19 ottobre 2007

«Ero per l'eutanasia, ora ho il cancro. E voglio vivere fino all'ultimo giorno»

Sylvie Ménard, oncologa milanese: mi è crollato il mondo, poi sono rinata
di Simona Ravizza
«Ho il cancro», dice incredula a se stessa. «Ho il cancro proprio io che per trent’anni l’ho studiato per curare gli altri», si ripete ogni secondo. «Ho il cancro e so che sono destinata a morire», è il suo pensiero fisso. La diagnosi che un collega medico le comunica il 27 aprile 2005 risuona come un mantra nella testa di Sylvie Ménard per una settimana: lei, alla guida dell’Oncologia sperimentale dell’Istituto dei tumori di Milano, tra i fiori all’occhiello della sanità a livello italiano, proprio lei improvvisamente si trova a non essere più la ricercatrice dalle 300 pubblicazioni internazionali sulle terapie antitumorali, ma solo una donna di 60 anni, compiuti il 1° luglio, con un tumore al midollo osseo. E per di più inguaribile. «Sono morta e rinata nello stesso tempo - confessa -. È come se nel mio cervello ci fosse stato un bypass cerebrale». C’è una nuova Sylvie Ménard oggi. Dopo avere combattuto per tutta la sua carriera per riconoscere ai malati il diritto di morire con l’eutanasia, da due anni e mezzo - meglio da quel 27 aprile 2005 - il medico rivendica con forza il diritto di vivere. «Adesso che per me la morte non è più un concetto virtuale non ho nessuna voglia di andarmene - dice la ricercatrice mentre mangia tagliatelle ai funghi durante la pausa del convegno sull’Eutanasia in oncologia in via Venezian -. Anche se concluderò la mia vita in un letto con le ossa che rischiano di sbriciolarsi, io ora voglio vivere fino in fondo la mia esistenza». Appena le comunicano i risultati degli esami («Una forma gravissima di mieloma»), nonostante le sue conoscenze mediche, la Ménard prende in mano un testo scientifico. Lì legge un’altra sentenza choc: «Le statistiche dicono che nel mio caso la sopravvivenza media è di tre anni». Da quel giorno, e per un bel po’, Sylvie rinuncia al suo hobby di piantare fiori nel giardino di casa consapevole che non li avrebbe visti crescere. Iniziano i cicli di chemioterapia, le fanno due trapianti di midollo osseo. Le difficoltà dei pazienti che devono affrontare le liste d’attesa le sperimenta sulla sua pelle, mille dubbi l’assalgono nella scelta dell’ospedale dove farsi curare. «Alla fine ho deciso di restare qui all’Istituto dei tumori - spiega -. Posso avere le stesse terapie che avrei negli Stati Uniti senza fare affrontare a mio marito e a mio figlio un viaggio della speranza». Del periodo trascorso in una camera sterile di via Venezian la Ménard ricorda gli sguardi d’affetto degli amici al di là del vetro: «Perché mai dovrei rinunciare a queste emozioni? Sono stati, comunque, bei momenti». Da settembre Sylvie Ménard, parigina d’origine, fa parte della «Consulta nazionale dei medici ammalati per la riforma della medicina», insediata da Livia Turco il 6 settembre. Il suo sogno è contribuire a rendere più umana l’assistenza. «Punto di partenza: il ministero della Salute deve mettere a disposizione su Internet una mappa con i centri d’eccellenza dove potersi rivolgersi a seconda del tipo di malattia, con l’elenco dei casi seguiti e delle apparecchiature a disposizione. I pazienti devono potere essere sicuri di avere le migliori cure possibili». La ricercatrice pensa spesso anche alle parole di Sandro Bartoccioni, un pioniere della cardiochirurgia, ammalato di tumore e scomparso di recente: «La medicina oggi può e deve togliermi il dolore - dice il cardiochirurgo nel libro Dall’altra parte, scritto con altri due colleghi malati, Gianni Bonadonna e Francesco Sartori -. Se non lo fa, io mi ucciderò, ma non sarà un suicidio, sarà un’omissione di soccorso». La convinzione della Ménard è la stessa: «Uno decide di morire se è solo e soffre come un cane - sottolinea -. È la sconfitta del sistema sanitario, impotente davanti alla sofferenza risolvibile con le cure palliative». Alle 15 di ieri, camice bianco e capelli sbarazzini, il medico prende la parola nell’aula magna di via Venezian. La ascoltano colleghi di lavoro, ma anche compagni di malattia: «Io di eutanasia non voglio neppure sentire parlare -, dice con la voce ferma -. E del testamento biologico? Da sana l’avrei sottoscritto, oggi l’avrei dovuto stracciare». Da qualche tempo Sylvie Ménard è tornata a gettare semi nel suo giardino. Gli ultimi sono quelli di un albero.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2007

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