21 luglio 2007

Discutiamo finché vogliamo ma lavorare non è una condanna

A forza di pensioni e scalini, non perdiamo l'obiettivo
di Davide Rondoni
Pensione, scaloni, scalini, professioni usuranti... È tutto un parlare di lavoro, o meglio della sua fine. Ho sentito un manifestante che parlava della pensione come una sorta di obiettivo, di sogno che si vuole conquistare... Insomma, oggi si discute in vario modo intorno al lavoro. Si sono sentite anche un certo numero di cose bizzarre: dimissioni fantasma, stravaganti elenchi di lavori usuranti e altre pantomime. Ma il problema è serio, e credo, non solo per i noti motivi di garanzie sociali connesse alle scelte che si stanno per fare. Più a fondo, ma più urgente, c’è nel nostro Paese una questione che riguarda la radice stessa di quella esperienza che chiamiamo con questo nome, un tempo evocatore di passioni e di grandi movimenti: il lavoro. Molti segni indicano che sta venendo bene una idea positiva del lavoro. Ovvero che a quel dovere che tutti abbiamo di fare fatica su un pezzo di realtà (che sia il banco di un bar, una cattedra universitaria, o una pompa di benzina) si fatica sempre di più a trovare un significato. Tutta l’aspettativa che la maggioranza dei giovani investe sul lavoro sembra ridotta alle questioni di stipendio e di carriera. Esigenze sacrosante, che però se slegate dalla scoperta di quale significato ha il lavorare umano rischiano di diventare occasioni di continua frustrazione e di lamento. Lavorare sembra solo una specie di condanna da cui uscire il prima possibile, o da cui trarre il massimo vantaggio personale, anche a costo di passare sopra agli altri, come si vede anche in recenti fatti di cronaca e ogni giorno accanto a noi. C’è un inasprirsi di conflittualità, o spesso una difficoltà di collaborazioni. Ognuno appare spesso ripiegato a trarre il dovuto, lamentandosi che è poco (il che è spesso vero) e tirando a dare il minimo di sé. Quali sono oggi gli ideali, le vive tradizioni culturali che insegnano agli uomini atteggiamenti adeguati per trarre dall’esperienza lavorativa un "di più" di umanità e non solo la pena di una fatica ? Fino a non molto tempo fa erano attive tradizioni che vedevano nel lavoro la circostanza che maggiormente esalta la responsabilità, il desiderio di riscatto non solo economico e la condivisione di un sentimento di bene comune. Ora molte di queste voci tacciono. La Chiesa invece, non solo con atti di magistero, ma con infinite occasioni educative e di attenzione alle emergenze lavoro, invita gli uomini a guardare il lavoro, il dovere come a una occasione in cui investire i propri desideri più profondi, e a mettere alla prova le proprie responsabilità. Dalla figura di San Giuseppe, a quella di tanti patroni del lavoro, fino agli esempi di don Bosco o delle grandi attività di formazione degli orionini, o dei centri di solidarietà di vario genere. Una instancabile compagnia ai lavoratori. Educando, come diceva Péguy, al valore del lavoro ben fatto, o alla preoccupazione di fare degli ambienti di lavoro luoghi meno disumani possibile – sia che si rivesta il ruolo del capo o dell’ultimo degli addetti. Dio è l’eterno lavoratore, dice il Vangelo. Uno, insomma, che non va in pensione e non stacca mai. Occorre il senso di partecipare in qualche modo, attraverso il proprio piccolo, spesso stupido lavoro, a quel lavoro immenso, per poter gustare il significato e la responsabilità del compito a cui si è chiamati. Come in ogni cosa, come per l’amore e per la ragione, anche lo sguardo con cui si giudica il lavoro dev’essere aperto a cercare l’infinito. Altrimenti ogni attività, gratificante o dura che sia, rischia di trasformarsi in una specie di galera. Il lavoro per uomini che si sentono schiavi non è una cosa da uomini. E non basta certo una giusta pensione, a 58 o a 65 anni a riscattare una vita da schiavi.
«Avvenire» del 20 luglio 2007

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