02 ottobre 2007

‘900: eroi, infami e redenti

In «Cultural Amnesia» lo studioso giudica intellettuali, scrittori, artisti tra nazismo e stalinismo
di Ranieri Polese
Il critico Clive James: «Brecht maestro di cinismo, Sartre abietto, Mann e Vargas Llosa si ravvidero»
Ci pensava da quarant’anni a scrivere «le note a margine» del suo tempo, ora Clive James ci è riuscito. Con questo volume di 876 pagine, Cultural Amnesia, uscito in Inghilterra (Picador) e negli Stati Uniti (W.W.Norton & Company). Raccoglie 106 ritratti di intellettuali, scrittori, artisti, uomini di cinema, sarti, cantanti. Undici di loro - da Tacito a Hegel, da Montesquieu a Heine - appartengono al passato. Ma il grosso del libro è dedicato a figure del Novecento. «Un secolo in cui gli intellettuali non si sono comportati al meglio» spiega James, raggiunto al telefono nella sua casa a Londra. «Di fronte alle due forme estreme di totalitarismo che il Novecento ha prodotto, il nazismo e il comunismo staliniano, molti, troppi di loro hanno finto di non vedere, di non sapere. Persone spesso di grande talento, ma proprio per questo meno facilmente scusabili». Ecco, il ponderoso volume parla di questa «amnesia culturale», del consapevole dimenticarsi della realtà dei fatti (lo sterminio degli ebrei, i gulag e le purghe di Stalin), magari per asserire contro ogni morale evidenza che il mondo hitleriano o staliniano è pur sempre il migliore. O, in altri casi, per rifugiarsi nell’illusione di un’arte senza tempo, in un pensiero che si crede puro. Sessantasette anni, una lunga carriera di giornalista, uomo di tv, critico, scrittore (ha al suo attivo tre raccolte di poesia, quattro romanzi, un’autobiografia che già è al quinto volume, una quindicina di libri di critica letteraria e televisiva: per dieci anni è stato il critico Tv dell’Observer), Clive James, australiano di Sydney trasferitosi a Londra nel 1961, è sposato con Prue Shaw, filologa, italianista, allieva di Gianfranco Contini. Dieci anni fa, sulle pagine del New Yorker, scrisse un commosso requiem per la principessa Diana a cui era legato da una sincera («platonica» ha dichiarato molte volte) amicizia. La popolarità vastissima di cui gode in Gran Bretagna dipende dai programmi televisivi, che conduce dalla metà degli anni 70. Nel ‘75 fu lui a ospitare la prima apparizione in Tv dei Sex Pistols (il suo ricordo è eloquente: «bastards»). Coltissimo, spregiudicato, amante delle contaminazioni spericolate, potrebbe essere descritto come un misto fra Costanzo, Pivot e il supercritico tedesco Marcel Reich-Ranicki. Anche se nel corso degli anni non ha mai smesso di fare il critico letterario per giornali seri (il Times Literary Supplement, per esempio, o il New Yorker), le sue prestazioni sul piccolo schermo non gli hanno giovato molto presso l’intellighenzia inglese («I miei libri, anche questo, hanno migliori recensioni in America»), che spesso gli riserva acide e supponenti punzecchiature. « Ho sempre cercato di conciliare il serio e il faceto, l’erudizione e il pop, cultura alta e cultura bassa. Il mio ideale - e in questo libro gli dedico un omaggio appassionato - è stato Egon Friedell, ebreo viennese, attore di cabaret e filosofo: sapeva unire la profondità del pensiero alla leggerezza del comico». Quattro giorni dopo l’Anschluss, il 16 marzo 1938, Friedell si uccideva buttandosi dalla finestra.
Eroi & Infami. Nella galleria di personaggi del secolo breve, Clive James opera una drastica distinzione. Da un lato le sue «bestie nere», dall’altra gli eroi, quelli che a costo pure della vita non hanno rinunciato all’imperativo morale, al dovere di comportarsi umanamente. Appartengono a quest’ultima schiera Sophie Scholl, la ragazza di Monaco che, nel 1943, a soli 22 anni andò al patibolo con i compagni della Rosa Bianca. E c’è pure il generale Henning von Tresckow, il capo del fallito attentato a Hitler del luglio 1944: molti ufficiali che parteciparono alla congiura dissero che non volevano più tollerare il trattamento inflitto agli ebrei. C’è Nadezda Mandel’stam, la vedova del poeta Osip, morto nel gulag staliniano. Dall’altra parte, al numero uno («è il mio modello di demonio») c’è Sartre, a cui dedica un capitolo ferocemente corrosivo. « È l’esempio di come un grande pensatore e un grande scrittore possa essere umanamente, politicamente abietto. Nemico della borghesia, fino agli ultimi anni di vita continuò a negare l’orrore del sistema sovietico. Molto tardi, quando fu costretto a riconoscere l’esistenza dei gulag, disse che erano solo degli errori accidentali, che comunque non intaccavano le buone intenzioni del socialismo reale. Eppure era dotato di grande talento, aveva intelligenza e acutezza. Ma il suo perverso rifiuto di vedere lo colloca in cima alla lista dei dannati». Albert Camus e poi Raymond Aron, paladini del pensiero liberale e di un umanesimo vero, vennero osteggiati e emarginati dall’intellighenzia di sinistra, il cui slogan era: meglio aver torto con Sartre che ragione con Aron. Altre bestie nere, Robert Brasillach, il giornalista brillante che nella Francia di Pétain applaudiva alla persecuzione degli ebrei. Altri infami - anche se non hanno un capitolo tutto per sé sono Brecht e Lukács. «Brecht è citato ogni dove nel libro. È forse il massimo poeta del ‘900 tedesco, ma la sua doppiezza, il suo cinismo me lo rendono intollerabile. Sapeva quello che accadeva nella Russia di Stalin, eppure non disse mai niente. Dopo la guerra si trasferì a Berlino Est, ma pubblicava da un editore occidentale e si faceva pagare su un conto svizzero». Con loro sta in buona compagnia anche Alexandra Kollontai, bolscevica e protofemminista che preferì adeguarsi alle direttive del partito, ignorando la sorte di migliaia di donne mandate a morire in Siberia. E un altro nome si aggiunge alla lista, quello di Ernst Jünger, «grande scrittore, uomo di raffinata sensibilità, che però finse di non vedere i crimini di Hitler. Poi, almeno fino dal 1942-43, quando ebbe la certezza degli stermini e dei Lager, la sua scelta fu di cercare l’arte pura». I redenti. Non tutti, dice James, hanno perseverato nella loro amnesia. «C’è Vargas Llosa che, arrivato a Parigi su posizioni marxiste e sartriane, sceglie di seguire l’umanesimo di Camus. E c’è lo storico François Furet, che lasciò il Partito comunista nel ‘56 e nei suoi studi sulla Rivoluzione francese smontò i miti del giacobinismo e del leninismo. Non ho invece nessuna simpatia per Trotzkij: è vero che finì vittima di un sicario mandato da Mosca, ma le sue idee erano sempre quelle di quando ordinò il massacro dei marinai di Kronstadt, insorti contro Lenin, o di quando lamentava che l’applicazione delle misure di collettivizzazione dell’agricoltura (costarono molte centinaia di migliaia di morti) non fossero abbastanza dure». Ma forse il tipo ideale del ravveduto è, per James, Thomas Mann: la storia, con la presa del potere di Hitler, lo costrinse all’esilio e a rivedere il suo pensiero, ad abbandonare le tentazioni reazionarie espresse all’indomani della sconfitta del 1918. Volle capire come il suo Paese aveva potuto scegliere il Male assoluto, si chiese in quale misura i tedeschi potevano riscattarsi da quell’orrore, parlò - ai suoi connazionali e al mondo intero - dei doveri dell’essere umano. Per ricordare. Cultural Amnesia è un libro dedicato alla giovane generazione. Paradossalmente, l’estendersi della democrazia liberale su scala mondiale comporta per i giovani una crescente difficoltà a ricordare il passato. Un passato che è fatto di guerre, conflitti, orrori. I conflitti tendono a scomparire, anche la memoria si accorcia». È, certo, il palinsesto delle letture, delle scoperte, della vita intellettuale di Clive James. Ma vuol essere anche uno stimolo per i nuovi lettori perché vadano a cercarsi i libri di cui si parla. Soprattutto quando incontrano autori di altri Paesi. L’Austria prima di Hitler, o l’Italia. A cui riserva cinque ritratti: Contini, Croce, Fellini, Montale, Virginio Rognoni («il ministro degli Interni degli anni di piombo che seppe combattere il terrorismo senza danni per la democrazia»). Appassionato lettore di Croce, chiude il capitolo a lui intitolato con un’acuta notazione sulla differenza che separa noi italiani dagli anglosassoni. «In Italia c’è sempre un filosofo da leggere prima di leggere qualsiasi altra cosa, perfino il manuale di istruzioni di un nuovo modello di lavatrice».
«Corriere della Sera» del 14 agosto 2007

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