12 ottobre 2007

Come si combatte la precarietà

Lavoro, il falso bersaglio della legge Biagi
di Pietro Ichino
È ben comprensibile che il dibattito in seno alla maggioranza si concentri sulla questione del lavoro precario o maltrattato: qui più che altrove è in gioco il valore dell’uguaglianza, valore fondante di una sinistra degna di questo nome. Questa però deve curare attentamente la bontà della diagnosi, se vuole che la terapia per cui si batte sia credibile e, soprattutto, efficace. L’aumento del lavoro precario non è causato né dalla legge Biagi né dalla legge Treu del 1997. Lo dimostra, innanzitutto, il fatto che esso è in atto in Italia da almeno un quarto di secolo (e negli ultimi sei anni esso ha subito semmai un netto rallentamento). Lo conferma, poi, il fatto che lo stesso aumento si sta verificando da tempo in tutti i Paesi occidentali, Australia compresa, indipendentemente dalle tendenze delle rispettive legislazioni in materia di lavoro. E il tasso italiano di lavoro precario (contratti a termine, co.co.co. e lavori a progetto) rispetto al totale - circa un lavoratore ogni sette - è rimasto al di sotto, sia pur di poco, della media europea. Tutto questo non significa affatto che non ci sia qui un grave problema da affrontare. Ma occorre individuarlo bene, per non rischiare di sbagliare clamorosamente il bersaglio. Il problema consiste in un sensibile e costante aumento delle disuguaglianze di produttività tra i lavoratori, che si traduce in crescenti disuguaglianze di trattamento fra di essi. Per avere un’idea di quanto si sta verificando, si consideri ciò che accadeva negli anni Cinquanta o Sessanta, quando due terzi della forza-lavoro erano costituiti da operai, per lo più impegnati in mansioni ripetitive e parcellizzate di diretta modificazione della materia: nel contesto di quell’organizzazione del lavoro, fatto 100 il rendimento normale, l’operaio più produttivo poteva arrivare a un rendimento 130 o 140, mentre quello del più debole non scendeva quasi mai sotto quota 80. Era molto raro che fra il rendimento del primo e quello del secondo ci fosse un rapporto superiore a 2. Oggi la diretta modificazione della materia è affidata quasi dappertutto alle macchine; la grande maggioranza dei lavoratori opera su flussi di informazioni o sulle macchine stesse; e l’applicazione delle nuove tecnologie fa sì che la possibile differenza di produttività fra due lavoratori, anche di basso livello, possa essere di 10 o persino 100 a 1! Ad aggravare il problema si aggiunge, per un verso, il ritmo sempre più incalzante di sostituzione delle tecnologie applicate: per ogni cambiamento ci sono i lavoratori che sanno adattarsi, sanno «saltare sull’autobus» dell’innovazione, e quelli che non ci riescono, restano indietro. Vi contribuisce, per altro verso, la globalizzazione dei mercati, che espone soprattutto i lavoratori professionalmente più deboli dei Paesi occidentali alla concorrenza di quelli dell’Asia o dell’Europa orientale. Il ritmo dell’evoluzione tecnologica e la globalizzazione penalizzano la parte più debole dei nostri lavoratori, aggravandone il distacco dagli altri nella capacità di trovare lavoro e, quando riescono a trovarlo, nel trattamento che ottengono, compreso il grado di stabilità. Qualsiasi forza politica che abbia a cuore il valore fondamentale dell’uguaglianza tra i cittadini, e in particolare tra i lavoratori, deve porre questo problema al centro della propria iniziativa. Ma l’uguaglianza di cui stiamo parlando non è di quelle che si possono «garantire» con un tratto di penna del legislatore. Essa va costruita nel vivo della società civile, compensando vigorosamente il deficit di cui soffrono i lavoratori più deboli con l’offerta di un sovrappiù di servizi efficaci di formazione, informazione e assistenza alla mobilità. D’altra parte, ritornare alla legislazione del lavoro degli anni Settanta, quando la sola alternativa era tra il lavoro stabile a tempo pieno e la disoccupazione, non gioverebbe per nulla ai lavoratori più deboli. Anche perché la produttività individuale dipende molto dal contesto in cui il singolo si inserisce; e una certa mobilità nella fase iniziale della carriera lavorativa può giovare moltissimo nella ricerca del posto in cui il proprio lavoro sia meglio valorizzato. Tanto questo è vero, che nella seconda metà degli anni Settanta furono proprio la Cgil dei Lama e dei Trentin, la Cisl dei Carniti e dei Crea, appoggiate da tutta la sinistra politica, a chiedere e ottenere l’introduzione dei contratti di formazione e lavoro - cioè una forma di lavoro precario, un lungo periodo di prova - come strumento utile per favorire l’accesso al lavoro dei giovani. Sta di fatto, comunque, che proporsi di affrontare il problema dell’aumento della disuguaglianza tra i lavoratori con l’abrogazione delle leggi Treu e Biagi significherebbe sbagliare clamorosamente il bersaglio: la questione dell’aumento della disuguaglianza tra i lavoratori resterebbe totalmente irrisolta. E, sulla distanza, proprio i militanti più accesi di questa battaglia si rivolterebbero contro chi li ha guidati nel vicolo cieco.
«Corriere della Sera» del 20 agosto 2007

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