25 ottobre 2007

"Guerra e Pace" in tv storia per analfabeti

Così la Rai trasforma in soap-opera il capolavoro epico di Tolstoj
Di Antonio Scurati
L’Italia è un Paese culturalmente arretrato. Qualsiasi valutazione su Guerra e pace, la fiction che prometteva di riportare la grande letteratura in prima serata su Rai Uno, deve partire da questa constatazione.

Nessun giudizio di valore ne può prescindere: si tratta del prodotto culturale di punta di un Paese culturalmente arretrato. L'assunto di partenza, per quanto spiacevole, è purtroppo incontestabile. Tutti i dati statistici e i parametri sociologici lo confermano. Al giro del millennio, in Italia aveva il diploma appena il 42 per cento della popolazione adulta compresa tra i 25 e i 64 anni contro la media europea del 59 per cento; solo il 9 per cento degli italiani adulti possedeva una laurea contro una media europea del 21 per cento. In Italia si producono poco più di 750 brevetti l'anno, mentre la Spagna ne deposita circa 2000 (la Germania 15000). Nel 2002 in Italia si sono vendute 102 copie di quotidiani ogni mille abitanti contro una media europea, comprendente anche l'Italia, di 270. I dati relativi al numero di libri acquistati e letti disegnano, anno dopo anno, uno sconfortante scenario di deserto della lettura pubblica. Ne citerò uno solo: quasi il 70 per cento di commercianti, professionisti e imprenditori dichiara di non leggere nemmeno un libro all'anno. Ma la cosa più grave è che non li leggono perché molti di loro non sanno più leggere: secondo un'indagine condotta dal Cede - come scrive Tullio De Mauro in La cultura degli italiani, un libricino che tutti gli italiani dovrebbero leggere se sapessero ancora farlo - più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi quindici milioni sono semianalfabeti, altri quindici milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione.
La fiction prodotta dalla Lux Vide assieme alla Rai è stata trasmessa in un Paese nel quale il 66 per cento della popolazione manifesta un'insufficiente competenza alfabetica e aritmetica funzionale. Il che significa, tradotto in soldoni, che buona parte dei milioni di italiani che domenica e lunedì hanno assistito alla prime due puntate di Guerra e pace non sarebbero in grado di leggere il romanzo da cui proviene. Non ne hanno mai avuta la capacità linguistica o non ce l'hanno più. Sembra inverosimile che nell'ottobre del 2007, dopo sessant'anni di pace e crescente benessere, la situazione culturale italiana sia ancora quella di un eterno, interminabile dopoguerra. Ma tant'è. Con questa strisciante selvatichezza dobbiamo fare i conti. E, allora, salutiamo con favore il tentativo di trasmissione dell'eredità culturale via etere, rallegriamoci per i sei milioni e mezzo di telespettatori che lo hanno scelto e poi facciamo questi conti. E i conti si fanno chiedendosi non che cosa la fiction di Guerra e pace restituisca al genio letterario di Tolstoj ma che cosa restituisca a noi del suo capolavoro, non quanti debiti saldi con lo strepitoso romanzo cui s'ispira ma quanto del lascito di quella formidabile eredità culturale giunga fino ai telespettatori odierni e quanto si disperda. Così si fanno i conti con la tradizione: non stabilendo quanto le dobbiamo ma quanto ci prendiamo, o ci perdiamo, della sua forza immane.
Molto, purtroppo, va perduto. Soltanto due esempi. Innanzitutto va perduto il meraviglioso respiro epico del racconto tolstojano, quella qualità che scaturisce dal procedere lento e maestoso del passo narrativo di un romanzo grandioso. Nel libro, al principio di quel cammino, la realtà è soltanto una frantumaglia di allusioni orecchiate in un pettegolezzo da salotto ma alla fine quell'incedere inesorabile e magnanimo consente al lettore di abbracciare con un solo sguardo un intero mondo, un'intera epoca e, attraverso di essa, l'umanità tutta. Nella versione tv, invece, una girandola di situazioni consumate in fretta conduce precocemente all'epifania del divino sul campo di battaglia di Austerlitz e lo svilisce al semplice svenimento di un personaggio (il principe Andrej) che ancora non esiste. Lo s'imputerà alla dittatura del telecomando, ma questo può valere per la mediocrità di una serata qualunque trascorsa a fare zapping non per la straordinaria occasione di televisione festiva offerta da Guerra e Pace. Altrimenti meglio non scomodare Tolstoj.
L'altra cosa che va perduta è una delle più grandi invenzioni dovute al genio narrativo di Tolstoj: la capacità di raccontare le vicende individuali sullo sfondo di quelle collettive, di mettere il mondo umano - la pace - a contrasto con il mondo storico - la guerra. Andrej, Natasa, Pierre, sono - come notava Leone Ginzburg - «personaggi umani che amano, soffrono, sbagliano, si ricredono, cioè, in un parola, vivono»; ma sono simultaneamente personaggi storici condannati a recitare una parte che non è stata scritta né da loro né per loro, anche se loro immaginano d'improvvisarla. La versione tv, invece, elimina quasi completamente la dimensione storica, riducendo le scene di massa a momenti quasi grotteschi, le guerre napoleoniche e l'insurrezione del popolo russo a un rumore di fondo, l'intreccio troppo spesso a un piccolo dramma sentimentale da camera in odore di soap-opera. In questo modo si smarrisce proprio il dono che dall'arte narrativa di Tolstoj giunge fino alle narrazioni televisive seriali dei nostri tempi. Le migliori serie tv hanno, infatti, cominciato fin dagli anni '80 a far uso di strutture narrative complesse grazie alle quali l'evoluzione cronologica delle vicende legate alla vita privata dei personaggi scorre parallelamente a quella di una vicenda collettiva con la quale si incastra ripetutamente. In questo modo, il racconto delle piccole vicende sentimentali di individui simili a noi entra in risonanza con l'eco più vasta della vicenda collettiva, che può essere la cronaca di un reparto ospedaliero di medicina d'urgenza, quella di un distretto di polizia, o la storia d'Europa, come nel caso di Tolstoj. Insomma, da questo punto di vista, c'è più Tolstoj in ER o in NYPD che non nel Guerra e pace visto su Rai Uno.
Ma la strada da percorrere è questa. L'Ottocento di Tolstoj, il secolo in cui fiorì la grande civiltà del romanzo, è nostro contemporaneo più di quanto non si creda. Bisogna solo abbandonare l'idea del divorzio tra la cultura tradizionale di matrice letteraria e la cultura visuale oggi imperante. Dobbiamo propiziare, invece, il matrimonio tra le punte più avanzate della narrazione televisiva e i secoli di grande letteratura che ci siamo lasciati alle spalle. Potrebbe scaturirne uno sposalizio salvifico anche per un Paese culturalmente arretrato. Non siamo noi che dobbiamo salvare il nostro grande passato. E' lui che verrà in nostro soccorso.
«La Stampa» del 24 ottobre 2007

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