di un genere paradossale (ma non troppo), chiamato «distopia», il quale si compiace di concepire scenari del disastro e creare un paesaggio raccapricciante del nostro immaginario, dove il progresso diventa incontrollabile, l’apocalisse è a portata di mano e l’umanità è ridotta a brandelli.
Un interessante libro di Francesco Muzzioli (Scritture della catastrofe, Meltemi, pagg. 288, euro 21,50) censisce ora questo continente, popolato in tutto il Novecento di rappresentazioni dell’incubo collettivo. Non si tratta tanto di semplice fantascienza: il «meraviglioso scientifico» di Asimov o di Star Trek preconizza futuri troppo lontani per mettere paura e il carattere seriale delle spedizioni spaziali in fondo rassicura, visto che i cataclismi non sono mai definitivi. Né la minaccia al nostro pianeta viene solo dalla bomba atomica, dall’angoscia della guerra tecnologica o dalla desolazione del «dopobomba» (si pensi all’Huxley de La scimmia e l’essenza e al Philip Dick delle Cronache del dopobomba). Il male può vincere infatti soprattutto nella coscienza degli individui e nelle più classiche suggestioni della distopia: l’autoritarismo, la repressione poliziesca, il potere del dispotismo. E il mondo, fattosi omologato e senza alternative, non può che essere definito «kafkiano»: quale aggettivo migliore per indicare una società conformista, allucinante e insensata che schiaccia l’individuo, inchiodandolo a un tribunale imperscrutabile, senza addebito né prova?
Il processo di Kafka è l’esempio di tutta una letteratura che illumina con angoscia profetica la perdita di valore del soggetto nei meandri di un sistema oppressivo che annulla la personalità. Un modello che farà scuola, adattato a contatto con le terribili esperienze storiche del Novecento. George Orwell, in 1984, descrisse la capillarità del controllo poliziesco nel regime sovietico; ma prima di lui già Evgenij Zamjatin, col suo My (ormai introvabile: a quando una ristampa italiana?), aveva immaginato un «noi» uniformato, sciolto nel collettivismo forzato, con uomini che non hanno nomi ma solo numeri, soggetti a una pianificazione che ha tolto loro finanche la parvenza dell’identità. Storie che individuano soprattutto nel disinganno tragico del comunismo il meccanismo più infernale: l’utopia si converte nella distopia crudele, e l’ideologia che pretende di dare la libertà si traduce in una burocrazia raffinata che la nega.
Nella Russia sovietica è ambientato, ad esempio, L’uomo è forte di Corrado Alvaro, in cui il protagonista preferisce essere condannato piuttosto che essere controllato e sottoposto a una rete sinistra di tradimenti, delazioni e false accuse. All’uscita del libro, nel 1938, qualcuno vi lesse tra le righe una denuncia del clima di sospetto aleggiante anche nell’Italia fascista: si trattava di un riuscito travestimento? Alvaro negò ogni ambiguità, ma il libro venne vietato nella Germania nazista. Troppo realistico forse. Del resto, il secolo passato, che ha reso le ideologie parenti strette delle utopie, ha trasformato anche la fantascienza più cupa in una copia quasi fedele della realtà. Come scrive giustamente Muzzioli, che cosa sono gli olocausti, gli stermini e le torture se non spaventose «scritture della catastrofe»? Primo Levi e Solzenicyn hanno ben poco da invidiare a Orwell e non serve più l’immaginazione, sia pure nel suo lato più nero, ad annunciare la rovina con tanto di data di scadenza (il 1984 di Orwell o il 2001 di Arthur Clarke e di Stanley Kubrik).
Nel Mondo nuovo, Huxley preannuncia uomini fabbricati in provetta in giganteschi centri di incubazione, imbottiti e programmati sin dalla nascita a svolgere determinate funzioni; Ray Bradbury attende in Fahrenheit 451 un futuro in cui leggere libri sia un reato. Ma senza saperlo, sulle tracce della più inquietante distopia, e in anticipo sui tempi e sulle macabre previsioni della fantascienza apocalittica, s’erano già messi altri al disopra di ogni sospetto: Svevo aveva scritto nell’ultima pagina della Coscienza di Zeno che presto un’«esplosione enorme» avrebbe ridotto la terra a nebulosa errante nei cieli «priva di parassiti e di malattie». E prima ancora, Leopardi nelle Operette morali aveva incaricato un Folletto di avvertire uno Gnomo riemerso dalle viscere della terra che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Un modo come un altro per capovolgere i luoghi comuni di slogan ottimisti e ricordare, alla faccia dei solerti cantori delle «magnifiche sorti e progressive», che un mondo peggiore è (sempre) possibile.
«Il Giornale» del 28 luglio 2007

Come aiutare chi crede di voler morire

di Rino Cammilleri
Su DoctorNews, il quotidiano on line del medico italiano del 9 febbraio scorso, il professor Vincenzo Carpino, presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani (Aaroi), aveva dichiarato: «A noi anestesisti rianimatori non si può chiedere di salvare le vite umane e poi, nello stesso tempo, di spegnerle staccando la spina». Già, perché in caso di legalizzazione di testamenti biologici ed eutanasie varie, proprio questa categoria di medici sarebbe caricata del fardello. Il professor Carpino in quell’occasione chiedeva il diritto all’obiezione di coscienza e al Parlamento di legiferare.
Oggi si dichiara «soddisfatto per l’assoluzione del collega Mario Riccio», ma chiede «con forza una legge che chiarisca una volta per tutte i temi dell’eutanasia e del testamento biologico», perché «i medici non possono essere lasciati soli, scelte del genere non possono essere lasciate alla decisione dei singoli». Una sentenza «saggia, che pone al centro il principio di autodeterminazione del paziente e che ci vede favorevoli», dice il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnom), Amedeo Bianco. Ovviamente, Riccio ha commentato: «Il giudice, con la sua sentenza, ha ribadito quello che già sapevamo e cioè che il paziente può rifiutare le terapie, anche quelle salvavita, e questo suo diritto può essere delegato ad altra persona. Lo dice la Costituzione. Io ho soltanto posto in essere il volere del paziente». Già, ecco il punto.
L’8 luglio Renzo Puccetti, Specialista in Medicina Interna e Segretario del Comitato «Scienza & Vita» di Pisa-Livorno, si chiedeva «quanta autonomia vi sia nella decisione del paziente che fa richiesta di eutanasia». Risulta dagli studi che la depressione in pazienti del genere abbia un’incidenza addirittura quadrupla rispetto agli altri. «Tutti gli studi sono peraltro concordi nell’evidenziare un netto sotto-utilizzo e un ritardo nell’impiego dei farmaci antidepressivi in questi pazienti». Val la pena di riportare un episodio citato dallo stesso Puccetti e riguardante un medico scettico che su un forum asseriva la normalità della depressione in chi ha, per esempio, «un cancro terminale e irreversibile». Una mamma ha così risposto: «Chi le scrive è una mamma che ha perso una figlia appena 4 mesi fa, una meravigliosa figlia di 23 anni. Appena le diagnosticarono la malattia lottò con tutte le sue forze poi, ai primi insuccessi terapeutici, specialmente dopo grande sofferenza, incominciò a lasciarsi andare, lasciò gli studi ed incominciò a desiderare la morte. Fortunatamente ho incontrato una brava psichiatra che, con appena una pasticca di antidepressivo e qualche seduta terapeutica, ha ridato la forza di lottare a mia figlia; ha ricominciato gli studi universitari, ha preso la patente, ha preparato la tesi, ha ricominciato la sua vita di ragazza “normale”, pur soffrendo. Tutto questo avveniva fra una seduta di chemio e l’altra, un intervento di appendicectomia, un’embolia polmonare, un infarto polmonare, una micosi polmonare, un trapianto di cellule staminali. Sosteneva che erano incidenti di percorso... Più stava male e più si attaccava alla vita. Noi tutti della famiglia abbiamo constatato che il desiderio di “morte” iniziale era dovuto ad una forte depressione. Non le nego che mia figlia è stata aiutata anche da un buon padre spirituale che le è stato vicino fino alla morte; una morte che l’ha trovata vigile, serena e circondata da medici preparatissimi del reparto di ematologia Sant’Orsola di Bologna».
Commento di Puccetti: «Già! Medici, medici fino alla fine». Ma non tutti sono d’accordo. Infatti, se si può scaricare le responsabilità sul Parlamento, perché rompersi la testa con dilemmi etici? A proposito, ma nel convegno «Etica di fine vita: percorsi per scelte responsabili» di Udine, quasi tutti i 103 Presidenti degli Ordini provinciali, in rappresentanza di oltre 400mila medici appartenenti alla Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri), non avevano varato un documento che respinge ogni ipotesi di eutanasia? E nel nuovo Codice deontologico approvato il 16 dicembre 2006, all’articolo 17 non si legge: «Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte»? Boh. Ma sì, se la veda il Parlamento.
«Il Giornale» del 27 luglio 2007

I sanguinosi anni della contestazione

Nel 1968 le ansie improvvise di una generazione travolsero un centrosinistra troppo attento agli equilibri del proporzionale
di Matteo Sacchi
L’inizio fu in sordina. Nel gennaio del 1966 si ebbe una prima occupazione nell’Università di Trento, alla facoltà di Scienze sociali. Poi l’onda lunga che veniva dalla Francia, da quelli che oltralpe chiamavano «gli ingrati del benessere francese», investì in pieno i grandi atenei. Iniziò l’Università Cattolica di Milano con una feroce protesta studentesca (dal 15 novembre del ’67 sino al 20 gennaio dell’anno dopo). Seguirono a ruota quasi tutti gli altri atenei, a partire dalle facoltà di architettura. Le prime pagine dei giornali iniziarono a riempirsi di titoloni e di foto con quegli studenti così incongrui, nei loro golfini e giacchette, che facevano a botte con gli agenti di polizia. Chiamandoli «servi dei servi», dimenticandosi che erano quei figli del popolo per cui dicevano di combattere.
Iniziava così quel movimento complesso, e sfaccettatissimo, che ormai siamo abituati a liquidare con una parolina breve breve: «Sessantotto». Un movimento che il sistema politico italiano era poco o nulla adatto ad affrontare. L’esperienza degli esecutivi di centrosinistra iniziata nel febbraio del 1962, con il governo Fanfani, non si era rivelata in grado di fornire una maggiore stabilità al Paese, né di frenare i primi segni di malessere economico e, soprattutto, sociale. Avvisaglie che non erano vera crisi ma pervasiva sensazione di rallentamento, di assuefazione al nuovo tenore di vita, irrequietezza di una gioventù che non voleva essere anello di catena di montaggio.
Una situazione inutilmente denunciata dal segretario della Democrazia cristiana, Mariano Rumor, durante il X congresso del partito, nel novembre del 1967. I partiti di maggioranza erano troppo attenti alle logiche del bilanciamento interno, agli equilibrismi del proporzionale, per riuscire a rispondere agli stimoli, tutti esogeni alle strutture della politica tradizionale, che provenivano dalla società civile.
Anche i partiti di opposizione, tra i quali il ruolo egemone era ampiamente svolto dal Pci, non riuscirono in alcuna maniera a canalizzare adeguatamente le spinte che venivano dal basso. Il vuoto di leadership dopo la morte di Togliatti, avvenuta il 21 aprile 1964, e il seguente contrasto tra le «correnti» (termine che avrebbe fatto rabbrividire in tempi di centralismo democratico) di Giorgio Amendola e di Pietro Ingrao, impedì ad una dirigenza, che aveva le sue radici nello stalinismo e che riusciva al massimo a pensare nei termini di «rinnovamento nella continuità», di capire una protesta che si rifaceva contemporaneamente all’operaismo e all’anti autoritarismo colto di Marcuse. Il partito si vide così scavalcato a sinistra, basti pensare alle Tesi per il comunismo enunciate dai transfughi fondatori del Manifesto: Aldo Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Luciana Castellina.
Così, nonostante il fatto che le proteste squisitamente studentesche, nate con orizzonti limitati, fossero già estenuate e languenti nel giro di pochi mesi, i vertici di quel movimento confluirono in gruppi con occhio attento al conflitto sociale che covava nelle fabbriche: Potere operaio, Avanguardia operaia, Lotta Continua... Iniziava così l’epoca dei Cub (comitati unitari di base), degli scioperi a singhiozzo, l’affermazione del salario come «variabile indipendente dalla produttività». Una mobilitazione spontanea che lasciò spiazzati i sindacati confederali, almeno sin che lo statuto dei lavoratori del 1970 non ne ristabilì l’egemonia, incapaci quanto i partiti di governare il mutamento in corso nel mondo operaio.
Veniva a concretarsi una delle più profonde divaricazioni tra «Paese legale» e «Paese reale» della storia d’Italia. Una stagione in cui il tentativo di riformare le istituzioni, la scuola e il mondo del lavoro, creando uno spazio di politica condivisa, riassunta poi nella formula della «Solidarietà nazionale», giunse con ritardo. Quando gli scontri di piazza, il terrorismo delle Brigate rosse, le bombe e la crisi petrolifera avevano già precipitato il Paese nel gorgo sanguinoso etichettato, a posteriori, con la formula «anni di piombo» e che la stampa di allora definiva con meno vis retorica: «violenza degli opposti estremismi».
«Il Giornale» del 26 luglio 2007

Firenze: «Vi dimostro che la cultura è un affare»

Un concorso internazionale con bando pubblicato sull’«Economist» per scegliere il nuovo direttore. Nuovi sponsor privati tra cui Pinault e Arnault Parla Lorenzo Bini Smaghi, presidente della Fondazione Palazzo Strozzi
di Caterina Soffici
Firenze città morta. Firenze schiacciata tra la marea di turisti mordi e fuggi e i venditori di cappelli di paglia e pizza al taglio, scarpai e nuove griffe che hanno cacciato dalle prestigiose vie del centro i negozi storici. Il discorso è noto. Lo si è fatto migliaia di volte. Lo fanno con una malcelata perfidia i giornalisti stranieri quando periodicamente raccontano nei loro reportage di una città provinciale, in mano ai bottegai, troppo cara per quanto offre, eccetera. Gli autoctoni protestano. Protesta il sindaco, replicano i commercianti. Poi tutto si cheta fino allo scoppio della nuova polemica senza che niente muti.
Per una volta invece vogliamo parlare bene di Firenze. E raccontare di una esperienza che gli stessi fiorentini guardano con interesse e senza litigare tra di loro. E questa, per chi ha un minimo di dimestichezza con la patria dei guelfi e dei ghibellini, sarebbe già una notizia da prima pagina. Stiamo parlando di una nuova creatura piombata come un alieno nel cuore della città: la Fondazione Strozzi. Organizzatrice della grande mostra su Cézanne e gli impressionisti (l’esposizione si chiude domenica con un successo di pubblico - 1850 persone al giorno di media per un totale di 244mila visitatori - e di critica), la Fondazione Strozzi è una novità assoluta nel panorama italiano. Il presidente Lorenzo Bini Smaghi, economista, fiorentino doc attualmente a Francoforte nel comitato esecutivo della Banca centrale europea, è stato il deus ex machina di questa nuova creatura.
«Firenze mostre», la precedente società che gestiva gli spazi espositivi di Palazzo Strozzi, è fallita. Ogni anno Comune e Provincia erano costretti a ripianare i passivi. Come pensate di finanziare gli ambiziosi progetti della Fondazione?
«La precedente società non era gestita secondo criteri rigorosi di bilancio. Si spendeva senza avere certezza delle entrate. Qui c’è un piano industriale triennale e un business plan annuale. Il bilancio si aggira sugli 8 milioni all’anno, finanziato per circa 3 milioni da entrate proprie (biglietteria, cataloghi, royalties...), circa 3,5 milioni di finanziamenti privati (soci fondatori o sostenitori e sponsor) e circa 1,5 milioni dai soci istituzionali (Comune e Provincia di Firenze)».
Come ha fatto a mettere insieme i litigiosi soci pubblici, con le litigiose banche fiorentine e per di più attrarre prestigiosi sponsor privati?
«La chiave di volta per creare fiducia tra soci pubblici e privati si chiama Governance, cioè “buon governo” societario, ispirata alle aziende quotate in Borsa».
Un modo diplomatico per dire che riuscite a tenere fuori la politica?
«Se si assicura l’indipendenza degli amministratori, il cui unico obiettivo è di fare il bene dell’azienda e non seguire altri interessi, la parità di trattamento degli azionisti, la trasparenza nei conti, eccetera, come in un’azienda quotata, tutti - pubblico e privati - si sentono tutelati. La nostra Fondazione ha ad esempio il revisore esterno dei conti, KPMG».
Per il momento Ferragamo, Gucci, Nuovo Pignone sono tra i partner della fondazione. Comunque «marchi» fiorentini. Ci sono nuovi soci in arrivo?
«Credo che siamo la sola istituzione ad avere tra gli azionisti sia il Gruppo Pinault (con Gucci), sia il Gruppo LVMH di Arnault (con Pucci). Tra gli azionisti di livello internazionale abbiamo il gruppo alberghiero di Rocco Forte, l’Eni, Boston Consulting e Saatchi & Saatchi. La campagna di reclutamento non è finita e abbiamo vari altri candidati interessanti. E poi c’è la collaborazione con il Polo museale fiorentino grazie a Cristina Acidini».
Venezia, Firenze e Roma. Firenze, tra le perle turistiche italiane, è quella con la vocazione meno internazionale. Come mai si è disperso il patrimonio culturale fiorentino?
«La cultura c’è e c’è sempre stata. È mancata forse l’imprenditoria. Ci si aspettava che dovesse essere solo il pubblico a farsi carico dell’economia, anche culturale, della città. Fortunatamente un paio di imprenditori - Ferragamo e il Gruppo Fratini - si sono resi conto che questo avrebbe portato al declino. Si sono rimboccati le maniche e sono andati a trovare il sindaco e il presidente della Provincia con un progetto di partnership pubblico-privato per ridare slancio alla città. Vogliamo essere un esempio per altre iniziative del genere in Italia».
Accademia, Uffizi, Forte Belvedere, Palazzo Pitti, Palazzo Strozzi... Perché a Firenze non si è mai pensato di fare grandi eventi usando tutti gli spazi e le potenzialità, con mostre a tema di portata internazionale?
«Ci si è accontentati troppo a lungo del flusso turistico garantito dai grandi musei, che comunque è notevole. Poi ci si è accorti che questo non bastava perché il turista “mordi e fuggi” non ritorna, non si fidelizza. Firenze è come una banca sovracapitalizzata, e sta capendo che deve mettere meglio a frutto il suo enorme capitale. Questo richiede però metodi di gestione nuovi».
Caso più unico che raro in Italia, dove le strutture pubbliche vengono usate per piazzare l’amico di questo o quello, voi avete indetto un concorso internazionale per scegliere il nuovo direttore della Fondazione, pubblicando il bando sull’Economist e avete alla fine selezionato l’anglo canadese James Bradburne. Come riesce a dialogare con la politica senza farsene condizionare?
«La condizione per far fare un passo avanti ai privati era che la politica facesse un passo indietro, svolgendo un ruolo di indirizzo sulla qualità scientifica dei programmi ma non entrando nella gestione quotidiana e garantendo parità di trattamento tra gli azionisti. D’altra parte i fondi pubblici per la cultura sono ovunque in diminuzione e l’unico modo per attirare i privati è di coinvolgerli nella gestione. Ma in fin dei conti è una soluzione molto vantaggiosa per la politica».
I programmi della Fondazione: più Beaubourg o più Royal Academy?
«Palazzo Strozzi deve essere continuamente aperto, con eventi di tipo diverso, grandi mostre, concerti nel cortile, arte contemporanea, eventi multimediali e conferenze negli spazi della Strozzina. Chi passa per via Tornabuoni o piazza Strozzi deve essere invogliato ad entrare, non solo per ammirare il palazzo bellissimo, ma perché sa che c’è sempre qualcosa di nuovo e stimolante da vedere o da fare. Un piccolo Beaubourg, se vogliamo. A ottobre inaugureremo “La moda che cambia la moda”, una rassegna dedicata agli stilisti “rivoluzionari” degli ultimi vent’anni, in collaborazione con il Los Angeles County Museum of Art. Nel 2008 faremo rivivere in “Donne al potere” le due grandi regine di origine fiorentina Caterina e Maria de’ Medici ed esporremo i famosi arazzi creati per loro e dedicheremo “Impero Celeste” all’arte cinese antica. E nel 2009, anno di Galileo, la grande mostra storico-scientifica “Macrocosmo” ricreerà dalla primavera all’estate la rappresentazione dell’universo dall’antichità all’invenzione del cannocchiale».
Bookshop, caffè, il progetto per la Strozzina, il cortile, gli appuntamenti: in Italia qualcosa di simile lo si fa al Mart di Rovereto, un museo multifunzionale che però ha costi altissimi e infatti i contributi pubblici sono ingenti. La cultura è un bene pubblico che va sovvenzionato?
«C’è un’ampia letteratura economica che spiega i motivi per cui la cultura comporta ricadute pubbliche, che vanno dunque finanziate in parte con stanziamenti pubblici. La domanda è: quanto finanziamento pubblico? In parte questa domanda ha già trovato una risposta, perché le necessità di rigore dei conti pubblici riducono le disponibilità. E allora si devono trovare i finanziamenti privati. Questo è un lavoro nuovo, che richiede professionalità nuove. Ma se si riescono a trovare fondi per finanziare grandi eventi in tutto il mondo, perché non è possibile farlo in Italia dove c’è un capitale di base enorme?».
Salvatore Settis dice che anche il Moma, senza le donazioni della municipalità di New York non starebbe in piedi: lei è d’accordo?
«Quello che tiene in piedi il Moma è soprattutto la capacità imprenditoriale di chi lo gestisce e i fondi privati che riesce ad attrarre, con ricadute su tutta la città. In quelle condizioni vorrei ben vedere se la municipalità di New York non contribuisse anch’essa con le sue donazioni!».
«Il Giornale» del 25 luglio 2007

Ma la sentenza dimostra che non serve alcuna legge

di Eugenia Roccella
Il proscioglimento del dott. Mario Riccio, il medico che ha staccato la spina a Piergiorgio Welby, dimostra in modo evidente che non c'è bisogno di nessuna legge sul diritto a morire, e che la battaglia radicale o era perfettamente superflua, o tragicamente ambigua. La Costituzione italiana prevede, come è noto, il diritto ad abbandonare le terapie, ed è quello che fa, ogni anno, un piccolo numero di malati gravi. Lo fanno senza scandalo e senza clamore, garantiti da una norma costituzionale che mai nessuno ha messo in discussione.
Nel caso di Welby, staccare il respiratore che lo teneva artificialmente in vita implicava anche l'immediata somministrazione di forti dosi di sedativi, per evitare al paziente le terribili sofferenze di una morte per soffocamento. Perché allora indagare su Mario Riccio, se tutto era legale? Perché la campagna radicale era esplicitamente concentrata sull'eutanasia, sulla richiesta di una legge, e sulla rivendicazione della morte come diritto individuale. L'eutanasia, cioè il diritto al suicidio assistito nel caso si ritenga la propria vita non più degna di essere vissuta, non è l'abbandono delle cure. Il cuore del diritto a morire è il concetto di qualità della vita, e non il problema umanissimo di evitare la sofferenza. Welby, per esempio, ha rifiutato di essere accompagnato alla morte dal proprio medico, che gli aveva proposto una sedazione meno brutale, garantendogli comunque l'incoscienza e l'assenza di dolore. Invece si è preferito chiamare il dott. Riccio, che non conosceva il paziente, ma è venuto da lontano con la sua valigetta attrezzata, per compiere un gesto che avesse più impatto mediatico, che somigliasse il più possibile a una scelta eutanasica. L'ambiguità insomma era prevista e voluta: la disobbedienza civile non c'è stata, ma si doveva pensare che ci fosse.
Il compito del magistrato era accertare se la morte di Welby fosse dovuta alla sedazione, somministrata quindi con l'intenzione di uccidere, oppure all'abbandono della terapia, cioè al distacco dalla macchina che consentiva al malato di respirare. Ora che si sa che il dott. Riccio (come lui stesso ha sempre sostenuto), ha agito entro i confini della legge, tutta la polvere sollevata sul caso comincia a diradarsi, e si può vedere con chiarezza che una nuova normativa non è necessaria.
In questo campo, procedere per casi personali non aiuta. Basta pensare a Giovanni Nuvoli, protagonista di una vicenda densa di ombre e di contraddizioni. Se Piergiorgio Welby era un militante, e aveva consapevolmente deciso di dare significato alla propria morte trasformandola in un evento politico, Nuvoli era solo un uomo disperato, che più volte aveva cambiato parere, e la cui volontà di morire oscillava a seconda del contesto e della situazione. Oggi si dice che è stato costretto a una fine crudele, per denutrizione: ma è la stessa morte che nel caso di Terri Schiavo è stata considerata un atto pietoso, una scelta di eutanasia che avrebbe liberato la malata dalla sofferenza e ne avrebbe attuato le volontà. Il concetto di qualità della vita è, infatti, intrinsecamente ambiguo: dovrebbe essere un criterio soggettivo, un giudizio che solo il malato può dare, ma diventa subito un criterio oggettivo, stabilito da medici, esperti, giudici, parenti più o meno amorevoli. Il diritto a governare la propria morte, punto estremo dell'autodeterminazione individuale, si rovescia regolarmente nel suo contrario, nella consegna del proprio corpo e dell'ultimo soffio di vita nelle mani di altri. È così in Olanda e in Belgio, e ovunque sia in vigore una legge sull'eutanasia.
Quando si tratta di vita e di morte è necessario giudicare caso per caso, ed essere cauti fino all'estremo: perché l'errore in questo campo non è rimediabile, e si chiama omicidio. La scelta personale di abbandonare le cure non può essere trasformata in una lotta per il diritto a morire, non può essere ogni volta lanciata sulla scena politica come un sasso dal cavalcavia. Se fossimo meno tesi a tirare conclusioni da ogni singola storia, meno disposti a farne una vicenda esemplare da spendere immediatamente, il dibattito pubblico forse ne guadagnerebbe.
«Il Giornale» del 25 luglio 2007